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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Libero - Il Foglio - La Stampa - Il Giornale - La Repubblica - L'Unità Rassegna Stampa
01.07.2009 Arrestati a migliaia, picchiati, torturati : continua la repressione iraniana
Cronache e analisi di Davide Giacalone, Arrigo Levi, Gian Micalessin, Francesca Caferri, Andrea Tarquini, Umberto De Giovannangeli

Testata:Libero - Il Foglio - La Stampa - Il Giornale - La Repubblica - L'Unità
Autore: Davide Giacalone - La redazione del Foglio - Arrigo Levi - Gian Micalessin - Francesca Caferri - Andrea Tarquini - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «L’Italia si è schierata con i ragazzi di Teheran. Ora non li tradisca al G8 - Nation Bildt - La speranza degli iraniani siamo noi - Iran, quelle torture in carcere - Iran, l´ora della paura per Twitter e sms - I colossi dei telefonini si difendono ma»

Riportiamo da LIBERO di oggi, 01/07/2009, a pag. 23, l'articolo di Davide Giacalone dal titolo " L’Italia si è schierata con i ragazzi di Teheran. Ora non li tradisca al G8 ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " Nation Bildt ". Dalla STAMPA, a pag. 37, l'articolo di Arrigo Levi dal titolo " La speranza degli iraniani siamo noi  ". Dal GIORNALE di oggi, 01/07/2009, a pag. 18, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " Iran, quelle torture in carcere  ". Dalla REPUBBLICA, a pag. 17, gli articoli di Francesca Caferri e Andrea Tarquini titolati " Iran, l´ora della paura per Twitter e sms  " e " I colossi dei telefonini si difendono ma sul web esplode il boicottaggio ". Dall'UNITA', a pag. 23, l'intervista di Umberto De Giovannangeli a Yael Dayan dal titolo " Sì al Nobel per Neda. In Israele scopriamo che c’è un altro Iran  ". Ecco gli articoli :

LIBERO - Davide Giacalone : " L’Italia si è schierata con i ragazzi di Teheran. Ora non li tradisca al G8  "

L’Italia è il Paese più esposto nei confronti dell’Iran, il primo partner commerciale. Abbiamo avuto governi (da ultimo Prodi) che erano disposti a riconoscere il diritto di Ahmadinejad a reclamare un ruolo dominante su tutta la regione, conquistato a forza di predicare la cancellazione d’Israele e rincorrendo l’arma atomica. Abbiamo un intero mondo politico che neanche sa occuparsi di quel che avviene fuori dal cortile dove le comari s’accapigliano. Abbiamo un mondo industriale, qui come altrove, pronto a far affari senza troppo badare a quel che capita. In queste condizioni c’è un presidente del Consiglio che parla esplicitamente di nuove sanzioni all’Iran, cercando di porre rimedio alla figura meschina del G8 triestino, quando si riunirono i ministri degli Esteri, e cercando di trascinare i riottosi Stati Uniti di Obama a far quello che nella storia è il loro mestiere, ma di tutto questo si trovano notizie solo in cronaca, perché i giornali sono troppo occupati a divinare cosa caspita succede a Bari. Cribbio, provino, almeno, un filino d’imbarazzo.Le parole di Berlusconi, che qui abbiamo chiesto e che apprezzo, sono, però, un impegno. Sono pesanti, provocano effetti a Teheran, non potranno essere rimangiate. Cerchiamo di leggere la realtà: era un errore, e lo scrivemmo, considerare Ahmadinejad e Moussavi sostanzialmente uguali, perché entrambi graditi agli ayatollah. La spaccatura era avvenuta proprio al vertice, fra i barbuti fanatici ed ottusi, ma appassionati cultori del potere. Nelle urne si scontravano i due candidati, ma la guerra principale era fra Hashemi Rafasanjani, presidente dell’organismo che nomina la guida suprema, il successore di Komeini, e Ali Khamenei, attuale guida suprema. Rafasanjani ha perso, e si è dichiarato sconfitto. Da quel punto in poi la repressione non ha più ostacoli, tutto verrà messo a tacere nel cimitero teocratico.È successo, però, l’imprevisto: una marea di giovani è esplosa, dopo aver bollito per anni in una pentola a pressione. Moussavi ha accompagnato la piazza, ma non la domina. Moltissimi di quei giovani non hanno via di scampo, perché fidarsi del regime, credere di potere tornare alla mortale normalità, è un azzardo eccessivo. Sanno di essere destinati alla macelleria, possono solo scegliere se affrontarla nel segreto dell’inciviltà interna o chiamando il mondo a testimone.Ecco perché le parole del governo italiano sono pesanti, perché offrono una sponda ai contestatori. Tornare indietro sarebbe tradirli. La stampa internazionale, i tanti corrispondenti che affollano le terrazze romane e pettegole, gli scribi copisti che riproducono in idioma proprio l’orecchiamento questurino delle guide locali, provino a fare il loro dovere, raccontino la storia di un governo che ha badato a chi protesta, e non solo per aumentare i lettori paganti mediante la trasmissione dell’agonia, della libertà affogata nel proprio sangue. Aprano un fronte d’informazione seria, che non faccia del nome di una martire il logo del loro conformismo market oriented. Chiediamo, tutti, senza timore che questo suoni allineamento alle miserrime questioni di schieramento vernacolare, che a L’Aquila i grandi siano effettivamente tali, trovando il coraggio di porgere una mano ai piccoli giganti di Teheran.

