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Il Manifesto Rassegna Stampa
24.07.2009 L'odio antiebraico al suo zenit, nella propaganda del quotidiano comunista
L'articolo di Michelangelo Cocco

Testata: Il Manifesto
Data: 24 luglio 2009
Pagina: 16
Autore: Michelangelo Cocco
Titolo: «Ultima fermata Qalandia»

Pubblichiamo questo lungo articolo di Michelangelo Cocco, sul MANIFESTO di oggi, 24/07/2009, a pag.16, dal titolo "Ultima fermata Qalandia" quale esempio illuminante di come il giornale comunista svolge la sua propaganda contro Israele. Scene di vita a un Check Point, con tutte le vicissitudini che è logico immaginare, senza che a Cocco venga mai in mente di informare il povero lettore trinariciuto del suo giornale del perchè quei Check Point esistono. In tutto l'articolo nemmeno un accenno. Ci vuole del coraggio per imitare Pravda e Stuermer, e anche della bravura, non c'è dubbio. Chiediamo scusa ai nostri lettori per la polpetta avvelenata che gli sottoponiamo, ma ogni tanto la lettura di articoli come questo servono a portarci con i piedi per terra, e capire così l'aumento della diffusione dell'odio contro gli ebrei. Solo perchè è nella rassegna di oggi, consigliamo di non perdere l'articolo di Umberto De Giovannangeli sul giornale-cugino, L'UNITA', stessa propaganda, stesso stile.  Ecco l'articolo:

 A sinistra la Pravda, a destra lo Sturmer.

