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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica - L'Unità Rassegna Stampa
03.07.2009 E' iniziata l'offensiva americana 'colpo di spada' in Afghanistan
Cronache e analisi di Maurizio Molinari, Paolo Valentino, Ennio Caretto, Guido Olimpio, Vittorio Zucconi

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica - L'Unità
Autore: Paolo Valentino - Maurizio Molinari - Ennio Caretto - Guido Olimpio - Vittorio Zucconi - Luigi Offeddu - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Il 'colpo di spada' di Obama contro i talebani - L’America si affida ancora ai marines ma non sarà un nuovo Vietnam - La leggenda di Zakir, il fedele successore del Mullah Omar - Gli altri Paesi aiutino di più gli Stati Uniti - Un blitz firmato dal gener»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 03/07/2009, a pag. 8, la cronaca di Paolo Valentino dal titolo " Il «colpo di spada» di Obama contro i talebani  ", a pag. 9, gli articoli di Ennio Caretto e Guido Olimpio titolati " L’America si affida ancora ai marines ma non sarà un nuovo Vietnam " e " La leggenda di Zakir, il fedele successore del Mullah Omar  " e l'intervista di Luigi Offeddu a Jaap de Hoop Scheffer, segre­tario generale della Nato, dal titolo " Gli altri Paesi aiutino di più gli Stati Uniti ". Dalla STAMPA, a pag. 10, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Un blitz firmato dal generale 'Cerca e uccidi' " e la sua intervista a Robert Kaplan dal titolo " Così Obama cancella i santuari della Jihad ". Dalla REPUBBLICA, a pag. 1-15, l'articolo di Vittorio Zucconi dal titolo " Il guerriero Obama  " preceduto dal nostro commento. Dall'UNITA', a pag. 23, l'intervista di Umberto De Giovannangeli a Fabio Mini, già Capo di stato maggiore del Comando Nato delle forze alleate Sud Europa e al vertice della Kfor in Kosovo, dal titolo " Addio raid aerei. Truppe a terra per riavere il controllo  ".  Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Paolo Valentino : " Il «colpo di spada» di Obama contro i talebani  "

WASHINGTON — La con­quista della valle dell’oppio è cominciata. Quattromila mari­nes sono entrati in azione ieri all’alba nella provincia di Hel­mand, lungo il fiume omoni­mo, la regione meridionale del­l’Afghanistan sotto il controllo dei talebani, dove viene coltiva­ta la metà della produzione mondiale di papavero.
Appoggiata da elicotteri Apa­che, mezzi corazzati e caccia, l’offensiva «Colpo di Spada» è la più massiccia lanciata dai co­mandi americani dall’attacco di Falluja, nel 2004. L’obiettivo è ripulire completamente la zona dalla presenza talebana, prima delle elezioni presidenziali del 20 agosto, ma questa volta ri­manendo sul territorio per pro­teggere la popolazione da ogni ritorno degli estremisti islamici e puntando a ripristinare tutti i servizi pubblici.
È il primo test di un radicale cambio di strategia, dopo anni di sforzi abortiti per distrugge­re i santuari talebani ed esten­dere l’autorità del governo di Kabul anche nelle regioni meri­dionali e orientali, reso possibi­le dall’invio dei rinforzi, 21 mi­la nuovi soldati, deciso dal pre­sidente Obama. I marines coin­volti
nell’operazione sono infat­ti tutti appena arrivati in Afgha­nistan. L’amministrazione Usa considera un successo nella val­le di Helmand cruciale per le sorti dell’intera guerra afghana, fronte principale della lotta ai terroristi di Al Qaeda e ai loro alleati.
Come avevano anticipato i capi militari, l’avanzata ha in­contrato
un basso grado di resi­stenza nel suo primo giorno: un marine è stato ucciso e alcu­ni altri sono stati feriti. Ma la previsione è che una volta pre­so il controllo delle città e vara­ti i pattugliamenti, le con­tro- azioni dei talebani dovreb­bero moltiplicarsi. Particolare cura è stata infatti data alla pre­parazione contro attacchi suici­di, imboscate e mine.
Man mano che le unità avan­zate giungeranno nei centri abi­tati, le istruzioni sono di costru­ire dei piccoli accampamenti in mezzo alla popolazione: «Andia­mo per rimanere, tenere le posi­zioni, difendere i civili, ricostru­ire e lavorare per trasferire ogni responsabilità alle forze afgha­ne », ha detto il generale Larry Nicholson, che comanda la Se­conda Brigata di Spedizione dei marines, protagonista dell’ope­razione. L’approccio americano non è nuovo, lo hanno già uti­lizzato
gli inglesi, ma su scala ri­dotta e mai con la massa critica di forze necessaria a capitalizza­re il successo militare.
Poco più di 650 soldati afgha­ni partecipano all’offensiva, che ha un appoggio indiretto anche da parte del Pakistan. Islamabad ha infatti mosso al­cune truppe verso l’area di con­fine con l’Afghanistan opposta al fiume Helmand, per bloccare ogni eventuale via di fuga ai mi­litanti talebani.
La scelta della valle dell’op­pio si basa sulla convinzione, sostenuta dai rapporti d’intelli­gence, che a differenza di altre aree la maggioranza della popo­lazione di Helmand non abbia alcuna simpatia per i talebani, che impongono un’applicazio­ne feroce della sharia nell’am­ministrazione della giustizia e nei comportamenti personali.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Un blitz firmato dal generale 'Cerca e uccidi' "

