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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
26.07.2009 Come i soldati italiani affrontano i talebani
reportage di Andrea Garibaldi

Testata: Corriere della Sera
Data: 26 luglio 2009
Pagina: 9
Autore: Andrea Garibaldi
Titolo: «La Folgore e l'escalation della guerriglia-Quelle bombe fatte con taniche e tergicristalli»

Due articoli oggi, 26/07/2009, a pag.9, dell'inviato del CORRIERE della SERA in Afghanistan Andrea Garibaldi, mentre altri tre soldati italiani sono stati feriti ieri in un attentato. Eccoli:

 a sin. Andrea Garibaldi

Andrea Garibaldi: " La Folgore e l'escalation della guerriglia "

FARAH — Mentre gridano «Folgore urrà!», ricordano che un uomo, o un ra­gazzo, della Folgore, 187˚ reggimento paracadutisti, non ha paura. Anche se il primo caporal maggiore Alessandro Di Lisio è morto pochi chilometri là fuori, il 14 di luglio, e se il primo caporal mag­gior Simone Careddu rischia di non tor­nare a camminare. Anche se ieri i soldati italiani sono stati per altre due volte col­piti. «Silenziosi e aggressivi», c’è scritto su uno degli stemmi della Folgore affissi sulla baracca nel cortile del campo base e gli uomini e i ragazzi hanno stretto i denti mercoledì davanti al ministro La Russa che è venuto a trovarli e che con la sua camicia mimetica, il suo piglio mi­­litare, il suo saluto assorto alla bandiera, in fondo, è piaciuto. Ma qui è sempre più difficile stare, se gli episodi ostili si moltiplicano.
Questa è Farah. Se vi guardate attor­no per 360˚ vedete solo sabbia chiara e monti scuri. Un albero? Forse uno, lag­giù, pare un albero. Il comando italiano, a Herat, ha battezzato la base El Ala­mein, ma molti — con poca fantasia — la chiamano Fort Apache. L’avamposto più a sud. Il più sperduto del contingen­te italiano in Afghanistan, il più vicino all’offensiva anglo-americana «Colpo di spada» nell’Helmand, terra meridionale di sterminati campi d’oppio e di taleba­ni in rimonta. Farah è un frammento d’Italia gettato lontano. Trecento paraca­dutisti inquadrati in un battle group, gruppo di battaglia, e cento incursori nella «Task 45», forza speciale, per mis­sioni speciali. I primi, con compiti di as­sistenza alla popolazione, sminamento, ricostruzione, i secondi con riservati compiti bellici: contrastare la propagan­da talebana nei villaggi, il reclutamento, la sottomissione della popolazione civi­le, i traffici di droga. Anche con la forza. Poi, ci sono gli uomini dei servizi di si­curezza, si contano sulle dita delle ma­ni, lavorano in borghese, si calano fra vi­coli e casupole, cercano di capire che succede, d’interdire. Questo è diventata la spedizione italiana in Afghanistan, tesserina dentro un Grande Gioco, ar­duo da decifrare.
Il C-130 arriva in mezz’ora da Herat a Farah, scende a precipizio, poi ondeggia volgendo verso il suolo l’ala destra, poi la sinistra, per evitare colpi, prima d’at­terrare sulla pista di sabbia e di terra, coi sassi che schizzano sotto le ruote. Una immensa spianata, 1.200 metri di altez­za. Nessun essere umano, a vista d’oc­chio. Il capitano Paolo Bianconi punta l’indice in lontananza. Prima ci sono del­le case col tetto arrotondato, l’abitato di Farah, e molto oltre le pendici di altri monti: «Guerriglieri, lontano, da quella parte». Quelli che hanno messo l’ordi­gno che ha ucciso Di Lisio e menomato Careddu, probabilmente. Cosa architetta­no
ora? «Avete mai passeggiato per un villaggio afgano — chiede Bianconi —? L’80 per cento della gente sorride, è con­tenta che siamo qui». E allora? Quanto è difficile capire, soprattutto se si è arma­ti. Il comandante italiano Rosario Castel­lano dice che in Afghanistan si mescola­no undici motivi di instabilità che si tra­sformano in «insorgenza», ribellione contro la presenza di truppe straniere: i talebani antigovernativi, i trafficanti di droga, i coltivatori di oppio, la faide tri­bali, i signori della guerra, i trafficanti di armi, lo spionaggio, la criminalità, gli estremisti religiosi, i gruppi autonomi, i poveri. In questo momento dall’Hel­mand, sotto pressione per l’attacco ame­ricano, molti insurgents trovano sbocco verso l’Ovest, verso Farah e premono sul­la zona sotto la responsabilità italiana: per questo Castellano è in contatto stret­to con il comandante dei marines.