 Marwa avanza con passo impacciato lungo il corridoio di ferro che conduce al machsom.Mentre tiene d’occhio la minore delle sue figlie, cerca di non strusciare il chador nero dai ricami dorati sull’andito di sbarre polverose largo non più di 80 centimetri. Con una mano tiene la bimba, nell’altra stringe i passaporti americani che le garantiranno l’accesso a Gerusalemme. Uscite dal tunnel, la madre e le due bambine si uniscono alla folla di palestinesi in attesa di attraversare il posto di controllo di Qalandia. Dopo un quarto d’ora, quando nel caldo di mezzogiorno le mosche iniziano a far sentire la loro presenza, la giovane rassicura le piccole: «Ora ci faranno passare ». A quel punto però un uomo in tuta da operaio lancia una secchiata d’acqua sul selciato mentre un contractor armato di M-16 fa capolino dietro al cancello e grida, in ebraico: «L’ingresso numero tre deve essere ripulito, trasferitevi nelle file uno e due». Si comincia daccapo: i palestinesi coi permessi vengono dirottati sul primo varco, i possessori di documenti stranieri sul secondo. Ancora dieci minuti e in cima al gate s’illumina la spia verde: è il momento d’infilarsi nel tornello.Marwa si getta tra le due griglie di sbarre girevoli e, una alla volta, la seguono le bambine. Per loro fila tutto liscio, non così per tanti anziani, bambini, persone corpulente. Il tornello è stretto e spesso corpi e valigie s’incagliano tra le sbarre, altre volte i soldati lo bloccano, lasciando il malcapitato intrappolato per qualche minuto. A Qalandia tutto ciò avviene senza alcun contatto fisico né possibilità di dialogo tra palestinesi e israeliani: seduti dietro a una scrivania e protetti dal vetro antiproiettile, i militari di leva blaterano ordini amplificati da un altoparlante e provvedono a alla verifica dei tesserini magnetici (nulla osta dei servizi di sicurezza) e dei permessi. I contractor restano chiusi nei loro uffici e controllano l’andirivieni sui monitor. Il vecchio checkpoint, con le folle che si spingono per mostrare la carta d’identità e i soldati che s’affannano a tenerli a distanza, è stato mandato in pensione. Marwa infila la sua borsa nello scanner, poi passa sotto al metal detector. Poi ancora un corridoio, un altro tornello e l’insegna, che augura «Passate una buona giornata» prima del piazzale dove finalmente sale sul 18, l’autobus che costeggiando il muro dell’apartheid la porterà nella Città santa. In seguito alle pressioni dell’Amministrazione statunitense, negli ultimi giorni le autorità d’occupazione hanno rimosso una serie di posti di blocco all’interno della Cisgiordania occupata dal 1967. Il Fondo monetario internazionale sostiene che se gli israeliani continueranno a favorirne movimento, nel 2009 la crescita economica dei palestinesi potrà raggiungere il 7%. Tony Blair, l’inviato del Quartetto per il MedioOriente, prevede «immensi cambiamenti». Ma se da Gerico, Ramallah, Nablus e Qalqilia ora si entra e si esce anche senza subire perquisizioni, i 3mila lavoratori e le 30mila persone che ogni giorno raggiungono dal nord della Cisgiordania la città che Israele - in barba al diritto internazionale, gestisce come la capitale unica e indivisibile dello Stato ebraico, troveranno sempre a sbarrargli la strada Qalandia, il machsom trasformato nel 2006 in un moderno terminal, con tanto di sala d’aspetto e parcheggio dove lasciare le auto con targa verde, quelle a cui è vietato varcare i confini dei Territori occupati. «Lo scopo del machsom è umiliare i palestinesi, rendere la loro vita impossibile nella speranza che, prima o poi, se ne vadano» sostiene Roni Hammermann, fondatrice di Machsom watch (www.machsomwatch.org/en), l’organizzazione di pacifiste israeliane che documenta e cerca di prevenire soprusi ai posti di controllo. Qualche giorno fa le compagne di Hammermann hanno portato alla luce una di queste angherie, raccontata da AmiraHass su Ha’aretz. Le guardie private a cui è stato interamente affidato in gestione non permettevano agli operai palestinesi che varcano il posto di controllo di Sha’ar Efraim (nei pressi di Tulkarem) di portare con sé in Israele grosse bottiglie d’acqua, pietanze preparate a casa, caffè, the e perfino la popolarissima spezia zaatar. I dipendenti della Modi’in Ezrahi avevano anche fissato delle quantità massime di cibo: cinque pita, un contenitore di hummus, una scatola di tonno, una lattina di bevanda analcolica, una/due fette di formaggio, tra le cinque e le dieci olive. La giornalista israeliana ha sottolineato che «le quantità consentite da Modi’in Ezrhai non soddisfano i bisogni nutrizionali dei lavoratori» che fanno turni fino a 12 ore e che d’altra parte «preferiscono non acquistare cibo nei negozi israeliani, molto più cari». Ma perché sostituire i militari a guardia dei checkpoint con dei contractor? Per risparmiare, era stato ipotizzato alla comparsa del fenomeno che si sta allargando a macchia d’olio. «Non è così - – scuote la testa Hammermann -, i soldati costanomeno. Questo cambiamento nasce dal tentativo dello Stato di lavarsi le mani per quello che succede ai posti di controllo. Anche se c’erano spesso scontri, in passato con i soldati si discuteva, si potevano tentare delle mediazioni. Oggi con le apparecchiature elettroniche e i contractor non è più possibile». E per quale motivo il controllo della sicurezza in Israele dovrebbe cercare di diventare invisibile? si è chiesto Eyal Weizman nel suo «Architettura dell’occupazione. Spazio politico e controllo territoriale in Palestina e Israele» (Bruno Mondadori). Scrive Weizman: La Quarta convenzione di Ginevra del 1949 «stabilisce che la potenza occupante si assuma la responsabilità di gestire le istituzioni che regolano, in questo caso, la vita dei palestinesi sotto occupazione. Tuttavia con il pretesto dei costi della quotidiana amministrazione di tre milioni emezzo di palestinesi e di quelli causati dalla violenta resistenza durante le due Intifada (dal 1987 al 1993 e dal 2000 a oggi), Israele ha cercato di giustificarsi e liberarsi dalle responsabilità, senza perdere il totale controllo della sicurezza». Sono 52 i posti di blocco censiti e monitorati quotidianamente (due turni, mattina e pomeriggio) dalle 250 volontarie di Machsom watch: dalla A di Anin, che divide l’omonimo villaggio cisgiordano dalla città arabo-israeliana di Umel- Fahm, alla Z di Zif, un semplice sbarramento che nel sud della Cisgiordania blocca la strada 356. «All’inizio degli anni ’90, quando sono stati istituiti i primi machsom, l’occupazione non era così asfissiante: noi israeliane riuscivamo ad andare a pranzare a Ramallah o fare quattro passi a Betlemme » racconta Hammermann, che punta l’indice soprattutto contro la dimensione burocratica del regime che tiene gli arabi segregati. «Prendiamo il caso di una persona che necessiti di cure a Gerusalemme – spiega -: anzitutto deve procurarsi un certificato medico che attesti che nei Territori occupati non ci sono strutture in grado di assisterla. Poi deve ottenere un invito da parte dell’ospedale dove vuole recarsi. A questo punto può andare al checkpoint e compilare la richiesta, allegando i documenti. Le verrà detto di tornare dopo qualche giorno. Alla data stabilita, se sarà fortunata, avrà il permesso,ma potrebbero dirle di tornare di nuovo o che i servizi di sicurezza hanno stabilito che non può accedere a Gerusalemme». E a ciascuna necessità corrisponde un permesso particolare. L’ultimo rapporto del governo israeliano sullemisure adottate nei Territori occupati sottolinea che «i checkpoint si sono rivelati strumenti efficaci nel prevenire e intercettare gli attacchi terroristici». La propaganda esalta la rimozione di alcuni machsom all’interno della Cisgiordania, ma quelli «di frontiera», tra Israele e i bantustan palestinesi, vanno implementati – continua il documento - con «tecnologia biometrica», con «l’ apertura di stazioni biometriche, tre a Qalandia, tre a Rachel, tre a Zeitim». Il manifesto è riuscito a documentare (www.youtube. com/watch?v=pnl0H6l3Naw&feature= channel_page) l’installazione di queste apparecchiature anche in uscita da Gerusalemme, in modo da poter verificare l’orario di rientro dei palestinesi nei Territori occupati ed eventuali violazioni dei termini del permesso. L’Ocha – l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari - accusa: «L’accesso a Gerusalemme est, da nord, di palestinesi con documento d’identità della Cisgiordania è stato ulteriormente ristretto». E conferma: «Chi ha un permesso speciale deve registrarsi, in entrata e in uscita, al checkpoint di Qalandia passando allo scanner il proprio tesserino magnetico e la mano». Kaleed, un 50enne psicologo di Ramallah, s’affretta al tornello. È sposato da 13 anni, sua moglie è nata a Gerusalemme, ma tra i due c’è Qalandia. Kaleed è stato fortunato: gli hanno appena rinnovato il permesso.

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