Il FOGLIO - " Nation Bildt "

 Carl Bildt, ministro degli Esteri svedese

Con la repressione dell’opposizione in Iran occorre “essere più forti nel nostro messaggio”, aveva detto il ministro degli Esteri svedese, Carl Bildt, all’inizio della crisi politica nella Repubblica islamica. Oggi la Svezia assume la presidenza di turno dell’Unione europea e, con l’Amministrazione Obama cauta nel posizionarsi, potrebbe toccare all’Europa il ruolo del poliziotto cattivo. Lo ha chiesto ieri il Financial Times: in gioco c’è la credibilità della diplomazia europea e la capacità di dissuasione anche sul dossier del nucleare. Ora che la parola “sanzioni” non è più tabù per la tedesca Merkel e il francese Sarkozy, Bildt può rappresentare l’Europa meglio di Solana, che vorrebbe negoziare con Teheran “il più presto possibile” a prescindere dalla sua legittimità Bildt è un negoziatore pragmatico, ma schietto e dalle idee forti. Premier dal 1991 al 1994 portò la Svezia dentro all’Ue e fuori da una crisi economica attraverso liberalizzazioni e modernizzazione del welfare. Rappresentante dell’Onu e dell’Ue nei Balcani, negli anni 90 avviò la costruzione del complicato stato bosniaco. Atlantista e pro israeliano (nonostante qualche screzio), Bildt appoggiò la campagna irachena. Sull’Iran, Bildt ha adottato toni più moderati – “non dobbiamo legarci le mani” – consapevole che presiedere l’Ue è un po’ come dirigere la Bosnia. Se dal G8 de L’Aquila verrà un segnale chiaro, il suo profilo fa ben sperare sulla possibilità che la diplomazia europea giochi un ruolo forte nei confronti di Teheran, e riempia così il vuoto americano.

La STAMPA - Arrigo Levi : " La speranza degli iraniani siamo noi "

