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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio-La Stampa Rassegna Stampa
22.07.2009 Reportages dall'Afhanistan
di Daniele Raineri e Francesco Grignetti

Testata:Il Foglio-La Stampa
Autore: Daniele Raineri-Francesco Grignetti
Titolo: «Qui il potere si chiama Pashtun-Nel fortino dei Parà, scaltro e invisibile il nemico è ovunque»

Il FOGLIO ha inviato Daniele Raineri a Kabul con l’esercito italiano per cercare di capire, attraverso i suoi occhi, che cosa stia davvero succedendo in quella che il teorico australiano del controterrorismo David Kilcullen definisce “la battaglia più importante del mondo”. A un mese dalle elezioni la coalizione è impegnata in grandi operazioni nel sud e nell’ovest. Luglio è stato per gli americani il mese peggiore dal 2001. La prima puntata di questo reportage è stata pubblicata sabato 18 luglio ed è disponibile su IC stessa data.  A pag.1, sul FOGLIO di oggi,22/07/2009, la seconda puntata. Segue dalla STAMPA, il reportage di Francesco Grignetti, a pag.8, dal titolo " Nel fortino dei Parà, scaltro e invisibile il nemico è ovunque "

Il Foglio-Daniele Raineri: " Qui il potere si chiama Pashtun "

A Kabul non ci cascano. Gli afghani ricordano e raccontano del 1996, di quando la capitale cadde nelle mani dei talebani risaliti dalle zone pashtun del sud. “Per i primi dieci giorni non accadde nulla, troppo poco tempo per fare crescere le barbe agli uomini, come volevano loro. Poi, quando non ebbero più paura di scatenare una guerra urbana strada per strada, smisero di essere guardinghi e cominciarono a stringere la morsa. Nel giro di due mesi, il controllo religioso sulle persone era diventato ossessivo. Ma tutti noi capivamo che queste paranoie sull’islam erano in buona parte anche un pretesto. Del resto, qui eravamo già e siamo tutti musulmani!”. “Vedi quella rotonda – dice il tagiko Kamir, in una zona oggi ben sorvegliata della capitale – una squadra si appostava là, apriva una copia del Corano, fermava i passanti e li faceva interrogare da un mullah che si erano portati dietro apposta. Il problema è che questo mullah del sud era un vero zoticone, un pretastro di campagna e quando interrogava gli abitanti di Kabul con il Corano squadernato in mano rimediava soltanto brutte figure. In dottrina islamica, un disastro. Ma la sua squadra di ‘seminaristi’ pashtun aveva i fucili, così dovevamo starcene zitti e perdere le discussioni per paura di essere puniti”. Non c’erano soltanto gli esami volanti di ortodossia coranica. I guerriglieri pashtun si mettevano davanti alle moschee e se passavi a tiro ti buttavano dentro, perché l’obbligo islamico prescrive cinque momenti di preghiera ogni giorno. “Sicuro, io sono musulmano come te fratello – noi protestavamo con loro – perché anche tu non entri assieme a me a pregare? Ma quelli ci spianavano il fucile in faccia”. Lo sanno tutti nella capitale e nel nord del paese. I talebani idealizzano l’islam conquistatore e semplice del settimo secolo, ma guerreggiano anche per una seconda causa: la supremazia pashtun. Basta dare un’occhiata alla mappa, scrive un grande corrispondente americano, Robert Kaplan, in un saggio pubblicato da poco su Foreign Policy, “La vendetta della geografia”, per vedere che il problema talebani coincide con l’etnia pashtun: “Le zone in cui oggi in Afghanistan ci sono i combattimenti maggiori coincidono con quelle abitate dai pashtun: il sud, l’est e le aree tribali del Pakistan”. Anche Bowe Bergdahl, il soldato americano catturato dai talebani nella provincia afghana meridionale di Paktia, secondo l’intelligence militare ormai è stato risucchiato in profondità nello stomaco pashtun, fin giù nel nord del Pakistan, oltre quella linea di confine tra i due paesi che i locali ignorano e chiamano con disprezzo: la “linea zero”. “I talebani sono semplicemente l’incarnazione più recente del nazionalismo pashtun”, dice Kaplan. Alle due cartine citate da lui è sovrapponibile anche una terza: quella delle zone afghane dove si coltiva più oppio e si produce più eroina. Abdullah Keshtmand, uno specialista di Afghanistan e Asia centrale, dice che quando arrivarono al potere “i talebani instaurarono un vero apartheid. Il dari – un dialetto simile al farsi iraniano – è sempre stato la lingua della maggioranza del paese, con una lunga tradizione storica e culturale. I