  Stanley McChrystal

Per il movimento anti-guerra è «il sicario di Dick Cheney» e i gruppi della sinistra liberal lo hanno rinominato il «torturatore di Baghdad» ma il ministro della Difesa Robert Gates lo considera il migliore generale nei ranghi del Pentagono e Bob Woodward gli assegna il merito di aver «sconfitto Al Qaeda in Iraq»: il generale che divide gli americani è Stanley McChrystal, nuovo comandante delle truppe in Afghanistan ai cui ordini si trovano i quattromila marines che Lawrence Nicholson sta guidando nel «Colpo di Spada» nella valle di Helmand.
A tacciarlo di essere «il capo degli assassini al servizio di Cheney» è il sito di Alternet, roccaforte dei sostenitori del ritiro delle truppe, secondo il quale «deve i suoi gradi al ruolo centrale avuto nell’impegnare le truppe speciali in omicidi illegali, torture sistematiche, bombardamenti di civili e missioni "cerca e uccidi"». Averlo nominato alla guida delle operazioni in Afghanistan contro i taleban è stato dunque per il foglio californiano «La Progressive» «un tradimento dei liberal da parte del presidente Obama». Alla base delle accuse contro Chrystal c’è il ruolo che ebbe in Iraq nella gestione di Camp Nama, un centro di detenzione che il sito Internet Antiwar.com definisce «un notorio luogo di percosse e omicidi a sangue freddo», nonché il fatto che appose la sua firma sui verbali che attestarono la morte sotto il fuoco dei taleban della stella del football Pat Tillman che poi invece si scoprì essere stato ucciso dai colpi sparati da propri commilitoni. «Ci furono le informazioni scorrette consegnate dal generale McChrystal all’origine dell’errata versione del decesso di Tillman» ha scritto il «New York Times».
Se tali accuse non hanno frenato la carriera del generale di 55 anni formatosi a West Point e Fort Bragg è per i meriti che si è guadagnato sul campo prima come ufficiale dei berretti verdi e poi come comandante del «Joint Special Operations Command» dal 2006 al 2008. Si tratta dei reparti più segreti delle forze armate al punto che non se ne ammette neanche l’esistenza, come dimostra che lo stesso McChrystal per molti anni non ha avuto neanche una residenza ufficiale negli Stati Uniti. Nel suo ultimo libro «The War Within» Bob Woodwards, il giornalista del «Washington Post» co-autore dello scoop del Watergate che obbligò Nixon alle dimissioni, attribuisce alle truppe speciali di McChrystal «il merito di aver ridotto le violenze in Iraq» in genere attribuito all’aumento dei rinforzi guidati dal generale David Petraeus.
Dopo aver passato un lungo periodo in Iraq, Woodward ha parlato di un’«arma segreta» grazie alla quale McChrystal è riuscito a eliminare i leader della jihad in Iraq, a cominciare dal capo di Al Qaeda Abu Musab Al-Zarqawi nel 2006. Dopo quel successo fu lo stesso presidente George W. Bush a rendere per la prima volta pubblico il nome del generale-eroe, al fine di ringraziarlo a nome della nazione.
Di quest’«arma segreta» McChrystal non ha mai voluto parlare ma negli ambienti militari si ritiene che abbia inaugurato una forma di sinergia fra alta tecnologia, sistemi di raccolta di intelligence e impiego truppe speciali che consente di «vedere dove si trova il nemico, sorprendendolo» come ha scritto Woodward. E’ questa abilità nel condurre operazioni di tipo non tradizionale che ha spinto il ministro della Difesa Gates ad assegnargli lo scacchiere dell’Afghanistan dove entro settembre potrà contare su circa 70 mila uomini - più delle metà di quelli schierati in Iraq - con il compito di poter, nei prossimi 36 mesi, mettere in rotta i taleban e ciò che resta di Al Qaeda. Per riuscire ha a disposizione una task force di 400 uomini e donne fra i migliori ufficiali delle intere forze armate: reclutati da lui, personalmente, in ogni reparto esistente, dai genieri ai marinai.