«Oggi la temperatura è a 50 gradi— dice il capitano Bianconi —. Certi gior­ni siamo più fortunati, si ferma a 45». Ecco le grandi tende dove dormono e mangiano i nostri e le strutture di le­gno che fanno da bagni. «Ma stiamo co­struendo la nuova base, in muratura, il Fob, Forward operative base , base avanzata operativa», dice Bianconi. Il capitano è ingegnere, ha 30 anni: «Ge­stiamo budget da milioni di euro, cosa che all’inizio della carriera in Italia sa­rebbe impossibile».
Si costruisce, dunque: non è prevista l’uscita in tempi brevi. Ma la situazione diventa sempre più critica. Arrivano ogni giorno, dal Sud soprattutto, le noti­zie dei caduti delle altre forze armate. So­lo nel mese di luglio 37 soldati america­ni uccisi (il conto degli afgani non lo tie­ne nessuno). Nella zona italiana a luglio gli attentati e gli Ied (ordigni esplosivi improvvisati) sono stati 134, buona par­te nella zona di Farah. Lo scorso anno fu­rono 56. Per agosto, mese delle elezioni presidenziali, il comando italiano ne pre­vede
179, contro i 79 dello scorso anno. È la strada 517, che parte dalla base e va verso la Ring Road, arteria che collega ad anello le principali città dell’Afghani­stan, uno dei punti d’allarme. Se gli in­surgents rendono insicura quella, incer­to diventa ogni collegamento della ba­se di Farah. Lì è saltato il carro Lince su cui viaggiava Di Lisio. Ora il rischio è che la missione italiana, a Farah in parti­colare, si chiuda a garantire la propria sicurezza, prima di perseguire i compiti d’ufficio, che sarebbero consegnare strade e terre, ricostruire scuole e ospe­dali, addestrare esercito e polizia afga­ne, riconvertire i campi d’oppio. Rac­conta un ufficiale: «Abbiamo da poco consegnato ai contadini 27 tonnellate di zafferano per sostituire questa coltu­ra a quella del papavero». Fa una pausa: «Certo, poi occorre proteggere campi e contadini, altrimenti talebani e traffi­canti impediscono il cambiamento». Obiettivo finale: riconsegnare il Paese agli afgani, ma la parola «afgani» defini­sce una realtà molto differenziata.
Arrivano più Predator, gli aerei senza pilota, i Tornado potranno sparare per proteggere dall’alto i soldati italiani in difficoltà, i carri Lince avranno le torret­te protette. Aumentano gli effettivi, au­mentano le spese, già altissime. Basti pensare che Farah, come le altre basi, è tenuta in vita quasi esclusivamente con gruppi elettrogeni a gasolio e che il gaso­lio arriva con i camion dall’Iran. Abbia­mo sempre pensato al nostro esercito nel mondo nella chiave «Italiani brava gente». Ma da queste parti c’è stato un convoglio attaccato a settembre, un’au­tobomba contro un altro convoglio a ot­tobre, un’imboscata a giugno, un attac­co suicida all’inizio di luglio. Poi, Di Li­sio. Due agguati ieri.
Ora, invece, bisognerebbe pensare ai seggi da proteggere, 1.086 nella zona ita­liana, a impedire che i candidati venga­no uccisi. «Usciamo per Alessandro», di­ce il caporal maggior Fabio Barile, che era sul convoglio di Di Lisio. Lo sguardo fiero, che intuisce quanto è fragile la si­tuazione. Il cuoco di Farah sforna pizze, gesto che sdrammatizza. Il tenente Leo­nardo Bevilacqua è un ingegnere che ha fatto il percorso inverso a Bianconi: lavo­rava nel civile, si è arruolato. Quando ha visto il ministro La Russa, si è commos­so: «Il nostro ministro, qui...». «Non co­nosco l’impossibile», sta scritto su un al­tro stemma della Folgore. Bisogna cre­derci, per restare fra queste pietre.

