Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 27/07/2009, a pag. 6, l'articolo di Marcello Foa dal titolo " Ecco perché non si può lasciare il campo alla violenza dei talebani " e dalla STAMPA, a pag. 5, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " La regia di Baradar il “cugino” di Karzai che vuole l’Emirato ". Ecco gli articoli:
Il GIORNALE - Marcello Foa : " Ecco perché non si può lasciare il campo alla violenza dei talebani "
Marcello Foa
Una frase, in piena notte, guardando le modelle che a Motta Visconti, in provincia di Milano, sfilavano per la selezione di Miss Padania, e Umberto Bossi è tornato ad essere il Gianburrasca della politica estera italiana; originale, ma non sempre coerente, dall’euro al Kosovo. Ora tocca all’Afghanistan ed è di nuovo bufera o, più probabilmente, solo un temporale d’estate, che fa rumore, ma passa in fretta.
Bossi vorrebbe «portare a casa tutti i soldati italiani impegnati in Afghanistan». La ragione? «La missione costa un sacco di soldi e, visti i risultati, bisognerebbe pensarci su». Poi riconosce «che in Afghanistan c’è un problema internazionale che non è semplice da risolvere». Ma è troppo tardi, le agenzie hanno registrato le sue parole.
Di buon mattino tocca al ministro della Difesa Ignazio La Russa, precisare che la linea del governo non cambia. «Se pensassi da papà, come ha fatto Bossi, sarei d’accordo con lui, ma da ministri, come siamo entrambi, sappiamo che i ragazzi della Folgore e delle Forze Armate portano avanti un compito irrinunciabile, imprescindibile». Già, perché l’Italia non può permettersi sentimentalismi quando prende impegni in campo internazionale. «I ragazzi torneranno a casa quando avranno concluso l’obiettivo della missione». Il messaggio è chiaro ed è condiviso dal Pdl al completo.
Il capo della Farnesina Frattini annuncia addirittura l’invio di Tornado a sostegno delle nostre truppe, Brunetta ricorda che in Afghanistan «si gioca la nostra libertà». A sinistra solo l’Italia di Valori va in scia a Bossi chiedendo che «venga ridiscusso il senso della missione», il Pd no. Secondo Francesco Rutelli «non si può tornare indietro», mentre il segretario Franceschini punzecchia il governo dichiarando che «i ragazzi italiani che ogni giorno rischiano la vita hanno diritto a vedere dei ministri che non litighino tra di loro». Insomma, poca roba. Bossi per tutta la giornata tace, analogamente ai suoi collaboratori. Forse il temporale è già passato.
Sia chiaro: è lecito chiedersi se la questione afghana sia stata affrontata con saggezza. Doveva essere una guerra rapida, condotta dall’America all’indomani dell’11 settembre, con il plauso del mondo, per punire Al Qaida e i talebani. E inizialmente vincente, ma quando si trattò di concluderla davvero, nel 2003, l’Amministrazione Bush preferì dirottare le sue truppe migliori contro Saddam, lasciando a poche migliaia di soldati della coalizione internazionale il compito di garantire una pace che risultò ben presto apparente. una leggerezza, pagata a caro prezzo. E infatti mentre l’America si distraeva, impantanandosi in Irak, i talebani ne approfittarono per riorganizzarsi e riconquistare ampie regioni del Paese, riuscendo addirittura la scorsa primavera ad ampliare la loro influenza al Pakistan. Criticare gli errori dell’Occidente è legittimo, forse persino doveroso.
In chiave storica Bossi non ha tutti i torti. Ma il ritiro appare inverosimile e controproducente per il nostro Paese. Innanzitutto in termini di credibilità. Da molti anni i soldati italiani sono impegnati in diverse operazioni internazionali di peacekeeping al fianco dei nostri alleati e ora beneficiano di una reputazione considerevole. Non siamo più la Cenerentola d’Europa, ma un esercito che quando prende un impegno lo mantiene fino in fondo, che governi sia la destra che la sinistra. E l’Italia a Kabul ha sottoscritto un impegno nell’Isaf al fianco di 42 Paesi. Vogliamo davvero comportarci come Zapatero e gettare al vento l’autorevolezza tenacemente conquistata nei Balcani, in Libano e a Nassirya? Abbandonare ora l’Afghanistan significherebbe riconsegnarle ai talebani e trasformarlo in un nuovo santuario del terrorismo internazionale. È davvero nel nostro interesse?