La vittoria in Iran dell’ayatollah Khamenei e di Ahmadinejad non convince molti autorevoli osservatori occidentali, secondo i quali la partita, sia tra potere e popolo, sia tra capi religiosi, non è ancora chiusa. Ricordo un grande convegno su «Iran, passato, presente e futuro», svoltosi a Persepoli meno di un anno prima della caduta dello Scià: il suo potere sembrava allora incrollabile, l’arroganza del Primo Ministro Hoveida, alla presenza della Shahbanou, nella grande tenda circolare costruita per le celebrazioni dei tremila anni di storia persiana, con tanto di lezioni a noi italiani e francesi presenti su come si dovevano reprimere le opposizioni, era quasi intollerabile. Non passò un anno, e finì ammazzato. L’Iran ci apparve allora, quale è ancora oggi, un grande Paese, un grande popolo, difficile da governare col pugno di ferro.
Congelamento nucleare
Non so scegliere fra chi è convinto che la partita sia finita e che un duro potere militar-religioso si sia ormai instaurato, e chi pensa che Khamenei stia ripetendo l’errore dell’ultimo Scià, di ritenere impossibile una rivoluzione. Mi sembra giudiziosa sia la dura risposta comune dell’Europa alla sfida iraniana, sia la conferma, da parte non solo degli Europei ma anche dei Russi e degli Americani, della disponibilità a ricominciare comunque una trattativa sul congelamento del programma nucleare. Non credo plausibile, a rischio di una dura smentita, una spedizione aerea punitiva israeliana, dall’esito assai dubbio: la sola cosa certa è che spezzerebbe il fronte unito anti-iraniano fra Paesi arabi, grandi potenze, e lo stesso Israele, e annuncerebbe un quadro caotico anticipatore di nuove guerre. Israele ha già una capacità di «secondo colpo» contro l’Iran, e il più pazzo degli ayatollah non può ignorarlo.
Il negoziato Russia-Nato
Mi auguro che il risultato più concreto e positivo della rivolta popolare iraniana sia di aggiungere un’altra poderosa motivazione per la ripresa del negoziato fra la Russia e la Nato, non a caso deciso lo scorso week-end, con lo scopo dichiarato del rilancio della cooperazione in materia di antiterrorismo, Afghanistan e contromisure da prendere in vista della minaccia crescente di proliferazione nucleare. Se volevamo una ulteriore prova del fatto che fra Russia e Euro-America non ci sono oggi motivi di contrasto strategico, ma al contrario importanti interessi comuni da affrontare insieme, l’abbiamo avuta.
Pochi giorni fa, in un bel convegno a Roma su temi strategici, promosso dall’Istituto Affari Internazionali, con la partecipazione di rappresentanti dei principali istituti di ricerca di tutto il mondo, non sono mancati segnali di diffidenza fra la Russia e gli altri, riguardanti soprattutto la nostalgica politica russa verso «l’estero vicino». Ma mi è sembrato dominante il convincimento che sia di gran lunga più importante per tutti la costruzione di un «nuovo grande patto strategico», che mantenga ed aggiorni il «grande patto strategico» che fu possibile, sulla base del principio politico della «coesistenza pacifica», perfino quando Urss e Occidente erano impegnati in un’aspra contesa ideologica per il dominio mondiale.
Diplomazia a tutti i costi
Oggi c’è fra noi molto più di una «coesistenza pacifica». Ci accomuna un grande pericolo: terrorismo e proliferazione nucleare; con l’Iran che rischia di mettere in moto un processo di proliferazione esteso a tutto il mondo arabo (se e quando Teheran avrà l’atomica, Egitto e Arabia Saudita non staranno a guardare); e con uno dei leaders di Al Qaeda, Abu Said al Masri, che ci assicura che Al Qaeda non esiterebbe a usare l’arma atomica, se e quando riuscisse a impadronirsene. Contro chi? Contro tutti noi, America, Europa, ma anche Russia, per non parlare dei Paesi islamici giudicati «infedeli».
Come rispondere a questa minaccia? Anzitutto, con una forte risposta diplomatica comune, non abbandonando gli sforzi per fermare l’Iran, chiunque lo governi, con credibili, adeguate minacce politico-economiche. In secondo luogo, mettendo a punto contromisure strategiche comuni, a cominciare da postazioni antimissilistiche condivise, se si riterrà che siano opportune e necessarie. Se la rivolta iraniana, finora fallita, avrà come risultato di far nascere un «nuovo grande patto strategico» fra Russia e mondo atlantico, dovremo essere molto grati alle moltitudini di giovani iraniani che si sono battuti con tanto coraggio per la libertà. Solo noi e i russi insieme possiamo dare una risposta adeguata alla sfida del potere degli ayatollah, e ridare una speranza al popolo iraniano.