pashtun con la loro lingua pashto sono soltanto un terzo della popolazione, ma il potere talebano impose la segregazione razziale e linguistica”. Il 13 giugno del 2001 a Washington alcuni tra i membri più influenti del Congresso americano si presentarono in aula portando sul petto un distintivo giallo: “Io sono hindu”. La giunta militarereligiosa di Kabul aveva emanato un editto che costringeva tutti gli hindu afghani, non musulmani, a indossare un distintivo giallo sugli abiti per distinguersi. Anche le loro case dovevano esibire un contrassegno giallo. Si capisce il sottile riferimento storico? Il regime cercò a posteriori di giustificare la fatwa appena pronunciata dicendo che troppi afghani cercavano di sfuggire alle punizioni della polizia religiosa con la scusa di essere hindu e che il provvedimento andava a protezione dei veri hindu. Stati Uniti, Francia e persino la Russia non la bevvero e condannarono a gran voce il trattamento: “Simile a quello riservato dai nazisti agli ebrei prima e durante la Seconda guerra mondiale”. Cento politici americani scrissero anche una lettera al presidente George W. Bush, per chiedergli di fare pressioni “di ogni tipo” sui talebani e costringerli a ritirare l’editto. Tre mesi dopo, arrivato l’11 settembre, sarebbero stati accontentati oltre ogni loro aspettativa. Naturalmente, non si può generalizzare. I talebani hanno un’agenda filopashtun, ma non è vero il contrario. Il presidente dell’Afghanistan antitalebano, Hamid Karzai, appartiene a una delle famiglie pashtun più prestigiose. Suo padre fu assassinato sulla porta di una moschea proprio per la sua opposizione ai talebani. Zalmay Khalilzad, ex ambasciatore americano a Kabul e Baghdad, bushista convinto, è di padre pashtun. Per contro, una delle colonne più feroci tra gli alleati del mullah Omar, circa duemila combattenti, è quella non pashtun degli uzbeki. Char Asiab è un distretto a sud di Kabul, poca ombra, tanta polvere, campi di fieno e qualche albero di melo vicino alle case. La polizia cerca scampo al caldo e si addossa ai muri con l’elmetto in mano. Kharib, un capo pashtun della shura, il consiglio locale, invece circola e spiega al Foglio che i talebani sono stati durissimi anche con i pashtun. Ha un volto pieno di rughe rassegnate, un cappello bianco, le mani intrecciate dietro la schiena. Con la coda dell’occhio tiene sotto controllo i movimenti dei soldati italiani. Ci tiene a sottolineare questo concetto, i talebani duri contro tutti. Può darsi che si sentano campioni del popolo pashtun, ma non ce ne siamo accorti. Perché questa guerra giurata dentro la stessa etnia, tra il mullah Omar e Karzai, perché non riescono a modellare un compromesso? Kharib sorride blandamente: “Karzai ha girato il mondo, sa le lingue, ha studiato. Omar è uno zotico, è uscito da una madrassa”. Se non si può generalizzare sui pashtun, non si può nemmeno dire che la loro agenda riduce il conflitto in Afghanistan a uno scontro locale. Come spiega uno dei maggiori esperti di counterinsurgency del mondo, l’australiano David Kilcullen, nel suo saggio “The Accidental Guerrilla”, l’abilità degli arabi di al Qaida consiste proprio in questo: impiantare il terrorismo mondiale su piccoli conflitti circoscritti. Drenare risorse e uomini dalla guerra anti hindu inguerriglia sunnita irachena, dai clan dell’Afghanistan meridionale che da soli non vedono – non saprebbero vedere – oltre l’eventuale riconquista di Kabul. La fascinazione nazista La pashtunizzazione del paese a danno delle altre minoranze – i tagiki, gli uzbeki, gli hazara, i turcomanni, gli haimaq – non è un’invenzione dei talebani. Piuttosto, loro sono diventati gli ultimi portabandiera del programma. E’ un’idea che da sempre si ripropone in Afghanistan a cicli ravvicinati. Il primo a perfezionarla per ragioni geopolitiche, dentro il Grande Gioco, fu un colonnello inglese, Charles Edward Yate, centotrent’anni fa: cacciamo le minoranze dal nord e le rimpiazziamo con gli intrattabili pashtun, meno disposti a fare accordi con i russi, così creiamo una zona cuscinetto tra Nuova Delhi, dove comandiamo noi, e Mosca. Il piano fu affidato all’emiro afghano Amir Abdur Rahman, barba e spalle da mangiafuoco e occhi spietati da orientale. Gli afghani ricordano ancora adesso con orrore la sua campagna di “colonizzazione interna”. Dopo gli inglesi, rovesciamento di