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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio-La Stampa-Corriere della Sera Rassegna Stampa
25.07.2009 Dossier Afghanistan
Un editoriale, un reportage, una analisi

Testata:Il Foglio-La Stampa-Corriere della Sera
Autore: La Redazione del Foglio-Francesco Grignetti-Christopher Hitchens
Titolo: «Dossier Afghanistan»

Dossier Afghanistan 25/07/2009: un editoriale del F0GLIO, il reportage di Francesco Grignetti sulla STAMPA, l'analisi di Christopher Hitchens sul CORRIERE della SERA.

Il Foglio- " Giù le mani dalla Folgore ", i nostri soldati in Afghanistan non assecondano affatto il "rambismo"

Tra i commenti sul contingente italiano in Afghanistan suscita stupore l’articolo “Debole prova di forza” firmato sull’Espresso dal generale Fabio Mini che va a riesumare luoghi comuni sui paracadutisti della Folgore “vulnerabili alla propaganda dell’uso della forza” e che accusa i nostri generali di “assecondare il rambismo”. Secondo Mini, i parà avrebbero cambiato le linee d’azione, rendendole più aggressive per compiacere gli Stati Uniti, alterando così gli equilibri sociali dell’ovest afghano come sarebbe accaduto agli inglesi che a Helmand hanno subito dure perdite, mentre nella stessa provincia “migliaia di marine non hanno trovato resistenza”. Come rilevano gli americani, è la tattica dei talebani che si adegua al nemico: aggressivi contro i pochi soldati inglesi mentre contro le forze dei marine si mischiano ai civili per colpire al momento giusto. In luglio, a fronte di 36 caduti americani e 20 inglesi, gli italiani hanno perduto un soldato, un geniere intento a ripulire le strade dagli ordigni, non un esemplare dei “rambo italiani” che,secondo Mini, “per semplificare considerano tutti gli afghani come talebani e nemici”. Stupisce che un ufficiale esperto che ha guidato le truppe Nato in Kosovo liquidi come “rambismo” il coraggio e la professionalità dei soldati e ancor più che non riesca a cogliere gli aspetti strategici delle offensive, il cui obiettivo è acquisire il controllo delle aree a forte presenza talebana. Operazioni non improvvisate dai parà ma pianificate da un anno dal comando di Isaf: la Folgore punta a completare quanto avviato l’estate scorsa dalla brigata Friuli che insediò le prime forze italiane a Farah e nel “fortino” di Bala Murghab. Aree che, secondo Mini, erano tranquille prima che ci entrassero gli italiani. In inverno gli alpini della Julia hanno consolidato i progressi preparando il terreno ai parà che dispongono di più truppe e più mezzi per strappare il territorio agli insorti, come è accaduto nella battaglia di giugno a nord di Bala Murghab, che ha consentito di muovere sulla roccaforte talebana di Gormach.

La Stampa- Francesco Grignetti: " loro preparano le mine e noi gliele smontiamo "