CORRIERE della SERA - Ennio Caretto : " L’America si affida ancora ai marines ma non sarà un nuovo Vietnam "

 Marines in Afghanistan

WASHINGTON — Quarant’anni fa, nel 1968, dopo l’offensiva nemica del Têt, il capodanno lunare vietna­mita, il leggendario corpo dei mari­nes condusse alcune delle più impor­tanti operazioni della guerra del Viet­nam tra cui l’«Operation Dewey Canyon» per il blocco dei rifornimen­ti vietcong sul sentiero di Ho Chi Minh. E cinque anni fa in Iraq dopo giorni di feroci combattimenti quasi casa per casa, una nuova generazio­ne di marines sgombrò Falluja dai terroristi di Al Qaeda e dagli insorti. Il Pentagono ha rilevato che per il più cruciale corpo delle forze armate Usa l’«Operazione Khanjar» in Afgha­nistan — «Colpo di spada» in farsi — è la massima operazione aerotra­sportata da quelle del Vietnam, e sa­rà la battaglia più impegnativa da quella di Falluja.
Un richiamo simbolico: se l’esito di una guerra è in bilico, l’America si rivolge ai suoi guerrieri, i marines. Nella valle di Helmand vuole vincere come vinse a Falluja, ma facendo te­soro dell’esperienza del Vietnam.
L’«Operazione Khanjar» segnala un drastico cambiamento di strate­gia in Afghanistan. È dovuta al gene­rale Stanley McChrystal, il nuovo co­mandante delle truppe alleate, già ca­po dei corpi speciali, studioso del conflitto vietnamita. Sinora, il Penta­gono aveva condotto la guerra afgha­na in prevalenza con i droni, i caccia e bombardieri automatici. «Ma come in Vietnam, dove usammo anche le superfortezze volanti — dichiara l’ex comandante delle forze della Nato Wesley Clark — così in Afghanistan questa strategia è stata controprodu­cente: le vittime civili dei bombarda­menti ci hanno alienato parte della gente». La guerra vietnamita, aggiun­ge Clark, «non fu una guerra tradizio­nale, bensì una guerriglia, come quel­la afghana. La si può vincere solo sul terreno e va sorretta dalla ricostruzio­ne
del territorio». I marines sono i più adatti a questo compito. Nel ’65 in Vietnam, con l’arrivo dei marines a Da Nang, la base aerea vicina alla zona smilitarizzata, l’America parteci­pò ufficialmente per la prima volta a una battaglia. Nel ’68, i marines im­pedirono che il Têt diventasse una sconfitta militare — ma fu una grave sconfitta politica — liberarono Huè, l’ex capitale occupata dai nordvietna­miti e dai vietcong, e bloccarono l’avanzata nemica con operazioni quale la «Meade river», l’accerchia­mento delle forze ostili con 5 mila uo­mini. Ma dal ’65 al ’71, quando il Pen­tagono incominciò a ritirarli dal Viet­nam in vista del disimpegno nel ’73, i marines furono anche un fattore di pace: per sei anni, nel programma Cap una loro pattuglia si stabilì in centinaia di villaggi, lavorando con la popolazione e con le milizie locali. Un modello che il generale McChry­stal si propone di imitare.
Alle missioni «search, destroy» (cerca e distruggi) contro Al Qaeda e i talebani, McChrystal intende affian­care la continua presenza dei mari­nes nella valle di Helmand, con fun­zioni anche civili. L’errore che il ge­nerale si propone di evitare a tutti i costi è l’«afghanizzazione» del con­flitto. In Vietnam, con la «vietnamiz­zazione » della guerra, la delega a ge­stirla ai sudvietnamiti, l’America de­cretò la sua sconfitta. Wesley Clark sottolinea che le truppe di Saigon non fecero fronte alle loro responsa­bilità. «E quelle afghane sono in peg­giori condizioni», osserva.
«In Iraq abbiamo dimostrato di avere imparato la lezione, non siamo venuti via troppo presto. La appliche­remo anche in Afghanistan». Nella valle di Helmand, le forze inglesi, che la presidiavano, erano troppo po­che. Ma il Pentagono si accerterà che i marines siano in numero sufficien­te e rimangano per tutto il tempo che ci vorrà. I suoi generali non sono come Curtis LeMay, che minacciava di «bombardare il Vietnam del Nord fino a riportarlo all’età della pietra». Né Obama è come Johnson e Nixon, i presidenti di quel tempo.

