Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Obama: 'Gli Usa sono determinati a bloccare lo sviluppo di armi nucleari iraniane ' E Moussavi ha definito le ultime elezioni 'Colpo di Stato'
Testata:Il Foglio - Il Giornale Autore: La redazione del Foglio - Roberto Fabbri Titolo: «Lo sciopero è l’ultima occasione dell’opposizione iraniana - Obama: fermeremo l’atomica iraniana»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 03/07/2009, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Lo sciopero è l’ultima occasione dell’opposizione iraniana " e dal GIORNALE, a pag. 16, l'articolo di Roberto Fabbri dal titolo " Obama: fermeremo l’atomica iraniana ". Ecco gli articoli:
Il FOGLIO - " Lo sciopero è l’ultima occasione dell’opposizione iraniana "
Moussavi
Roma. Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace, stima che i giovani vittime della repressione degli ayatollah nelle ultime settimane possono essere stati cento, mentre alcuni blogger spiegano che i medici degli ospedali sono stati costretti a stilare false autopsie per coprire le vittime dei pasdaran e dei bassiji e altri blogger indicano in 2.400 e più gli arrestati. La mano feroce del regime iraniano ha così ottenuto il suo risultato e le manifestazioni di piazza sono terminate, soffocate, represse; la voce dell’opposizione può continuare a levarsi soltanto di notte, sui tetti della città, urlando al cielo “Allah o-Akhbar” ed è poi costretta a inabissarsi carsicamente. Su Twitter, però, così come sulla rete degli sms (ieri riattivata), ha iniziato a girare l’indicazione di uno sciopero generale – indetto dal cinque all’otto luglio – secondo le regole dell’islam che lo definisce “Etekaf”: astensione dal lavoro, concentrazione permanente nelle moschee, chiusura dei negozi. Questo “Etekaf”, dunque, se avrà successo, darà al paese un chiarimento definitivo circa l’atteggiamento politico di una sua componente fondamentale: i bazaari. Durante i dodici mesi che precedettero la rivoluzione del febbraio 1979, lo sciopero generale dei bazaar fu determinante per sgretolare il regime dello scià e oggi la fronda al regime da parte di Hashemi Rafsanjani è espressione proprio del bazaar. In Iran, peraltro, più che nei paesi arabi, il bazaar e i bazaari sono ben più che l’agglomerato delle piccole botteghe commerciali e artigiane dei centri storici. Grazie alla Rivoluzione verde dello scià decretata dall’alto (su imposizione di John Kennedy) nel 1963, si è infatti formato in Iran un ceto finanziario non indifferente, legato alla razionalizzazione capitalista dell’agricoltura, sino ad allora semi feudale, che si è aggiunto alle tradizionali famiglie che controllavano le finanze e il credito dei vari bazaar. Spesso, peraltro, i più influenti ayatollah, provengono proprio dalle famiglie dei bazaari, che in Iran hanno una eccellente proiezione internazionale (caso unico nel mondo musulmano) nella immensa rete di venditori di tappeti, capillarmente presente in tutto l’occidente (veicolando anche relazioni finanziarie e investimenti) e sono anche al centro dei tentativi di dare spessore alla Borsa di Teheran. Tentativi frustrati dalla fallimentare gestione dell’economia da parte del presidente “rieletto” Mahmoud Ahmadinejad – che hanno vanificato le timide riforme dell’era Mohammad Khatami – con conseguente fuga massiccia dei capitali dei bazaari verso le borse degli emirati, in primis verso Abu Dhabi. Di fatto, però, i bazaari – che pure sono stati la spina dorsale della Rivoluzione khomeinista – hanno visto declinare enormemente il loro peso nella società iraniana proprio a causa dell’impostazione economica della Repubblica islamica. Questo, dopo che le loro fila sono state decimate dalla repressione del 1981-82, quando molti di loro si erano legati alla componente riformista – ma perdente – del regime di Banisadr e Bazargan, tanto che larga parte dei due milioni di iraniani oggi esuli nel mondo (soprattutto negli Stati Uniti) è costituita da famiglie legate al bazaar. Il populismo islamico di Khomeini, infatti, ha sottratto a questi ceti urbani finanziari e commerciali anche il loro secolare primato economico (che era diventato consistente anche dal punto di vista della massa critica di capitali controllata, grazie alla modernizzazione iniziata dallo scià) a favore di due immensi centri di potere economico: le Bonyad, le Fondazioni (dei Martiri, del Pellegrinaggio, e altre) e i pasdaran. I 270 milioni di dollari (quotazioni del 2008) che secondo il Sole 24 Ore si riversano nel paese ogni giorno grazie alla vendita del petrolio non vengono affatto immessi nel sistema produttivo o economico, ma sono in larga parte trasformati immediatamente in reddito distribuito attraverso le fondazioni a non meno di 20 milioni di iraniani. Una Fondazione come la Bonyad e Mostazafen va Janbazan (Fondazione degli oppressi e dei disabili) controlla da sola il 20 per cento dell’intera industria tessile, il 40 di quella delle bevande, il 75 del vetro ed è dominante nell’acciaio, chimica e alimentari. Da parte loro, i pasdaran hanno ormai acquisito la proprietà non soltanto di industrie legate alla produzione militare (incluse fabbriche di gas nervino), ma anche di larga parte del ciclo industriale di arricchimento dell’uranio, oltre a fabbriche chimiche, di telecomunicazioni e metalmeccaniche, imprese edili e petrolifere. Questo modello corrisponde esattamente mente a quello della Germania nazista, là dove la Hermann Göring