Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 11/07/2009, a pag. 12, l'articolo di Maurizio Caprara dal titolo "E Teheran accusa l’Italia di picchiare chi contesta " e, a pag. 42, l'articolo di Christopher Hitchens dal titolo " Dalla fragile democrazia irachena all’effetto domino di Teheran ". Dal GIORNALE, a pag. 17, l'articolo di Fausto Biloslavo dal titolo " A Teheran un golpe militare guidato dal figlio di Khamenei ". Dalla REPUBBLICA, a pag. 10, l'articolo di Guido Rampoldi dal titolo " La condanna dell´Occidente non spaventa Teheran ". Dall'UNITA', a pag. 27, l'articolo di Rachele Gonnelli dal titolo "A Teheran la conta dei morti. Ma i basiji trafugano corpi dalle morgue degli ospedali ". Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Maurizio Caprara : " E Teheran accusa l’Italia di picchiare chi contesta "
Manouchehr Mottaki, Ministro degli Esteri iraniano
L’AQUILA — Il ministero degli Esteri iraniano ha convocato l’ambasciatore d’Italia a Teheran e gli ha comunicato la «condanna» della Repubblica islamica di Mahmoud Ahmadinejad per «l’uso della forza, da parte della polizia italiana, volta a reprimere le manifestazioni degli oppositori» al vertice del G8. Considerato che il regime iraniano ha mandato i miliziani basiji a manganellare da moto in corsa studenti in corteo, che all’Aquila non è accaduto nulla di simile a quanto successe a Genova nel 2001, che in Iran i dissidenti finiscono in galera, la notizia di ieri a prima vista risulta surreale. In realtà, si tratta dell’ennesima puntata di una partita nella quale le mosse sono studiate con freddezza.
Oltre all’ambasciatore Alberto Bradanini, chiamato in qualità di rappresentante del Paese che presiede il G8, è stato oggetto di una convocazione anche il suo collega tedesco. A entrambi è stato addebitato che l’Europa adotterebbe «restrizioni contro la minoranza islamica con il pretesto di combattere il terrorismo ». Secondo Teheran, il G8 avrebbe la colpa di un «silenzio» su una violazione dei diritti umani: l’uccisione di una egiziana a Dresda. Per capirne di più occorre guardare al passato recente e a ieri.
L’Italia è lo Stato europeo che da anni coltiva di più i canali di dialogo con l’Iran. Nella conferenza stampa finale del vertice dell’Aquila, Silvio Berlusconi non ha riservato una parola alla messa in guardia ricevuta. Pur ricordando che il G8 ha espresso «deplorazione» per «le violenze» in Iran e «condanna» per le dichiarazioni di Ahmadinejad che negano la Shoah, il ministro degli Esteri Franco Frattini si è soffermato sull’offerta di dialogo avanzata dagli Otto affinché Teheran non spinga i suoi piani nucleari alla produzione di bombe atomiche: «Spero che l’Iran comprenda l’importanza di cogliere la mano tesa». Un’offerta che a Barack Obama, il promotore, sta costando qualche fatica mantenere aperta. «L’Iran deve riunirsi alla comunità internazionale. Se sceglierà di non varcare quella porta, dovremo compiere ulteriori passi», ha affermato il presidente degli Usa. «Non potremo aspettare all’infinito», ha aggiunto Obama. Qui sta il punto: mentre a Teheran non sono ancora del tutto chiari gli equilibri di potere post-elettorali e Mosca frena una linea dura, nel G8 la speranza di aprire un negoziato per convincere l’Iran a rinunciare all’atomica è stata preferita all’innalzamento di un muro in segno di difesa dei dissidenti iraniani. «Non è vero che puntiamo alle sanzioni», ha confermato Obama. Berlusconi in pubblico ha detto che «si è deciso all’unanimità» di non chiederne altre anche se Nicolas Sarkozy ne avrebbe volute, a suo avviso «perché una studentessa francese è stata arrestata e accusata di spionaggio».