Il GIORNALE - Gian Micalessin : " Iran, quelle torture in carcere "

 Carcere di Evin

Arrestati a migliaia, ammassati come sardine dietro le sbarre, picchiati, torturati, i più fortunati liberati dopo aver ammesso immaginari complotti. La macchina della repressione iraniana lavora di buona lena e non risparmia nessuno. Chi confessa e lascia quell’incubo per far spazio a nuovi ospiti, riferisce storie di violenza e terrore. Come quella di Mohsen, nome di fantasia di un giovane redattore appena rilasciato in cambio di un’ammissione di colpevolezza. Il suo incubo inizia la sera di sabato 20 giugno mentre assiste dall’ufficio alle manifestazioni dell’«onda» verde. L’ordine quella sera è «schiacciare l’opposizione». Mentre Neda Soltani, la ragazza martire, agonizza sull’asfalto le forze di sicurezza battono a tappeto le zone intorno alle dimostrazioni, fermano i passanti, arrestano la gente alle finestre. Come Mohsen. La polizia lo vede e un attimo dopo è dentro la sua casa editrice. «Erano in nero con caschi, visiere e protezioni di plastica... hanno fatto irruzione senza suonare e ci hanno bastonato sulle gambe». Dopo le prime botte l’accusa. «Filmavate non è vero?». Mohsen consegna il telefonino «controllate non c’è niente». Un attimo dopo è nel cellulare. «Il nostro comandante ha le riprese di chi filmava se è un errore vi libererà». L’errore è sperarci. La prima notte la passano ammassati nelle cantine fetide di un posto di polizia. La mattina dopo si ritrovano trasferiti nel cortiletto di un centro di sicurezza intorno al palazzo presidenziale. Lì inizia il supplizio vero. In quell’imbuto di cemento e sbarre senza coperture Mohsen conta duecento disgraziati. Hanno le gambe gonfie di botte come lui, ma a terra non c’è posto. Possono solo attendere in piedi, senza acqua e senza cibo, sotto un sole che brucia le cervella e secca la lingua. L’arrivo di quello che chiamano magistrato è un’altra sgradita sorpresa. Loro gridano «siamo innocenti». Lui tira fuori una pistola la punta sul coro sofferente: «Se alzate ancora la voce vi tiro addosso». L’interrogatorio è una firma su un foglio con una sola domanda «Riconoscete di esser coinvolti nelle manifestazioni e di aver messo a repentaglio la sicurezza nazionale?». Firmare e confessare è l’unico modo per uscire da quel forno di cemento e sperare in qualcosa di meglio. La speranza dura fin davanti ai due bus per Evin, il carcere sulla montagna sopra Teheran conosciuto dai tempi dello Scia come l’inferno dei dissidenti. Stavolta è peggio, stavolta i suoi gironi sono calca dolente e affamata, sanguinante e disperata. Quanti sono? Un secondino racconta a Mohsen che lui e i suoi compagni sono gli ultimi dei 4.500 ingabbiati in quel sabato di protesta e sangue. Mohsen non stenta a credergli. Nel salone 7, quaranta metri quadrati al massimo, sono in più di un centinaio e fanno i turni per dormire. «Ogni quattro ore la gente si sveglia e lascia posto agli altri, è l’unico modo per avere un po’ di spazio e di riposo. Lì dentro eravamo come sardine. Hanno arrestato intere famiglie, nella mia cella c’erano padri, figli e mariti, raccontavano di avere madri, mogli e sorelle nella sezione femminile«. Il peggio lo scoprono alle 7 di mattina quando gli inquisitori vengono a prendersi le loro vittime quotidiane. «Tornavano dopo 14 ore d’interrogatori, ci mostravano il corpo segnato dagli ematomi e dalle ferite. Alcuni pisciavano sangue a furia di bastonate e calci nella schiena».