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " La leggenda di Zakir, il fedele successore del Mullah Omar  "

 Mullah Omar

WASHINGTON — La gran­de offensiva dei marines ha per obiettivo i guerriglieri che rispondono ai comandi di un personaggio diventa­to leggendario: il mullah Zakir.
Singolare la sua storia. Ab­dullah Gulam Rasoul — que­sta la sua vera identità — viene catturato dagli ameri­cani nel 2001 dopo la caccia­ta dei talebani e finisce nella prigione di Guantánamo, a Cuba. Il suo numero di ma­tricola è 008, un dato che in­dica che è stato tra i primi ad arrivare nel campo spe­ciale. Rasoul vi resta fino al 2007.
Il Pentagono lo riconse­gna agli afghani che, per ra­gioni poco chiare, lo rimetto­no in libertà. E da allora cre­sce nella gerarchia talebana, seguendo le operazioni nel­la parte sud del Paese. Per l’intelligence statunitense il mullah ha una grande espe­rienza. Arruolato dai taleba­ni nel 1995, rimane ferito in uno scontro a fuoco due an­ni
più tardi, quindi si trasfe­risce nella zona di Kunduz dove sarà catturato dalle truppe americane. In una ta­sca dell’abito gli trovano due orologi digitali Casio identici a quelli usati dai ri­belli per attivare ordigni a tempo. Lui nega e afferma che li aveva ricevuti da un ta­lebano che «non aveva ta­sche dove metterli». E sem­pre durante gli interrogatori a Guantánamo, il futuro mullah sostiene di essere stato «venduto» alle forze Usa dagli abitanti di un vil­laggio.
Rasoul — secondo fonti statunitensi — ha condivi­so le operazioni militari con un altro «barbuto», il mul­lah Berader. Entrambi fan­no parte di una nuova strut­tura di comando creata dal­l’imprendibile
Omar. In previsione dell’offensi­va alleata, il leader talebano ha ridato forza a quella che viene chiamata la Shura di Quetta. Un’assemblea di diri­genti che fornisce ordini ge­nerici, garantisce flusso di denaro (in arrivo dal Golfo e dai traffici clandestini), coor­dina la strategia e raccoglie aiuti militari importanti. Ma, al tempo stesso, conce­de autonomia e spazio ai re­sponsabili dei vari fronti. Questo permette libertà d’azione, iniziative e tatti­che migliori. Potremmo defi­nirlo un centro di comando e controllo con rapporti ge­rarchici piuttosto flessibili.
Appena una decina di giorni fa rappresentanti del Mullah Omar, militanti del network Haqqani (attivo a est), dirigenti mujahedin «stranieri» (uzbeki, turkme­ni) e alcuni capi qaedisti, tra i quali Abu Yahya Al Libi, si sono ritrovati per un sum­mit. Un consiglio di guerra dedicato alle contromisure da adottare nei confronti del­l’atteso attacco americano. Poi sono ripartiti per i loro settori pronti a resistere al colpo di maglio e con in ser­bo qualche sorpresa.