fronte: toccò ai tedeschi. Tra il regime nazista e i pashtun ci fu una fascinazione reciproca, con tracce che resistono ancora oggi. Tra noi e voi – dicevano gli emissari di Berlino – c’è affinità razziale, siete un popolo ariano sceso dal nord agli inizi del II millennio a. C. verso il subcontinente indiano oggi occupato dai britannici e l’altopiano dell’Iran; ne parlano anche i Rig-Veda, i testi sacri sanscriti, contengono toponimi che vi appartengono: Kubha (Kabul), Savasta (Swat), Rasa (Kunar). Una tribù di stirpe comune migrò nella vostra area, erano i pashta, oggi voi pashtun ne siete i discendenti e con noi condividete un’antica sapienza. Aiutateci a combattere la prepotenza inglese che emana da sud. Oggi tra chi conserva ancora qualche consapevolezza della propria storia – la guerra prima contro i sovietici e poi civile ha azzerato la memoria dell’Afghanistan – Hitler e il suo alleato italiano Mussolini sono considerati con favore. Del resto lo stesso Abul Ala al Maududi, l’ideologo deobandi (morì nel 1979, in un ospedale americano) che ha modellato l’estremismo pachistano e talebano, ha fornito ai suoi combattenti il programma politico e ancora li ispira, era un ammiratore del Reich. In un angolo di Camp Invicta, la base dei militari italiani nella zona esterna di Kabul – proprio vicino all’angolo dove i soldati greci per passare il tempo hanno aperto uno spaccio con i tavolini – c’è una prova materiale dell’antica amicizia: un Cv35, la “scatola di sardine”, un carro armato leggero costruito in epoca fascista. Roma ne donò 14 al re afghano per ingraziarselo, e lui li usò per la sua guardia personale. I soldati lo hanno ritrovato tra i colossi arrugginiti abbandonati dall’Armata Rossa negli anni Ottanta, attirati dalle dimensioni minuscole e dalle scritte in caratteri latini sulle parti interne, e lo hanno trasformato in un piccolo monumento alla presenza italiana in Afghanistan. E poi ci sono le famose parole di apprezzamento dedicate a Mussolini e all’Impero da Muhammad Iqbal, il padre spirituale e islamista del Pakistan, ricevuto dal Duce e poi morto nel 1938. All’Accademia d’Italia Iqbal disse: “La nazione erede di Roma, vecchia di antiche forme, si è rinnovata ed è rinata, giovane. Nello spirito dell’islam vibra oggi la medesima ansia”. Sotto il regno del troppo mite Zahir shah e del suo pazzo successore Mohammad Daoud, negli anni Settanta, gli uomini dell’élite pashtun approfittarono di ogni occasione per portare avanti la propria agenda di espansione. Formarono la Pashto Tolana, la Società pashto, per imporre il pashto – il linguaggio tribale, povero e poco adatto all’uso in uno stato moderno – alle altre etnie. Inventarono nuovi termini e parole per rimpiazzare quelli già esistenti nel dari, lingua ufficiale. Inventarono persino un’antologia di antichi poeti, la Pota Khazana , “Il tesoro nascosto”, che avrebbe dovuto legittimare la nobiltà della loro tradizione storica e culturale, ma che ha avuto invece l’effetto contrario perché nessuno è ancora riuscito a provarne l’autenticità. Continuarono a sostenere che la Linea Durand, tracciata dagli inglesi tra Pakistan e Afghanistan, non deve essere riconosciuta, che anzi due province pachistane, quella del nord-ovest e lo sterminato BaluchiBaluchistan, fino giù al fiume Indo, dovrebbero essere annesse, e che la loro presenza al nord avrebbe dovuto essere rafforzata con migrazioni e colonizzazioni forzate. Di colpo, se così fosse accaduto, l’Afghanistan sarebbe diventato finalmente il paese a maggioranza pashtun dei loro sogni. Quando vent’anni dopo i talebani sono arrivati al potere avevano già a disposizione tutto questo armamentario ideologico. William Maley, nel suo “The Afghanistan Wars” – il miglior libro sul paese secondo Stanley McChrystal, il generale americano messo dal presidente Obama a comandare la guerra – descrive la pulizia etnica contro gli hazara, i discendenti dei mongoli con gli occhi dal taglio allungato, considerati razza inferiore: “Quando l’8 agosto 1998 i talebani occuparono Mazar e Sharif, nel nord, si gettarono nel massacro per tre giorni. Le stime più caute parlano di duemila morti. In un ospedale, trenta pazienti furono uccisi nei loro letti. Nelle strade piene di cadaveri i superstiti erano avvisati dagli altoparlanti: lasciate i corpi dove si trovano, non seppelliteli”. Mullah Abdul Manan Niazi, “un