Andrea Garibaldi: " Quelle bombe fatte con taniche e tergicristalli "

HERAT — Dicono gli artificieri di Camp Arena, il quartier generale del con­tingente italiano nell’Afghanistan occi­dentale, che dopo gli attentati entra in azione l’ exploiter . Sarebbe? «È l’uomo in­caricato di riprendere la scena dopo l’esplosione». A quale scopo? «Due obietti­vi. Uno è usare il filmato come mezzo di propaganda, per esibire capacità e fare proseliti. L’altro è studiare come si com­portano le vittime dopo l’agguato».
Spiegano l’ufficiale e il sottufficiale (pre­feriscono non siano pubblicati i nomi) che i soldati italiani si trovano oggi a fronteg­giare una guerriglia che ha mezzi molto li­mitati ma il vantaggio dell’imprevedibilità e di potersi confondere con la popolazione locale. C’è un tavolo davanti ai nostri mili­tari, nella palazzina per le riunioni di Camp Arena. Ecco due taniche legate assie­me, così si presentava la bomba che ha fat­to saltare il carro Lince e ha causato la mor­te del caporal maggiore Di Lisio. Dentro le taniche? «Presumibilmente una miscela di alluminio e nitrato di ammonio. Poi ser­ve una scintilla elettrica». Un comando a distanza... «Sì, ma ormai i nostri mezzi so­no dotati di un’apparecchiatura che si chiama Jammer e fa da scudo al carro e a tutto ciò che c’è intorno: così i comandi a distanza vengono inibiti». Allora? «Si tor­na indietro. La scintilla viene causata dalla pressione». Su cosa? «Su strumenti rudi­mentali. L’ordigno del 14 luglio è stato in­nescato da una specie di tergicristallo, due bacchette che quando il carro Lince ci è finito sopra hanno chiuso il circuito e, tramite i fili, hanno trasmesso la scintilla al liquido esplosivo». Tutto l’ordigno era sepolto dentro un terrapieno, appena sot­to l’asfalto. Il Lince, che apriva un convo­glio di 12 mezzi, aveva superato quel pun­to, ma l’equipaggio aveva notato qualco­sa. Il carro ha fatto marcia indietro ed è andato a finire dove stava sotterrato il «tergicristallo». La bomba nel terrapieno, uno scenario che ricorda Capaci, quando fu ucciso il giudice Falcone. Ma le tecni­che richiamano quelle dei vietcong.
Si chiamano
home made explosive, esplosivi fatti in casa: si preparano con ingredienti reperibili nei negozi o nelle fabbriche chimiche. Al posto delle tani­che ci possono essere pentole a pressio­ne, al posto dei tergicristalli una sega o coperchi da pentola. «Per certi versi di­venta più difficile prevenire sistemi così rudimentali — dicono i due militari —. Se l’ordigno è interrato, bisogna indivi­duare, mentre si transita, punti che evi­denziano uno scavo fresco. Oppure, van­no notate foglie rimosse e poi risistema­te. Sono molti gli agguati che riusciamo a evitare in questo modo. Non tutti». Sul tavolo ci sono pezzi di legno, camere d’aria di bicicletta che servono a legare. «Abbiamo trovato fili per l’innesco na­scosti dentro steli di papavero».
All’inizio di luglio sono piovuti razzi dentro Camp Arena lanciati con un bilan­ciere artigianale: da una parte un peso, dal­­l’altra un secchio d’acqua con un foro sul fondo. Quando l’acqua è defluita, il peso è venuto su ed è scattato il detonatore che ha lanciato i razzi, mentre i responsabili avevano il tempo di allontanarsi. A Farah, quando si entra nella base, si nota un car­ro Buffalo con la parte anteriore sinistra di­velta: risultato di un agguato di quaranta giorni fa. Nessuno dei soldati si è fatto ma­le, ma il Buffalo è un pachiderma lento e l’equipaggio deve stare all’interno. Visibili­tà e velocità ridotta, sicurezza accresciuta. I mezzi vanno scelti in base alle esigenze della missione, perché la guerriglia è in grado di modulare gli attacchi. L’ordigno che ha fatto saltare il Lince di Di Lisio ave­va una potenza attorno ai 70 chili.

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