La REPUBBLICA - Vittorio Zucconi : " Il guerriero Obama "

 Vittorio Zucconi

Se l'operazione fosse stata iniziata da Bush, l'avrebbe pesantemente criticata, ma dato che è Obama ad averla decisa, Zucconi scrive che Obama sì, l'ha iniziata, ma che la figura di guerriero non gli appartiene, che è solo per via dell'impegno preso in campagna elettorale, che " Il mondo nel quale si muove Obama, come la sua storia biologica di figlio dell´Europa e dell´Africa insieme, è un mondo in grigio, di tonalità sfumate, che non sono gli ingredienti del semplicismo ideologico, mistico o caratteriale indispensabile per condurre grandi e vere guerre nella certezza di stare dalla parte del bene assoluto.". La guerra condotta da Obama  in Afghanistan viene definita " una «strana guerra», condotta nella speranza di non dover fare davvero la guerra ". Esistono guerre strane? Ritenere che gli Usa di Obama stiano combattendo nella speranza di non dover fare davvero la guerra è ridicolo.
Zucconi non perde occasione per criticare Bush e la sua amministrazione, lodando Obama per essersi ritirato dall'Iraq, ma 'dimentica' che a sancire il ritiro è stata proprio la tanto disprezzata amministrazione Bush. 
Ecco l'articolo:

I  Marines lanciati ieri da Obama all´attacco dei Taliban sono ben quattromila, l´unità più numerosa e formidabile schierata dal tardo autunno del 2001. Da quando bastarono a Bush una spallata, qualche reparto di special forces e bombardamenti a tappeto di dollari sui corruttibili ras delle valli e dei campi di papaveri per far cadere il regime di Kabul come una piramide di carta.
Gli ordini della Casa Bianca sono tassativi - strappare ai Taliban una valle di importanza strategica in Afghanistan - e questa è la prima offensiva militare importante ordinata dal nuovo comandante supremo delle forze armate, Barack Obama, come aveva promesso di fare durante le elezioni, spostando gli stivali americani dalle sabbie della Mesopotamia alle nevi di Kandahar per colpire il nemico dov´è realmente e non dove Bush e Cheney avevano immaginato che fosse. Eppure c´è qualcosa che non persuade del tutto in questo Obama con l´elmetto che va alla guerra, come se realmente non ci avesse messo il cuore, come se neppure lui fosse convinto di quello che fa, ma dovesse semplicemente rispettare un impegno preso con gli elettori e con il mondo.
L´Obama guerriero è una figura incongrua e non perchè lui, come i falchi da salotto e da talk show alla maniera dei neo-con che lo avevano preceduto al potere, non abbia mai indossato un´uniforme sul serio e non abbia mai provato che cosa significhi davvero sparare a un nemico o essere il bersaglio di proiettili. Guardandolo e ascoltandolo, ormai da molti mesi, prima in campagna elettorale e poi dallo Studio Ovale, si capisce come il suo modus operandi, la sua personalità, la sua storia non possano essere quelli di condottieri bellici, di uomini che sono naturalmente dotati, a volte sfortunatamente dotati, della capacità di vedere il mondo in bianco e nero, diviso in «noi e loro». Come quel generale Patton, idolo dei soldati e dei marines in Europa, la cui filosofia di vita si riassumeva nel famoso motto: "Fare la guerra significa ammazzare quei figli di puttana prima che quei figli di puttana ammazzino te".