fanatico sciovinista pashtun”, ordinò personalmente di sparare a una donna pashtun assieme alle otto hazara che aveva tentato di nascondere. Nel gennaio 2001, il comandante Dadullah – poi diventato famoso in Italia come rapitore di Daniele Mastrogiacomo, inviato di Repubblica – guidò un’altra serie di massacri a Yakaolang. Il peggiore fece trecento vittime. Settanta donne e bambini hazara cercarono rifugio dentro una moschea, ma quella fu distrutta con due razzi. La pulizia etnica val bene una moschea. Anche una delegazione di vecchi hazara che aveva cercato di intercedere fu uccisa. I governi ombra Per alcuni analisti, il regime change del 2001 ha colpito troppo all’improvviso il potere pashtun sul paese, un po’ come è successo in Iraq nel 2003, quando tutti gli appartenenti alla minoranza dominante sunnita, iscritti al partito Baath di Saddam Hussein, furono lasciati a spasso e si trasformarono nel serbatoio d’uomini della guerriglia. Il primo governo a interim afghano, creato a Bonn nel dicembre 2001, era già dominato dai rivali tagiki del consiglio di guerra che governava la valle del Panshir, la Shura yi Naza i Shamali. Certo, ci sono Karzai e altri pezzi grossi, ma la tradizionale struttura di potere tribale centrata sui pashtun è stata esclusa. In alcuni casi, a favore di personaggi irrilevanti, che prima della guerra controllavano soltanto porzioni minuscole del territorio. L’esclusione per vendetta si ripercuote in tutte le istituzioni. Alla tv di stato afghana lavorano soltanto 100 pashtun, su 1.800 dipendenti. Se non si risolve il problema pashtun, avvertono, la guerriglia quasi spazzata via nel 2001 continuerà a rigenerarsi dalle proprie ceneri. In teoria, oggi in Afghanistan chi si sente escluso avrebbe il modo di aggiustare tutto e di riavere indietro il proprio potere rappresentativo nel migliore dei modi: con le elezioni. In realtà, i pashtun non ci credono più e si stanno danneggiando da soli. Le quattro grandi province del sud, Helmand, Kandahar, Nimroz e Uruzgan, sono quelle che meno beneficiano dei deboli sforzi centrali di far andare meglio le cose perché si combatte di più, l’infestazione di talebani è fortissima, la popolazione è impaurita. I sondaggi dicono che laggiù i pashtun sono apatici e hanno poca voglia di partecipare alle votazioni. Per le prossime elezioni presidenziali del 20 agosto, secondo la Commissione elettorale indipendente, nell’area si sono già registrati per il voto meno elettori che al turno precedente, nel 2004. Circa un milione, che verosimilmente obbediscono all’ordine di boicottaggio impartito dai talebani. E questa volta non sarà nemmeno concesso di votare ai profughi pashtun in Iran e in Pakistan, diminuendo ancora il peso elettorale del sud. Intanto, in ogni provincia, a dispetto delle offensive di americani e inglesi, i talebani si sforzano di tenere in vita i loro governi ombra. Sono strutture parallele che provano a controllare il territorio con un unico fondamentale principio guida: agire come se il regime change del 2001 non fosse mai avvenuto.

La Stampa-Francesco Grignetti: " Nel fortino dei Parà, scaltro e invisibile il nemico è ovunque "

La base di Farah dove sono barricati i soldati mandati dall’Italia a scrutare le aride montagne dell’Afghanistan occidentale, vista dall’aereo resta invisibile fino all’ultimo. La polvere rovente del deserto ricopre tende, container, torrette, camion, cannoni. E uomini. Gli italiani, quando hanno dovuto darle un nome, l’hanno chiamata «El Alamein» e basta vederla per capire il perché. Base «El Alamein» è al centro di una pietraia desolata, cinquanta gradi all’ombra, non un arbusto a perdita d’occhio. Qui, dietro alte mura, protetti da bastioni di cemento e sabbia, ci sono quasi quattrocento uomini, trecento paracadutisti della «Folgore» e un centinaio delle forze speciali e da questa base, qualche giorno fa era partito l’automezzo dell’esercito che è saltato su una mina improvvisata. I giovani parà impettiti che ascoltano il discorso del ministro Ignazio La Russa in visita, piangono ancora il loro amico Alessandro. «Siamo orgogliosi di voi», dice il ministro. Che non si nega un briciolo di polemica con i pacifisti che furono: «C’era chi invocava una pace unilaterale con bandiere multicolori. Il nostro affetto va a chi per la pace opera sul serio, con il tricolore, e il basco che portate con orgoglio».