Non si sono mai visti in faccia, ma si conoscono bene perché si sono studiati a distanza. L’uno conosce le tecniche dell’altro, e tra loro c’è un gioco d’intelligenza che può determinare la vita o la morte. Uno è un artificiere italiano, un maggiore dell’esercito di cui è bene non dire il nome. L’altro è l’ignoto «bomb builder» (letteralmente: chi-fabbrica-le-bombe) che ha preparato le ultime mine sistemate sulla strada dei paracadutisti. Dice il maggiore: «A secondo della tecnica utilizzata, riconosciamo la mano di chi ha preparato la bomba e sappiamo se in una zona opera questo o quel «bomb builder». Lui prepara i suoi ordigni. Noi glieli smontiamo, li studiamo, e poi insegniamo ai nostro soldati come evitarli».
Gli ordigni fatti in casa
I parà della Folgore, di stanza nell’Ovest dell’Afghanistan, hanno rinvenuto quindici ordigni esplosivi in poche settimane. Li chiamano «Ied», improvised explosive device, ordigni esplosivi improvvisati. Bombe rudimentali, ma terribilmente efficaci come s’è visto nel caso del caporale Alessandro Di Lisio e dei suoi commilitoni. L’esplosivo, il «bomb builder» lo fa in casa con quello che trova: fertilizzante, gasolio, ammoniaca, polvere di alluminio e cose del genere. L’innesco è ancor più rudimentale: due lame di una sega sovrapposte, con in mezzo un cavo elettrico e una pila. È sufficiente che un automezzo ci passi sopra, i metalli si toccano, scatta la scintilla e salta tutto. «Per un certo periodo gli “insurgents” hanno usato inneschi più sofisticati, attivabili con i cellulari. Ma da quando la Nato ha dotato i mezzi di pattuglia di “jammers”, che sono apparecchiature elettroniche che disturbano e annullano il segnale dei telefonini, allora sono tornati ai sistemi più antichi».
I cameramen della morte
Quella del terrore, alla maniera irachena, anche in Afghanistan è ormai una filiera strutturata con professionalità bene identificate. C’è il «bomb builder» di cui abbiamo parlato: ha avuto un addestramento specifico ed è una figura di spicco nell’organigramma, non facilmente sostituibile. I gruppi terroristici li difendono come merce preziosa; l’intelligence militare dà loro una caccia serrata perché se si elimina un «bomb builder» le pattuglie sulla strada avranno un buon periodo di tregua.
C’è poi il cosiddetto «exploiter». È l’uomo che sa maneggiare la macchina fotografica e la telecamera digitale. Per i «taleban», che odiavano la modernità, ed erano semianalfabeti, l’uso delle telecamere è stato un grosso salto in avanti. Sono stati gli arabi di Al Qaeda a insegnare loro l’utilità dell’exploiter. E dunque ci sono questi uomini che preparano una sorta di istruttoria sui luoghi che le pattuglie militari battono più di frequente e anche sulle loro routine nell’impiego. Per i gruppi terroristici è indispensabile avere un quadro della situazione il più dettagliato possibile. Usano anche delle vedette racimolate tra ragazzini: un dollaro al giorno e quelli stanno su una strada a segnare tutti gli orari e la composizione dei convogli. L’exploiter, poi, riprende da debita distanza la scena di ogni attentato. I video saranno utilizzati come propaganda, veicolati su siti Internet e su dvd, se le bombe sono andate a buon fine. Altrimenti saranno ottimi materiali di studio per capire dove hanno fallito e migliorare le loro tecniche la volta successiva. Naturalmente, anche se nessuno lo racconta, l’intelligence ha trovato una buona serie di questi video.
Avere paura di un albero
Infine, al termine della filiera del terrore, ci sono i materiali esecutori dell’attentato. Sono aspiranti suicidi, che secondo i libri mastri trovati nei covi, oppure secondo quanto hanno confessato alcuni terroristi catturati, prendono da 500 a 1500 dollari per il loro sacrificio. Per molto meno, altri si prestano a sistemare le bombe lungo le vie dell’Afghanistan. Lo fanno con cura meticolosa: sistemano la mina improvvisata sotto un cumulo di foglie, o scavano un cunicolo sotto l’asfalto, o oppure al ciglio di una strada sterrata. In questa fase, soltanto un occhio molto allenato può contrastare la minaccia notando la terra smossa, o un segno impercettibile sul tronco di un albero, o un cumulo di sassi. Ognuno di questi segni può indicare che lì c’è una bomba. Come è ovvio, ci vuole abilità e pazienza. E si capisce perché i convogli militari procedano lenti e circospetti.

Corriere della Sera-Christopher Hitchens: " In Afghanistan non tutto è perduto: la popolazione detesta i talebani "