Il mondo nel quale si muove Obama, come la sua storia biologica di figlio dell´Europa e dell´Africa insieme, è un mondo in grigio, di tonalità sfumate, che non sono gli ingredienti del semplicismo ideologico, mistico o caratteriale indispensabile per condurre grandi e vere guerre nella certezza di stare dalla parte del bene assoluto. Anche questa offensiva nella valle dell‘Helmand, dove i Taliban risorti (in realtà mai scomparsi) si erano riorganizzati per sfruttare un passaggio geografco chiave e per far ripartire alla grande la produzione e il traffico di oppio, pur se «il rumore e la furia» degli sbarchi dei marines dagli elicotteri sono impressionanti, ha qualcosa di molto obamiano, il sapore di una mossa da giocatore di scacchi, non da duellante all´ultimo sangue.
I rapporti dal campo di battaglia già ci avvertono che i Taliban, secondo una collaudatissima tattica guerrigliera che in Afghanistan funziona da millenni contro tutti gli invasori stranieri e dopo il Vietnam è la prefazione del manuale del perfetto guerrigliero davanti a un avversario troppo forte, non hanno affrontato questi battaglioni di marines coperti dal volo di bombardieri, caccia e droni senza pilota, ma si sono ritirati e dissolti in territori che loro conoscono palmo e palmo, meglio di qualsiasi occhio elettronico e dove possono mimetizzarsi come granelli di sabbia in un deserto.
Dunque, a differenza di quanto accadeva 40 anni or sono, quando i padri e i nonni dei marines lanciati oggi in Afghanistan dovevano contendere ai Vietcong e ai Nord Vietnamiti ogni collinetta per poi abbandonarla e vederla rioccupata il giorno dopo, almeno in questa primo «D-Day» obamaniano non correranno torrenti di sangue. E questo, i generali americani, dunque il loro «chief» Obama, dovevano saperlo perfettamente, essendo i Taliban fanatici ma non tanto stupidi da misurarsi a viso aperto da pick up di latta contro brigate del più forte esercito del mondo.
Si tratta, e qui saremmo di nuovo pienamente all´interno della filosofia politica e umana del nuovo presidente, di un gesto assai più dimostrativo che sostanzioso, di una «strana guerra», condotta nella speranza di non dover fare davvero la guerra. Un modo per provare, agli americani che sempre si domandano quali siano anche le qualità strategiche nei loro presidenti ben sapendo che tutti saranno inesorabilmente chiamati a rispondere a una sfida bellica qualunque sia la loro ideologia, e al mondo, che Barack Obama non è un «sissy», una «signorina di buona famiglia» timida e renitente. Che sa anche fare la parte del commander in chief, del generalissimo, purché l´azione non costi troppo in vite - soprattutto in vite americane - e non precluda vie di uscite politiche. Nel suo universo la priorità appartiene sempre alla politica, non alla forza, e lo sbarco roboante di marines con colonna sonora delle pale dei grandi elicotteri Black Hawk nella valle dell´Helmand sembra una mossa politica, diretta soprattutto a quel Pakistan, e a quell´Iran in subbuglio da fine di regime, che tengono da sempre le chiavi della valli afgane. Dove nessuna forza militare straniera, da Alessandro il Macedone a Bush il Texano, è mai riuscita a imporre la propria volontà e il proprio controllo.