Werke e le Ss controllavano la proprietà di larga parte dell’apparato industriale, il che spiega l’enorme peso politico del “partito dei pasdaran” che ha espresso Ahmadinejad. Questo è ancora più rilevante in un paese molto deficitario dal punto di vista industriale (e anche obsoleto: il centro siderurgico a Isphahan e le raffinerie non sono mai stati ammodernati dal 1979), caratterizzato da fabbriche che assemblano pezzi importati, appesantito da un rifiuto culturale di impiegare la rendita petrolifera per sviluppare l’industria, che accomuna l’Iran a tutti i paesi islamici. Le botteghe e la provincia In questo contesto, lo sciopero generale proclamato dall’“onda verde”, se avrà successo, sarà limitato ai settori meno soggetti al controllo dei pasdaran e degli ayatollah che presiedono le Bonyad, e coinvolgerà essenzialmente quel settore economico ormai marginale che è controllato dai bazaari di Hashemi Rafsanjani, considerato il regista (ormai troppo taciturno) della rivolta seguita al voto del 12 giugno. Tra il cinque e l’otto luglio, dunque, se si ripeterà in massa quel fenomeno che già si è verificato nei giorni scorsi anche nella provincia (a Isphahan e Meshad) e se nei bazaar le botteghe saranno chiuse, vorrà dire che la frattura innescata dai brogli elettorali è stata profonda e irreparabile, perché ha coinvolto la spina dorsale storica del paese. Sarà qualcosa di ben più rilevante di uno sciopero del commercio e dell’artigianato. Ma se non sarà così, se lo sciopero coinvolgerà soltanto studenti e settori produttivi marginali (già da anni peraltro in preda a convulse agitazioni sindacali), il segnale sarà molto negativo e Mahmoud Ahmadinejad, già confermato dal Consiglio dei Guardiani, ne trarrà ulteriore fiato.
Gli Stati Uniti sono «determinati a fermare lo sviluppo di armi nucleari iraniane». Barack Obama torna a parlare di Iran e questa volta non lo fa per criticare il pesantissimo trattamento riservato ai manifestanti che contestano la veridicità dei risultati delle elezioni presidenziali del 12 giugno. Parla invece del preoccupante programma atomico di Teheran in un’intervista alla Associated Press, nel corso della quale si rivolge al presidente russo Dmitry Medvedev invitandolo a voltare pagine nei rapporti con Washington e riconosce che nella comune gestione della questione iraniana «c’è una buona cooperazione». Rischia intanto dieci anni di carcere Mir Hossein Moussavi, il candidato sconfitto alle presidenziali nel cui nome enormi folle sono scese in strada in queste settimane per le più grandi manifestazioni di protesta della trentennale storia della Repubblica islamica. Gli ultraconservatori vicini al presidente Mahmud Ahmadinejad e i famigerati miliziani basiji si apprestano infatti a scrivere al procuratore generale per far processare Moussavi per «offese contro lo Stato» e «disturbo alla sicurezza della nazione». Mousavi sembra comunque tutt’altro che rassegnato. Mercoledì aveva rotto un silenzio lungo una settimana per definire «un colpo di Stato» il risultato delle elezioni. Non trovandosi, tra l’altro, isolato in questa denuncia: quando ha detto che «la maggior parte della gente in Iran, tra cui me, non accetta la legittimità» dell’attuale governo, si sono detti d’accordo anche l’altro candidato sconfitto Mehdi Karoubi e l’ex presidente Mohammad Khatami. E tutti insieme hanno affermato che «continuare a protestare e non abbandonare gli sforzi per salvaguardare i diritti della nazione è una responsabilità storica». Ieri il suo portavoce, il regista Mohsen Makhmalbaf, ha detto che gli iraniani continueranno «la loro lotta contro il fascismo in Iran in maniera non violenta, come fece Gandhi in India». E ha preannunciato un grande sciopero «islamico» «organizzato direttamente dall’entourage di Moussavi». Intanto il regime ha allentato parzialmente la morsa della censura in Iran. Il servizio di invio degli Sms è infatti stato sbloccato dopo che era stato sospeso alla vigilia delle elezioni con l’evidente intento di rendere difficili le comunicazioni tra gli oppositori di Ahmadinejad. Le autorità hanno anche voluto fornire delle cifre relative ai disordini delle scorse settimane, parlando ufficialmente di 20 morti e 1032 persone arrestate. Ma fonti indipendenti in contatto con l’Iran forniscono dati assai diversi. «Dal 12 giugno ad oggi in Iran sono state arrestate più di 2700 persone - dice il blogger Omid Habibinia, in esilio in Svizzera dal 1988 - e secondo i miei dati (confermati dal premio Nobel Shirin Ebadi, ieri in Italia, ndr) oltre 100 persone sono state uccise a Teheran e in altre città iraniane. Soltanto il 20 giugno, giorno di una vera e propria rivolta contro il regime, la polizia e le milizie hanno ucciso più di 30 persone». Habibinia fornisce altre inquietanti informazioni. «Pochi corpi sono stati restituiti alle famiglie, solo a chi ha accettato di non far svolgere funerali e di tacere sull’accaduto. Gli ospedali sono stati costretti a stilare falsi certificati di morte con diagnosi di infarti o incidenti d’auto, scatenando le proteste di medici e infermieri». Ma soprattutto «cento fra giornalisti e blogger, centinaia di attivisti politici e di sindacalisti sono stati arrestati. Le prigioni sono piene di gente che spesso non c’entra niente con Moussavi: in Iran è in corso ben altro che una lotta fra due partiti della Repubblica islamica».
Per inviare la propria opinione a Foglio e Giornale, cliccare sulle e-mail sottostanti