La REPUBBLICA - Francesca Caferri : " Iran, l´ora della paura per Twitter e sms  "

«Persiankiwi sta bene e tornerà a scrivere presto. Quanto a Persiankiwie e Eyeranprotest non fidatevi, sono falsi: l´ho scritto dalla prima volta che sono apparsi in rete». Firmato Oxfordgirl. C´era l´adrenalina i primi giorni. E l´entusiasmo. Poi è arrivata l´ora della rabbia, dei messaggi su come proteggersi e dove andare a rifugiarsi. Ora su Twitter è il momento della paura: non delle pallottole e dei colpi di manganello. Ma dei nemici che passano per la rete.
Se i siti di social networking – con tutti i loro limiti di attendibilità - sono stati lo specchio della piazza iraniana in queste settimane, negli ultimi due giorni trasmettono soprattutto paura. Delle retate notturne dei basiji nelle case. Delle intercettazioni per i blogger più famosi. Delle infiltrazioni di elementi vicini alle autorità sulla rete. Scoramento no, quello no: gli appuntamenti, le veglie, le urla che si alzano ogni sera dai tetti continuano a essere segnalate. Ma ora nei messaggi filtra anche il timore che le autorità possano infiltrarsi nel network di comunicazioni che finora ha tenuto in piedi la protesta.
Ad alimentare la tensione è la notizia, arrivata dalla Germania, che il colosso della telefonia finlandese-tedesco Nokia Siemens ha venduto a fine 2008 all´operatore di telefonia mobile iraniano Tci la tecnologia necessaria per tenere sotto controllo le conversazioni telefoniche. A rivelare l´accordo è stato il settimanale Der Spiegel, che spiega anche come gli uffici legali dell´azienda abbiano studiato a lungo il caso, concludendo che non serviva il beneplacito del governo – l´Iran è un paese sottoposto a sanzioni Onu, che limita il commercio in alcuni campi – perché gli apparecchi in questione non sono citati nelle liste della tecnologia sensibile e non hanno alcuna relazione con il programma missilistico o nucleare del paese.
La Nokia si è difesa dalle accuse seguite alla pubblicazione della notizia spiegando che vende strumenti simili anche a paesi europei, ma questo non è bastato a placare la rabbia degli attivisti che si battono per i diritti umani: «Dovrebbero vergognarsi – dice Hadi Ghaemi, della International Campaign for human rights in Iran – parliamo di un gruppo che non avrebbe bisogno di scendere a compromessi per fare affari. E che nonostante questo ha consapevolmente messo a rischio la vita di migliaia di persone in Iran».
Il blocco dei telefonini è stata una delle prime misure messe in atto dalle autorità quando la protesta per i risultati elettorali ha cominciato a dilagare. Il servizio di chiamate vocali ha ripreso a funzionare dopo qualche giorno, ma quello di sms è ancora bloccato. Il timore ora è che i sistemi di controllo – quelli forniti da Nokia ma anche altri – possano portare all´arresto dei blogger e di coloro che, tramite Facebook, Twitter e Youtube hanno messo in rete le immagini della protesta.
Sul fronte politico ieri è stata un´altra giornata interlocutoria: il Consiglio dei Guardiani ha confermato che il riconteggio parziale delle schede non ha portato a nessuna modifica nei risultati delle elezioni e che Mahmud Ahmadinejad è stato confermato presidente. Lo sfidante principale, Mir Hossein Moussavi, ha chiesto di nuovo tramite il suo sito internet una ripetizione del voto mentre sua moglie, dalle pagine di Facebook, ha invitato i sostenitori dell´Onda verde a non smettere di protestare.
Anche ieri sera, secondo diversi blogger, dai tetti di Teheran si è alzato il grido «Allah U Akbar», diventato lo slogan di questa protesta. Il segno che l´appello di Zahra Rahnavard non è caduto nel vuoto, nonostante la paura.