La STAMPA - Maurizio Molinari : "Così Obama cancella i santuari della Jihad"

 Robert Kaplan

Il cuore dell’operazione è la protezione dei villaggi». Robert Kaplan, stratega militare del «Center for New American Security» di Washington, è appena tornato da un viaggio afghano durante il quale ha incontrato il generale Lawrence Nicholson che sta guidando il «Colpo di spada» contro i taleban.
Perché i marines hanno scelto l’Helmand per lanciare l’offensiva?
«Per due motivi. Primo: i taleban qui sono molto più forti che altrove. Secondo: l’Helmand è la regione in cima alla produzione di oppio che alimenta la guerriglia».
Quali i motivi della forza dei taleban?
«E’ una forza dovuta a ragioni strategiche. L’Helmand è un territorio da dove i taleban si spostano verso sud-est, in direzione di Quetta, e verso nord-ovest, dove operano altri gruppi. E’ l’asse più forte dei jihadisti fra Pakistan e Afghanistan».
Perché il Pentagono ha scelto di impiegare i marines?
«Sono la forza combattente per eccellenza. In campo ci sono gli uomini della Stryker Brigade Fort Lewis, nello Stato di Washington, e altri reparti simili. Fanno parte del contingente di 17 mila uomini inviato da Obama in Afghanistan subito dopo l’insediamento. Soldati efficienti, bene addestrati e armati».
Che missione hanno?
«Cercare, trovare ed uccidere il nemico. I taleban non potrebbero avere avversario più tosto. L’operazione "Colpo di Spada" è una caccia al taleban nella loro roccaforte».
Cosa le ha detto il generale Nicholson quando vi siete incontrati?
«Mi ha fatto un briefing sulle operazioni militari. E’ un generale molto preparato. Hanno studiato tutto nei dettagli. Sanno dove sono i taleban e andranno a prenderli».
Qual è il fine strategico?
«Proteggere i villaggi».
Si spieghi meglio.
«E’ la stessa tattica che ha pagato in Iraq durante l’invio dei rinforzi. Le truppe americane espugnano un’area ma poi non si ritirano bensì lasciano propri contingenti ridotti dentro i villaggi dove, assieme ai militari afghani, stringono rapporti con i capi clan locali, si impegnano i migliorare i servizi pubblici e soprattutto proteggono le popolazione dalle incursioni dei terroristi. Proteggere il villaggio, 24 ore su 24, consente di emancipare la popolazione dalle angherie dei taleban».
E’ così che il generale David Petraeus ha strappato il nord dell’Iraq ad Al Qaeda?
«Sì, ed è così che ora vuole fare nell’Helmand».
Perché attaccare ora?
«Siamo in campagna elettorale. Il 20 agosto si vota per le presidenziali. I taleban potrebbero aver preparato una campagna di attacchi in grande stile per insanguinare il voto ma, trovandosi a dover difendere le proprie retrovie, avranno altro a cui pensare».
Nell’Helmand finora hanno operato i britannici, l’intervento dei marines è un segnale di sfiducia nella Nato?
«L’offensiva vuole affiancare la Nato, che sta sostenendo i marines con i propri aerei. Il punto è che le truppe della Nato possono contare su mezzi limitati mentre i marines sono in grado di condurre da soli campagne in grande stile».
E’ la più imponente offensiva dei marines dalla guerra in Vietnam?
«Bisognerebbe consultare i manuali per confermarlo con sicurezza. Ma di certo finora i marines in Afghanistan si erano visti poco. La loro presenza fa capire che il presidente Barack Obama vuole fare sul serio la guerra contro i taleban e Al Qaeda».

CORRIERE della SERA - Luigi Offeddu : " Gli altri Paesi aiutino di più gli Stati Uniti "

 Jaap de Hoop Scheffer

BRUXELLES — Jaap de Hoop Scheffer è ap­pena tornato dall’Afghanistan. Per lui, segre­tario generale della Nato che il 31 luglio por­terà a termine il mandato, è stato l’ultimo viaggio nel Paese.
Rimpianti, rimorsi?
«No. Non mi sono mai pentito di un solo minuto. Ma con il senno di poi, vedo che vi sono stati pro e contro nell’affidare le singo­le province ai singoli Paesi. Ogni nazione ha potuto conoscere in profondità la provincia in cui è impegnata ma alcuni Paesi hanno guardato all’Afghanistan come attraverso una cannuccia, puntata sulla 'loro' provin­cia e basta. Così, si può perdere la visione ge­nerale » .
Come si misurerà un eventuale successo Nato?
«Con il grado di addestramento raggiunto dagli afghani. Per ora va relativamente bene con l’esercito. Non con la polizia. Dobbiamo raddoppiare gli sforzi».
Per l’Afghanistan, l’Italia offre circa 500 militari in più. È abbastanza?
«È un impegno sostanziale, sì. Vede, è importante che que­sta sia sempre di più una mis­sione Nato, che non diventi una missione americana. E an­che gli altri Paesi devono fare la loro parte. L’Italia è in prima fila, in questo momento crucia­le. Noi avremo successo se riu­sciremo a mantenere l’Afghanistan dalla no­stra parte, essendo prudenti al massimo gra­do. E poi è critico, molto critico, il sostegno dell’opinione pubblica».
Che non c’è ancora...

«Dobbiamo fare di più. Dobbiamo convin­cere la gente in Occidente che noi siamo in Afghanistan per ricostruire il Paese ma an­che per presidiare una prima linea della lotta al terrorismo internazionale. In questo, sono d’accordo con il vostro premier Berlusconi: dobbiamo far capire alla gente che alla sicu­rezza di Kabul è collegata anche la sicurezza di Firenze, o di qualsiasi città europea».
Che cosa ha provato lasciando l’Afghani­stan?
«Nostalgia. Ho guardato dal finestrino quel Paese di una bellezza sconvolgente. E ho ricordato ciò che mi aveva detto una ra­gazzina a Chagcharan, il giorno prima: da grande voglio diventare un giudice giusto. In quello che neppure 10 anni fa era il domi­nio delle corti talebane».