L’Italia è stata individuata a Teheran come Paese da avvertire. Non ha subito arresti di personale della sua ambasciata, come la Gran Bretagna, o di suoi cittadini, come la Francia. Il diplomatico che ha incontrato Bradanini, Mostafa Doulatyar, direttore generale per gli affari europei, è lo stesso al quale Frattini il 25 febbraio affidò l’invito al ministro degli Esteri iraniano per la conferenza di giugno sull’Afghanistan a Trieste. Prima che quel viaggio non si realizzasse, una visita di Frattini in Iran saltò perché Ahmadinejad voleva ricevere il ministro italiano nel Semnan. Da lì, il presidente iraniano aveva appena assistito al lancio di prova di un missile capace di raggiungere il Sud-Est dell’Europa.
Giovedì, Frattini è stato preso di mira da Aly Akbar Velayati, consigliere della Guida suprema Ali Khamenei. Accuse di «interferenze sconsiderate», di «non essere adeguato a farci richiami». Il ministro ha cercato di schivare il colpo: «Evidentemente si riferisce a un’altra persona».
CORRIERE della SERA - Christopher Hitchens : " Dalla fragile democrazia irachena all’effetto domino di Teheran "
Hashemi Rafsanjani
La notizia più interessante, e più trascurata, delle ultime settimane in Iran riguarda la sfida lanciata dall’ex presidente Hashemi Rafsanjani alla «Guida suprema», l’ayatollah Ali Khamenei, che appare sempre più isolato e in affanno. Di recente Rafsanjani ha reso visita alla città di Najaf, in Iraq, per incontrare l’ayatollah Ali Husaini Sistani, rivale storico delle dottrine di Khamenei, per poi conferire nella città di Qom con Jawad al-Shahristani, portavoce di Sistani in Iran. Dai colloqui in corso tra sciiti iracheni e iraniani, il fine settimana scorso da Qom è stata emanata la sorprendente dichiarazione che il governo di Ahmadinejad non è legittimato a rappresentare il popolo iraniano.
È questo uno dei paradossi più sorprendenti sotto gli occhi di chiunque si rechi in visita in Iran: per trovare un’opposizione radicata all’autocrazia degli ayatollah, occorre fare un giro nelle città sante di Mashad e Qom. È da luoghi come questi, consacrati dai vari imam della mitologia sciita, che scaturiscono spesso le critiche più aspre e ostinate.
Sotto questa luce, pertanto, appare molto significativa la dichiarazione emanata lo scorso sabato dall’Associazione dei docenti di Qom, fonte venerata di proclami religiosi, la quale in realtà ha detto chiaro e tondo che le recenti elezioni tenutesi nel Paese altro non sono che una farsa vergognosa.
Non è difficile leggere due preoccupazioni di fondo nelle esternazioni dell’Associazione. La prima è che il risentimento popolare per i brogli elettorali e la scandalosa repressione delle ultime settimane dev’essere davvero profondo e diffuso. Le divergenze tra i membri del clero vengono solitamente risolte per vie molto più discrete. Se gli studiosi sciiti di Qom sono pronti a denunciare pubblicamente che il regime di Ahmadinejad è un’impostura, ciò vuol dire che hanno toccato con mano l’intensità dei sentimenti che agitano la popolazione. La seconda intuizione deriva dalla prima: non è esagerato affermare che la Repubblica islamica, nella sua attuale configurazione, sta attraversando una grave crisi di legittimità.
Tra i sostenitori della fazione anti-khomeinista, troviamo addirittura il nipote del defunto ayatollah, Sayeed Khomeini, membro relativamente giovane delle gerarchie clericali a Qom. E tra coloro che respingono la commistione profana tra clero e potere politico, la personalità più nota è senz’altro il Grande ayatollah Sistani, guida spirituale del vicino Iraq. (A ribadire l’importanza di questi legami, ricordiamo che Sistani è un iraniano, mentre l’ayatollah Khomeini architettò gran parte della sua futura dittatura religiosa proprio mentre si trovava in esilio in Iraq).