Non siamo soli. La Germania mercoledì ha usato i carri armati per la prima volta dal 1944 ed è pronta ad aumentare da 3.800 a 4.500 il numero dei soldati. La Merkel è saggia, equilibrata e governa una coalizione con la sinistra. Se si spinge fino a questo punto significa che lo ritiene necessario. Anche perché alla Casa Bianca c’è Obama che sembra voler far tesoro degli errori di Bush. La vera sfida per gli alleati è di aiutarlo a trovare finalmente la strategia vincente, non solo militare, da realizzare rapidamente; perché le guerre non possono durare in eterno.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " La regia di Baradar il “cugino” di Karzai che vuole l’Emirato "
Maurizio Molinari
E’ da lui che è partito l’ordine di disseminare potenti ordigni esplosivi sulle strade afghane come di colpire le rotte dei rifornimenti Nato in Pakistan, vive a Quetta non dormendo mai nello stesso letto per due notti di seguito, obbliga i comandanti taleban a passare due mesi al fronte con i propri uomini e gira con una valigetta piena di carta intestata all’Emirato islamico dell’Afghanistan, usando la quale gestisce un tesoro valutato in diverse centinaia di milioni di dollari, proventi del traffico dell’oppio inclusi. Il nuovo capo dei taleban è Mullah Abdul Ghani Baradar e gestisce potere, armi e danaro in nome del Mullah Omar - scomparso nel nulla dalla fine del 2001 mentre era alla guida di una motocicletta nei pressi di Kandahar - vestendo i panni del nemico numero uno delle forze alleate in Afghanistan. L’intelligence americana attribuisce a lui la regia dell’attuale tattica del taleban nell’Helmand: di fronte all’offensiva di 4000 marines si sono mischiati alla popolazione civile, evitando confronti diretti in grande stile per dedicarsi a imboscate improvvise e soprattutto a «piantare fiori», ovvero lasciare lungo il ciglio delle strade le potenti Ied causa di oltre l’80 per cento delle perdite americane.
Il potere di Baradar risiede nella delega ricevuta dal Mullah Omar, che guidò il regime dei taleban fino all’attacco americano dopo l’11 settembre, di gestire i proventi di riscatti, narcotraffico, pedaggi e donazioni caritatevoli provenienti dagli Emirati del Golfo. Al controllo delle risorse somma una passione per il combattimento che lo spinge a esporsi spesso in prima persona. «È a lui che rispondono i poteri militare, politico, religioso e finanziario», ha confermato al magazine Newsweek il mullah Shah Waki Akhund, sottocomandante per la regione dell’Helmand che prende direttamente da lui gli ordini su come sfidare i marines.
Appartenente all’etnia pashtun e alla tribù dei Popalzai, proprio come il presidente afghano Hamid Karzai, Baradar punta a far risorgere l’Emirato islamico dell’Afghanistan con una strategia che ha per obiettivo i rifornimenti delle truppe Nato in maniera analoga a quanto venne fatto contro l’Armata Rossa negli Anni Ottanta. Agli attacchi già avvenuti in Pakistan contro i trasporti di acqua, cibo e carburante ha ora ordinato di aggiungerne di simili nelle province afghane di Kunduz, Takhar e Badakhshan, ai confini con Uzbekistan e Tagikistan per neutralizzare l’accordo siglato da Washington con Mosca per utilizzare le rotte dell’Asia Centrale. Ciò che più preoccupa il Pentagono e Karzai sono i suoi stretti rapporti con i Popalzai - la maggiore tribù pashtun - che possono consentire ai taleban di guadagnare terreno anche nelle zone dell’Afghanistan che al momento godono di maggiore stabilità. Per avere un’idea dell’importanza che Karzai assegna a Baradar basti pensare che durante lo scorso anno è a lui che pensò per tentare di iniziare un negoziato di pace capace di estromettere il Mullah Omar. Ironia della sorte vuole che se Baradar governa oramai indisturbato sulle milizie taleban è anche grazie ad un blitz condotto dagli americani nel 2007 che portò all’uccisione del Mullah Dadullah, suo acerrimo avversario.I marines veterani dell’Iraq considerano gli insorti afghani molto più «tosti» di quelli iracheni. Il New York Times ha intervistato reduci dall’Iraq spediti sul fronte afghano e tutti sono rimasti sorpresi dalla capacità di combattimento e dall’abilità tattica dei taleban. «Non abbiamo mai incontrato un nemico così tenace - racconta un sergente spostato nell’Helmand -. In pochi giorni abbiamo dovuto affrontare tre imboscate, ognuna più dura di tutti gli attacchi subiti nella provincia di Anbar, la peggiore in Iraq». I marines sottolineo che i taleban non si limitano a «colpire e fuggire», ma sanno «manovrare» e capiscono quando conviene attaccare e quando conviene «ritirarsi e aspettare».
Per inviare la propria opinione a Giornale e Stampa, cliccare sulle e-mail sottostanti