L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " Addio raid aerei. Truppe a terra per riavere il controllo "

 Fabio Mini

L’offensiva scatenata nella valle dell’Helmand «rappresenta l’inizio della svolta strategica in Afghanistan». Ad affermarlo è il generale Fabio Mini, già Capo di stato maggiore del Comando Nato delle forze alleate Sud Europa e al vertice della Kfor in Kosovo.
Generale Mini, nel sud-est dell’Afghanistan è stata lanciata la più grande operazione aerotrasportata mai condotta dai Marines dalla guerra del Vietnam. Qual è il segno di questa operazione?
«È l’inizio della svolta strategica in Afghanistan. In pratica è il tentativo di determinare il controllo del territorio con gli anfibi dei soldati e non più con i bombardamenti aerei o le pattuglie e le battaglie dalle 8 alle 17. Va sottolineato che in questa svolta strategica l’elemento militare e la finalità politica sono tra loro fortemente intrecciati. Come detto, l’operazione serve a tentare di riprendere il controllo del territorio con i Marines in mezzo alla gente. Operazione estremamente delicata perché presuppone anche un cambio di mentalità nelle forze impegnate sul campo: non solo guerrieri ma anche operatori di peacekeeping, in grado di conquistare non solo il controllo del territorio ma anche, ed è una conquista non meno importante, la fiducia delle popolazioni civili afghane...».
Una svolta strategica che non è solo militare...
«Direi proprio di no. Questa operazione serve a garantire una presenza militare in funzione della sicurezza che serve, a sua volta, come base per altre operazioni...».
Quali sono queste operazioni aggiuntive?
«Innanzitutto l’operazione di riconquista della fiducia degli afghani. Una fiducia fortemente intaccata dai bombardamenti aerei che hanno determinato un alto numero di perdite tra i civili. In secondo luogo, determinare la riduzione della libertà di movimento di cui attualmente godono i gruppi di ribelli. Oltre a ridurre la libertà di azione ai trafficanti di droga, visto che la zona di Helmand è una delle maggiori produttrici di oppio».
A comandare le forze armate Usa in Afghanistan è ora il generale Stanley McCrystal , reduce dal fronte iracheno...
«Uno spostamento che è anche il segno di quanto il presidente Barack Obama aveva già affermato da candidato alla Casa Bianca: spostare il centro dell’azione politico-militare dall’Iraq all’Afghanistan. Alle parole Obama ha fatto seguire i fatti. Il generale McCrystal è un esperto di operazioni speciali, il che non vuol dire che è esperto solo in colpi di mano, ma anche di operazioni a base psicologica che possano cambiare sia l’ambiente delle operazioni sia l’atteggiamento della gente nei confronti delle forze di sicurezza. Considerato che l’area di Helmand è abbastanza vasta e collegata con il Pakistan, teoricamente era possibile mettere in atto due azioni diverse: o una infiltrazione minuta e anche silenziosa, o una grande azione che dimostrasse la determinazione americana a voler riassumere il controllo effettivo della regione. Questa seconda opzione mi sembra la scelta effettuata».
In Afghanistan operano, inquadrati nella missione Isaf, militari italiani. Il nuovo corso americano in che modo può interagire, influenzare, modificare il carattere della nostra presenza?
«Le forze italiane non sono presenti in quell’area, ma non si possono escludere due cose...».
Quali, generale Mini?
«La prima cosa che non si può escludere, è che elementi delle forze speciali italiane non facciano parte di quei team avanzati che devono garantire le aree di atterraggio o aviolancio. Secondo, è prevedibile che la pressione in un settore si possa scaricare anche in quelli circostanti. Se i pachistani dovessero fare un buon lavoro, bloccando i miliziani afghani che intendono passare in Pakistan, in questo caso c’è da aspettarsi che gruppi armati vadano nelle zone vicine all’Helmand, inclusa quella sotto responsabilità italiana. Insomma, anche per noi è iniziata un’altra storia».

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