La REPUBBLICA - Andrea Tarquini : " I colossi dei telefonini si difendono ma sul web esplode il boicottaggio "

 Ben Roome, Nokia Siemens

berlino - Il colosso finlandese dei telefonini, e Nokia- Siemens Networks, cioè la sua joint venture per le telecomunicazioni con il gigante tedesco dell´elettronica, indipendente dalle case-madri, sono sotto tiro: decine e decine di siti, organizzazioni per i diritti umani, bloggers, simpatizzanti della rivolta iraniana li accusano di aver fornito al regime di Teheran gli strumenti tecnici per la censura elettronica. Le due aziende si difendono, spiegano, negano ogni colpa, ma il boicottaggio si diffonde, vola online e su twitter a velocità fotonica. "Boycott Nokia for selling intelligence technology to Ahmadinejad´s regime", dicono gli appelli. Invitano a tempestare di e-mail di protesta l´amministratore delegato di Nokia, Olli- Pekka Kallasvuo, e i massimi dirigenti di Nokia-Siemens networks. Incitano a collegarsi ai links campaigns.ai.congress.org/nokia e nokiaNo.com per avere accesso ai canali della protesta digitale.
Accuse false, tutte frutto di «disinformazione che può danneggiare l´interesse degli stessi iraniani alle comunicazioni», spiega Ben Roome di Nokia-Siemens. «Qui si ignorano fatti e dettagli significativi», aggiunge: «La nostra azienda ha fornito alla compagnia iraniana per le telecomunicazioni sistemi per la telefonia cellulare, non per le comunicazioni internet e la trasmissione di dati». Una difesa con un´ammissione: «Ovunque o quasi ovunque nel mondo le leggi impongono di vendere reti di telefonia cellulare con sistemi che consentano il monitoraggio di comunicazioni vocali. Ciò viene fatto dappertutto per la lotta al crimine e il terrorismo, non è possibile vendere reti cellulari senza vendere nel pacchetto anche quei sistemi». D´accordo, ma come si fa a non distinguere tra operatori attivi in consolidate democrazie e realtà di autoritarismo repressivo? «Noi ci atteniamo strettamente agli standard internazionali, alle decisioni delle Nazioni Unite, alla regole internazionali sulle restrizioni alle esportazioni», insiste Roome.
La mobilitazione non si lascia dissuadere. In poche ore l´appello a tempestare i capi di Nokia e Nokia-Siemens di e-mail di protesta ha avuto almeno 4300 risposte, e il loro numero cresce di continuo. Oltre 13 siti in tutto il mondo consigliano di non comprare prodotti Nokia o Nokia-Siemens per "punire" le aziende della loro "complicità" con la repressione a Teheran. «Sono posizioni astratte dalla realtà», replica Nokia-Siemens, e contrattacca: proprio gli eventi degli ultimi giorni «hanno mostrato quanto sia stato importante che due terzi almeno della popolazione iraniana disponga di telefoni cellulari. Hanno potuto informare amici e conoscenti in tutto il mondo dell´evoluzione della situazione in tempo reale, qualsiasi fosse la tendenza politica prevalente».

L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " Sì al Nobel per Neda. In Israele scopriamo che c’è un altro Iran "