E questo ci spinge a formulare una domanda inevitabile: il rovesciamento del regime di Saddam Hussein, e le successive libere elezioni cui hanno partecipato numerosi schieramenti rivali sciiti, possono aver esercitato una qualche influenza sui sorprendenti avvenimenti in Iran?
Certo è che nel corso di un’intervista, qualche anno fa a Qom, Sayeed Khomeini parlò apertamente della «liberazione dell’Iraq» e sembrò nutrire la speranza che l’esempio sarebbe stato seguito in altri Paesi della regione. Ma se una rondine non fa primavera, non dimentichiamo che moltissimi iraniani si recano ogni anno in pellegrinaggio nei luoghi santi di Najaf e Kerbala nel sud dell’Iraq. E costoro hanno avuto modo di vedere con i propri occhi come si sono svolte le votazioni politiche e amministrative — per lo più nel rispetto della legalità ed esenti da brogli — e hanno assistito alle campagne elettorali i cui i tanti partiti sciiti iracheni si sono dati da fare per conquistare i voti dell’elettorato (mentre le fazioni allineate con il regime iraniano hanno subito una cocente sconfitta). Costoro avranno certamente assistito ai dibattiti democratici che si svolgono — seppur con frequenti turbolenze — nel parlamento iracheno, i cui lavori vengono poi riportati con sufficiente imparzialità dai media iracheni. Nel frattempo, la casta dei mullah iraniani inscena una finta elezione e tenta persino di truccare il risultato. Gli iraniani non amano certamente ispirarsi agli arabi — e meno che mai agli iracheni — ma dover assistere allo svolgimento di un processo libero e democratico nel Paese accanto potrebbe realmente averli invogliati a fare altrettanto in Iran.
Non c’è dubbio che sono in gioco anche altri fattori determinanti.
Contrariamente alla distinzione semplicistica tra «i liberal delle città» e «i conservatori delle campagne» che viene riproposta da tanti analisti, l’Iran è un Paese dove è in atto la rapidissima urbanizzazione di una popolazione tradizionalmente rurale, e come tutti i bravi marxisti sanno, storicamente un simile momento è sempre foriero di spinte rivoluzionarie. Nell’Iraq di Saddam Hussein, il possesso di un’antenna parabolica era punita con la morte, ma è palese che in Iran i mullah non sono in grado di far rispettare i divieti sulle comunicazioni private e sulle trasmissioni per canali non ufficiali. Eppure, proprio perché tanto arretrati e fanatici, essi continuano a insistere su questa strada. Tutti gli iraniani che conosco personalmente sono convinti che i recenti eventi, anche se non sanciranno la caduta del regime di Khamenei, sono presagio sicuro dell’inizio della fine.
Il GIORNALE - Fausto Biloslavo : " A Teheran un golpe militare guidato dal figlio di Khamenei "
Mojtaba Khamenei
Mojtaba, il secondogenito della guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei, è l’eminenza grigia dietro la dura repressione delle proteste di Teheran. Il «delfino» del grande ayatollah Khamenei è stato addirittura accusato di aver ordito «un golpe militare», che ha tenuto in piedi il regime dopo le contestate elezioni presidenziali del 12 giugno. Ieri il giornale arabo al Sharq al Awsat scriveva che Mehdi Karroubi, uno dei candidati alla presidenza, ha indirizzato alla suprema guida una lettera di fuoco. «Mojtaba, è il responsabile del colpo di stato militare», avrebbe scritto Karroubi. Anche il potente ayatollah Hashimi Rafsanjani punterebbe il dito contro il figlio di Khamenei. Il capo della fazione pragmatica dei conservatori, avrebbe «espresso ai vertici del potere la propria rabbia sulle sue interferenze. Mojtaba, qui a fianco in una delle rare sue foto, è il rappresentante più giovane ed estremista dell’ala radicale incarnata dal padre e da Ahmadinejad. Austero e ombroso, appare raramente in pubblico ed è cresciuto attorniato da guardie del corpo e membri dei servizi di sicurezza. Da tempo è l’unica via di accesso al beit-i-rahbari, la guida suprema dell’Iran. Gestisce la segreteria di Khamenei e anche gli inviti nella residenza del leader. Il padre, che ha 70 anni, starebbe lavorando per farsi succedere da Mojtaba. Gran parte del clero iraniano ed in particolare l’Assemblea degli esperti, presieduta da Rafsanjani, non ne vogliono sapere. Il secondogenito non ha i titoli religiosi per diventare guida suprema. Non li aveva neppure il padre quando è stato nominato successore del grande ayatollah Khomeini.