Rory Stewart è tra coloro che si sono occupati con maggior intelligenza e passione della liberazione dell’Afghanistan. Il saggio che ha scritto, con la consueta lucidità, sulla London Review of Books , « The Irresistible Illusion», merita perciò di essere letto con particolare attenzione. Citerò il passaggio in cui descrive la posizione comunemente adottata dai nostri leader sul problema Afghanistan: «I politici guardano all’Afghanistan attraverso le categorie dell’anti-terrorismo, dell’anti-insurrezione, della costruzione dello Stato e dello sviluppo economico. Queste categorie sono così strettamente collegate, che l’ordine di importanza loro attribuito è quasi irrilevante. Bisogna sconfiggere i talebani per costruire uno Stato e bisogna costruire uno Stato per sconfiggere i talebani. Non ci può essere sicurezza senza sviluppo né sviluppo senza sicurezza. Dove ci sono talebani ci sono terroristi, dove non c’è sviluppo ci sono terroristi e, come Obama ha dichiarato al New Yorker , 'Se ci sono spazi non governati, questi diventano rifugi perfetti per i terroristi'».
È difficile evitare l’impressione che a un certo punto in Afghanistan si sia imboccata una strada sbagliata. O forse si è trattato di una serie di strade sbagliate, che nascono da vari fattori: la sconfitta nella «guerra alla droga»; aver contato troppo su attacchi aerei che hanno spaventato e colpito la popolazione civile; aver ceduto molte zone di confine ai talebani e ai loro fiancheggiatori pachistani; non riuscire a controllare la corruzione, l’attitudine alla prevaricazione e all’apatia dei ministri del governo di Karzai, ora stancamente avviato a una rielezione che sembra non entusiasmare nessuno.
Stewart fa notare che è improbabile che un
surge possa capovolgere la situazione. In Afghanistan non ci sono gruppi politici che godano di largo consenso e Kabul non possiede la — pur relativa — forza e legittimità che troviamo a Bagdad. I gruppi tribali afghani non possono essere trattati allo stesso modo di quelli sunniti dell’Iraq, e spesso non hanno lo stesso grado di coerenza e di legittimità. In queste circostanze i talebani sono riusciti a emulare almeno in parte il successo dei mujaeddin anti-sovietici, assumendo la veste di difensori della fede islamica e di nemici dell’intervento straniero, e arrivando ad esercitare un vero e proprio governo in qualche provincia e città.
Il quadro non è però così nero come si potrebbe credere.
Viaggiando all’interno dell’Afghanistan, ho scoperto che i talebani hanno un grosso svantaggio rispetto ai precedenti mujaeddin: sono già stati al governo del Paese e non sono stati amati. Moltissime persone, soprattutto le donne e gli abitanti delle città, hanno un brutto ricordo del loro governo crudele e stupido, al quale un buon numero di afghani si è sottratto fuggendo dal Paese, per poi tornare solo dopo la cacciata dei talebani. Vi sono minoranze religiose ed etniche che hanno molto sofferto, e difficilmente
vorranno sottomettersi ancora ai talebani. Rory Stewart fa questa considerazione: «Gli hazari, i tagiki e gli uzbeki sono più ricchi, forti e organizzati di quanto fossero nel 1996 e si opporrebbero con decisione a ogni tentativo dei talebani di occupare le loro regioni. L’esercito nazionale afghano è ragionevolmente efficiente. Il Pakistan non è in condizione di dare appoggio ai talebani come un tempo.
Basterebbero molti meno soldati e aerei del contingente internazionale di quanti ve ne siano ora per rendere difficile ai talebani la formazione di un esercito convenzionale, che nel 1996 poterono costituire, e per impedirgli di arrivare a Kabul con i carri armati e l’artiglieria lungo la via principale».
Se interpreto in modo corretto il punto di vista di Stewart e di altri analisti, in Afghanistan il meglio si sta rivelando il peggior nemico del bene. Mi viene in mente quel che il grande radicale gallese Aneurin Bevan disse ai Tory britannici durante la crisi di Cipro, alla fine degli anni Cinquanta. Il governo sembrava non sapere, disse, se
voleva tenere una base a Cipro o fare dell’intera isola una base.
Analogamente, è probabile che non potremo dare agli eventi in Afghanistan il corso che ci sta a cuore senza doverci fare anche carico di gestire la nazione e la società nel suo complesso.
Citerò ancora Stewart: «Ridurre il numero di militari e rinunciare alla costruzione dello Stato non deve significare un ritiro completo: si potrebbe continuare a sostenere progetti utili riguardanti la diffusione di elettricità, acqua, irrigazione, salute, istruzione, agricoltura, sviluppo rurale...». Sul fronte militare, Al Qaeda può essere tenuta fuori dell’Afghanistan— anche a costo di spingerla a ritirarsi in Pakistan — con gli stessi mezzi attuali: usando le forze speciali e la sorveglianza aerea. Se le venisse offerto un altro rifugio da qualche signore della guerra talebano, non dovremmo rinunciare ad attaccarla con forze di intervento rapido di stanza nei Paesi vicini.
Il problema potrebbe essere che Obama, per l’ansia di confutare le accuse di debolezza sul fronte iracheno (e avendo iniziato a occuparsi dello scenario afghano/pachistano in un momento in cui la situazione era molto migliore), abbia promesso in Afghanistan più di quanto possa sperare di mantenere. Ad ogni modo stiamo ora predisponendo un enorme nuovo apparato militare, a un costo che continua a crescere ogni giorno, mentre gli alleati della Nato cominciano a irritarsi. Anche i britannici stanno manifestando un certo nervosismo, per il numero di vittime e perché l’orizzonte della stabilità politica si allontana sempre più. Infine, a differenza dell’Iraq, l’Afghanistan non ha una vera economia (a parte quella «informale» che ci siamo stupidamente impegnati a sradicare). Ci rimangono comunque molte opzioni prima di cedere alla disperazione, o di pensare a una capitolazione: dovrebbe essere possibile considerarle e soppesarle. Il saggio di Stewart ci offre un buon punto di partenza.

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