 Yael Dayan

Israele sta scoprendo l’esistenza dell’”altro Iran”. L’Iran delle donne e dei giovani che hanno sfidato la brutalità del regime per rivendicare libertà e diritti. Siamo di fronte a una protesta il cui valore va ben al di là dello stessa contestazione del risultato elettorale. Quelle donne, quei giovani dicono al mondo che l’Islam non è sinonimo di integralismo, che in Iran esiste una società civile proiettata nel futuro». A parlare è Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare laburista, figlia dell’eroe della Guerra dei Sei giorni: il generale Moshe Dayan. «Condivido le aperture al mondo islamico di Barack Obama - rimarca Yael Dayan - ma ciò non deve tradursi nell’accettazione dell’esistente. Di fronte ad un regime autoritario, teocratico, che reprime con la violenza una protesta popolare, occorre dire chiaramente che tra l’Iran di Ahmadinejad e quello che si riconosce in Neda (la studentessa uccisa in una delle prime manifestazioni a Teheran, ndr,), ogni coscienza democratica non può che stare con chi si batte per la libertà».
Fino a qualche settimana fa, Israele guardava all’Iran come a un Paese ostile, guidato da un presidente, Mahmud Ahmadinejad, che non ha mai nascosto i suoi propositi di annientamento dello Stato ebraico. Ed ora?
«Ora la percezione diffusa in Israele è profondamente cambiata. Abbiamo scoperto l’esistenza di un altro Iran. L’Iran delle donne, dei giovani, che hanno detto basta con un regime brutale, che non ha esitato a ordinare di aprire il fuoco contro i suoi stessi cittadini. Questo movimento ci dice che c’è un Iran che non ha come chiodo fisso la distruzione d’Israele, ma che punta ad una trasformazione interna del Paese, in nome di un Islam coniugato con i diritti e una società aperta...».
Resta il fatto che non ci sono state in Israele mobilitazioni di piazza a sostegno della «Primavera di Teheran».
«Bisogna fare esercizio d’intelligenza politica. Il regime non aspetta altro che poter mostrare in televisione il “Nemico” israeliano che si schiera a fianco degli “eversori” interni. Già vedo tuonare Ahmadinejad o Khamenei: ecco, vedete, i sionisti appoggiano i nemici della Rivoluzione khomeinista, ecco la prova del complotto ordito da America e Israele...Non dobbiamo cadere nella trappola, perché poi a pagarne il conto sarebbero quanti in Iran si oppongono al regime dei brogli. Questo non vuole dire, però, non cercare di mandare segnali di solidarietà e di vicinanza ai manifestanti di Teheran...».
Uno di questi segnali può essere quello indicato dalla scrittrice egiziana Nawal El Saadawi in una intervista a l’Unità: «Diamo a Neda e alle sue sorelle il Nobel per la pace»?
«Mi pare una iniziativa lodevole, da sostenere. Non è un caso che laddove c’è da battersi per difendere spazi di libertà, le donne siano in prima fila. Divenendo il simbolo di quanti non si arrendono a dittature brutali, a regimi autoritari e teocratici. Pensiamo ad Aung San Suu Kyi, o alla stessa Ingrid Betancourt... Ed oggi non c’è dubbio che le “donne in verde” rappresentano una spinta vitale della protesta».
Una protesta che qualcuno interpreta come un regolamento interno alle varie anime del regime.
«Mi sembra una lettura parziale, datata. Le istanze di cui l’”onda verde” di Teheran si fa portatrice, sono istanze di apertura, di diritti, di democrazia sostanziale che appaiono inconciliabili con il regime teocratico iraniano in tutte le sue sfaccettature...».
La protesta non sembra investire la questione nucleare.
«Non dobbiamo fare l’esame di maturità a quel movimento. Una cosa, da israeliana, mi sento però di sottolineare: quelle donne, quei giovani che sono scesi in strada non sono animati dall’odio verso Israele. Ed è significativo che le trasmissioni in farsi della radio israeliana vengono ascoltate da centinaia di migliaia di persone. Il dialogo è possibile, nel rispetto reciproco. E, da parte d’Israele, senza nessuna strumentalità».
Barack Obama ha usato parole molto dure nel condannare la repressione in atto in Iran, al tempo stesso non ha chiuso le porte a un confronto con l’attuale dirigenza iraniana.
«Condivido l’approccio del presidente Obama sull’Iran come sul rilancio del processo di pace israelo-palestinese. Ma l’Iran che può entrare in sintonia con il “Nuovo Inizio” da lui evocato, è l’Iran di Neda non certo quello di Ahmadinejad.

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