Mojtaba ha aiutato Ahmadinejad fin dalla sua prima elezione a presidente nel 2005. Con lo scoppio della protesta, contro i brogli denunciati dallo sfidante Mir Hossein Musavi nel voto del 12 giugno, il figlio di Khamenei ha preso in pugno la situazione. Secondo fonti vicine ai servizi di sicurezza iraniani, Mojtaba avrebbe preso il controllo dei basiji. I giovani «volontari della rivoluzione», organizzati come forza paramilitare, sono stati scatenati contro le manifestazioni di piazza. Un medico iraniano ha denunciato al quotidiano inglese The Guardian che proprio i basiji hanno messo in piedi un’operazione di «insabbiamento» sul numero di vittime negli scontri. «Solo nell’ospedale in cui lavoravo, nella prima settimana di proteste, abbiamo registrato la morte di 38 dimostranti, in gran parte uccisi da colpi di arma da fuoco», scrive il medico sul Guardian. «Un collega mi ha riferito che nel suo ospedale ci sono state 36 persone ricoverate per ferite da armi da fuoco e 10 morti», racconta ancora. I decessi, inoltre, non sarebbero stati registrati solo a Teheran, ma anche a Isfahan e Shiraz, «ed altre città».
La repressione ha lasciato un segno indelebile anche in campo conservatore. Contro i Khamenei ed Ahmadinejad si starebbero schierando il presidente del parlamento, Ali Larijani, il sindaco di Teheran, Mohammad Baqer Qalibaf, l’ex candidato presidenziale Mohsen Rezai. Oltre ad alti ufficiali dei Pasdaran come Ali Jafari, comandante della Guardia Rivoluzionaria e il generale Ali Fazli, capo dei Guardiani della Rivoluzione a Teheran.
La REPUBBLICA - Guido Rampoldi : " La condanna dell´Occidente non spaventa Teheran "

Molte parole per dire nulla: però un nulla che è meglio di un errore. Chiamato dagli eventi a pronunciarsi sulle manipolatissime elezioni iraniane e sulla successiva repressione, il G8 si è limitato ad una formula minimalista di critica, la deplorazione.
Deplorando arresti e violenze di regime, il vertice ha salvato la decenza ma non ha impressionato il presidente Ahmadinejad, "condannato" dagli Otto unicamente per le dichiarazioni che negano l´Olocausto. A voler essere ottimisti si potrebbe concludere che gli occidentali hanno fatto proprio l´atteggiamento interlocutorio russo nel calcolo che una postura minacciosa, o la scelta di rafforzare le sanzioni, avrebbero sbilanciato lo scontro in corso all´interno della teocrazia iraniana, avvantaggiando i falchi e indebolendo i pragmatici, la sponda cui l´amministrazione Obama si affida per avviare con Teheran un negoziato globale.