La guerra continua. E anzi c’è da aspettarsi un aggravamento della situazione. Il generale Rosario Castellano, comandante della «Folgore», è stato molto esplicito nel suo briefing con il ministro: «Queste le previsioni per il mese prossimo, quando si terranno le elezioni: se a luglio abbiamo avuto 134 attacchi, ce ne aspettiamo 179». Quattro al giorno. L’escalation non ha risparmiato la regione Ovest, insomma, dove sono gli italiani. Sono raddoppiati gli attacchi (136 nell’ultimo quadrimestre, erano stati 69 l’anno scorso), gli ordigni esplosivi, i razzi lanciati contro le basi. Ma sarebbe offensivo paragonare la base di Farah al Deserto dei Tartari. Qui i nemici ci sono, eccome. «Solo che sono invisibili», spiega un baffuto maresciallo dei carabinieri. «Tutto pare normale. Ma quando si esce di pattuglia può succedere qualsiasi cosa».
È quanto accaduto qualche giorno fa al caporale Di Lisio, esperto artificiere. «Pensi che quei ragazzi da soli hanno disinnescato cinque mine», si commuove padre Adriano, il cappellano militare. Forse proprio Di Lisio si è accorto che qualcosa non andava. L’autoblindo Lince s’è fermata, ha fatto retromarcia per un metro e a quel punto è saltata in aria. Un boato pazzesco: gli attentatori, alla maniera dei mafiosi di Capaci, avevano scavato un tunnel sotto la strada e avevano piazzato settanta chili di esplosivo. Per esplodere è bastato passarci sopra. Così l’automezzo di Di Lisio è volato per aria; il tetto s’è divelto; il mitragliere è rimasto schiantato. «Ma noi non ci fermiamo e torniamo di pattuglia anche per lui», dice Fabio Barile, un altro caporale che era in quel convoglio.
Nemici invisibili, clima intollerabile, pericolo costante. Questo è l’Afghanistan di oggi. Dall’Occidente arrivano truppe addestrate e bene armate, ma si trovano di fronte una guerriglia furba, elastica, subdola. Gli «insurgens» possono essere ovunque. I loro mezzi, banali. Gli esplosivi se li fanno in casa mescolando fertilizzanti a gasolio e polvere di metallo. Gli inneschi sono ingegnose rielaborazioni di molle, copertoni, pezzi di legno, bandoni di metallo. Alla fine, l’arma migliore è l’uomo. «Le loro tecniche - racconta un colonnello del genio artificieri - sono rudimentali, ma molto efficaci. Non c’è tecnologia che tenga contro un filo di ferro. L’unica contromisura è un occhio addestrato. Bisogna scrutare il terreno, sospettare se c’è della terra smossa, o un cespuglio dove non dovrebbe, o mattoni impilati lungo la carreggiata».
E quindi ecco la vita quotidiana dei soldati. Pattuglie che procedono lente per cercare di non cadere in trappola. Addestramento di truppe afghane sperando che un giorno possano fare da soli. Intervento dal cielo con elicotteri da battaglia o osservazione con droni senza pilota. Combattimento, in aree come Bala Murghab, dove intere valli sono sotto controllo degli «insurgens». Spasmodica attività di intelligence per monitorare ogni tensione tra clan, infiltrazione di taleban o nervosismo di criminali vari. Dei duemilacinquecento soldati italiani che sono da queste parti, con turni di sei mesi, c’è chi da aprile non è mai uscito dal cancello. Oppure chi esce di pattuglia ogni mattina e sfida la morte a ogni curva.
Il «surge» ordinato da Barack Obama, cioè la grande campagna per spezzare le reni agli «insurgens», viste le immense distanze dell’Afghanistan, sembra lontano. Preoccupa piuttosto la campagna elettorale che sta entrando nel vivo. Anche se poi, ovviamente, i territori confinano uno con l’altro, i contingenti si scambiano informazioni quotidianamente, i «nemici» sgusciano di qua e di là cercando di assestare i loro colpi. «L’ultima novità ci è stata segnalata dagli americani - dice ancora il generale Castellano - e cioè aumentano le mine antiuomo». E ci sono attentatori suicidi che fingono di essere pacifici contadini, si mostrano ospitali e poi si fanno saltare quando una pattuglia è entrata in casa. Purtroppo, le regole della guerra sono queste: Obama ha ordinato ai suoi soldati di combattere casa per casa e gli «insurgens» trasformano le case in trappole.

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