Ragionevole. Però ora si avverte nei cosiddetti Grandi un eccesso di attese nei confronti del carismatico presidente americano. Soprattutto gli europei sembrano confidare che da qui all´autunno il ciclone Obama riesca a movimentare il panorama immobile che corre da Teheran fino a Gaza, convinca il regime iraniano a mostrarsi duttile (anche sul nucleare), Israele ad accettare la soluzione dei due Stati (auspicata dagli Otto), i palestinesi a ritrovare una qualche unità... Ma l´autunno è vicino, e quell´incastro di stalli difficile da sbloccare.
L'UNITA' - Rachele Gonnelli : " A Teheran la conta dei morti. «Ma i basiji trafugano corpi dalle morgue degli ospedali» "
violenze sui manifestanti
Ci sarebbe anche un cittadino statunitense residente a Teheran, tra le persone arrestate ieri per aver partecipato alle manifestazioni di commemorazione del massacro di studenti di dieci anni fa, il 9 luglio. Si chiama Kian Tajbakhsh ed è stato anni fa consulente della fondazione di George Soros, il magnate molto attivo nel sostenere le «rivoluzioni di velluto» dei Paesi dell’est. Haadi Ghaemi dell’associazione internazionale Human Right in Iran ha denunciato alla rivista Time che la polizia ha fatto irruzione in casa sua, sequestrato il suo computer e lo ha messo in arresto.
Secondo il sito Roozonline, collegato agli iraniani d’America, molte persone che sono state arrestate in queste ultime ore e nelle settimane successive alle elezioni per le proteste contro i brogli e Ahmadinejad, sono detenute in condizioni disumane. «Particolarmente in pericolo è Mahsa Amrabadi - scrive Rooz - una giornalista incinta che si dice essere sottoposta a forti pressioni». Bijan Khajehpur, analista economico, arrestato la scorsa settimana all’aeroporto internazionale di Teheran sarebbe «in cattive condizioni di salute, anche a causa dell’insufficienza renale di cui è affetto». Altri testimoni confermano che le autorità carcerarie costringerebbero i detenuti a fornire confessioni di comodo, estorte anche con la tortura.
Sui blog e su Facebook continuano a essere postati numerosi video delle violenze perpetrate per strada contro i dimostranti del 9 luglio. Si vedono di nuovo in azione le milizie Basiji, già responsabili del massacro di dieci anni fa. Vanno ancora in due sulle moto, con i caschi e i bastoni, ma a differenza dei pestaggi subito dopo il voto quando si mostravano neri come cavalieri dell’apocalisse, ora indossano abiti civili, magari con il gilet antiproiettile sopra. Sono loro, sempre loro, secondo le testimonianze raccolte dal quotidiano progressista britannico Guardian, a sottrarre i cadaveri delle persone uccise per strada dalle camere mortuarie degli ospedali. Prima ancora di chiedere alle famiglie di omettere le circostanze della morte del parente o di imporre ai medici di stilare referti di comodo inventando malattie o decessi improvvisi. «I basiji - racconta una fonte ospedaliera - hanno manipolato i registri degli ospedali, e identificato i feriti. I cadaveri li confiscano, e dicono alle famiglie che stati trasferiti in altre strutture per la donazione di organi. Se i decessi sono causati da armi da fuoco, tolgono i proiettili dai corpi che poi riportano in ospedale, annotando una causa di morte diversa». E un altro medico: «Solo nell’ospedale in cui lavoravo, nella prima settimana di proteste, abbiamo registrato la morte di 38 dimostranti, la gran parte uccisi da colpi di arma da fuoco». «Un collega mi ha riferito che nel suo ospedale ci sono state 36 persone ricoverate per ferite da armi da fuoco e 10 morti».
Cosa ci guadagnano per tutto questo? «Ad esempio non pagano le rette universitarie - spiega il blogger Saeed Valadbaygi - e hanno quote riservate nei posti pubblici e nelle facoltà». «Saranno tutti basiji nel prossimo anno accademico, temo», dice Saeed.
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