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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Corriere della Sera - Il Giornale - Il Foglio Rassegna Stampa
30.06.2009 Iraq, i militari Usa lasciano le città
Cronache e analisi di Maurizio Molinari, Maria Giovanna Maglie, Paolo Valentino, Daniele Raineri

Testata:La Stampa - Corriere della Sera - Il Giornale - Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari - Paolo Valentino - Maria Giovanna Maglie - Daniele Raineri
Titolo: «Iraq, i militari Usa lasciano le città - Ritiro Usa nelle mani di Biden 'Solo lui capace di gestirlo' - Missione compiuta. Ora tocca ad altri il lavoro sporco: difendere la democrazia - Oggi al ministero del Petrolio di Baghdad asta al miglior offerente,»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 30/06/2009, a pag. 23, la cronaca di Maurizio Molinari dal titolo " Iraq, i militari Usa lasciano le città ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 15, l'articolo di Paolo Valentino dal titolo " Ritiro Usa nelle mani di Biden 'Solo lui capace di gestirlo' ". Dal GIORNALE, a pag. 17, il commento di Maria Giovanna Maglie dal titolo " Missione compiuta. Ora tocca ad altri il lavoro sporco: difendere la democrazia ". Dal FOGLIO, a pag. II, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Oggi al ministero del Petrolio di Baghdad asta al miglior offerente, ma senza perderci ". Ecco gli articoli:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Iraq, i militari Usa lasciano le città "

 Nuri Al Maliki, presidente iraqno

La sfilata delle truppe irachene nelle vie del centro di Baghdad imbandierate a festa ha segnato la conclusione del ritiro delle truppe americane dalla capitale ed entro la mezzanotte di oggi lo stesso avverrà nelle altre città del Paese: è l’inizio dell’applicazione degli accordi raggiunti fra il governo di Nuri al Maliki e l’Amministrazione Obama, in base ai quali nel 2012 non vi saranno più soldati americani dentro i confini dell’Iraq.
L’ultimo edificio di Baghdad consegnato dall’Us Army agli iracheni è stato l’ex Ministero della Difesa di Saddam Hussein ed è qui che Al Maliki ha pronunciato un discorso alle forze armate sul «Giorno della sovranità nazionale» dicendo: «La nostra sovranità è iniziata, dobbiamo ora costruire uno Stato moderno giovandoci della sicurezza che abbiamo creato». Raymond Odierno, comandante delle truppe Usa in Iraq, si dice sicuro che «le forze che abbiamo addestrato sono in grado di mantenere la sicurezza» ma gli oltre duecento morti causati nelle ultime due settimane da attentati di Al Qaeda lasciano temere un ritorno del terrorismo. «Le nostre truppe saranno a disposizione ogni volta che il governo iracheno avrà bisogno del nostro fuoco di appoggio» assicura Odierno, riferendosi al nuovo schieramento dei 130 mila soldati americani dentro circa 300 basi in tutto il Paese, incluse due imponenti installazioni nei pressi dell’aeroporto di Baghdad.
A temere il rischio di un ritorno del terrorismo è l’ex vicepresidente Dick Cheney che, intervenendo a una trasmissione radio del «Washington Times», si è detto «preoccupato per il fatto che continua aesserci questo problema in Iraq». «Si può presumere che i terroristi stiano aspettando l’opportunità di lanciare nuovi attacchi, spero che gli iracheni possano gestire tale scenario, ma - ha detto Cheney - non vorrei veder andare perduti i tremendi sacrifici che ci hanno consentito di arrivare fino a questo punto».
A non avere tali dubbi è il nuovo ambasciatore degli Stati Uniti a Baghdad, Chris Hill, che ribatte: «Le truppe americane non sono solo le migliori unità combattenti del mondo ma hanno anche i migliori addestratori del mondo, e dunque abbiamo piena fiducia nelle forze di sicurezza irachene». In base agli accordi militari fra Washington e Baghdad, la maggioranza dei militari Usa lascerà l’Iraq entro l’agosto 2010 e il ritiro sarà ultimato entro la fine del 2011. L’Amministrazione Obama lascia comunque aperta la porta a un’intesa successiva con Baghdad sulla permanenza di propri contingenti di truppe scelte.
Cinquanta nuovi alloggi in Cisgiordania, avanguardia dei 1450 già approvati come estensione della colonia di Adam, a Sud di Ramallah (foto). Il via libera l’ha dato ieri il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak, poco prima di partire per Washington dove lo aspetta l’inviato speciale Usa per il Medio Oriente, George Mitchell. Tema del colloquio sono proprio gli insediamenti: il presidente Obama insiste a chiederne il totale congelamento mentre il premier israeliano Netanyahu come massima concessione propone un congelamento per tre mesi, esclusi però i progetti in via di completamento.

CORRIERE della SERA - Paolo Valentino : " Ritiro Usa nelle mani di Biden «Solo lui capace di gestirlo» "

 Joe Biden    Thomas Friedman

WASHINGTON — Nei giorni in cui le forze americane completano il ritiro dalle città della Mesopotamia, Barack Obama affida il dossier iracheno alle mani esperte del vice-presidente Joe Biden. Una decisione, confermata al Corriere da fonti della Casa Bianca, che rispecchia la priorità data dall’Am­ministrazione alla partita in corso a Ba­gdad, ma anche le sue preoccupazioni per i recenti rigurgiti di violenza e so­prattutto per il rischio di una crescen­te instabilità politica nella regione.
Biden non sarà una sorta di ufficio­so inviato speciale, sul modello di quanto fa Richard Holbrooke in Afgha­nistan e Pakistan, né gestirà i rapporti quotidiani con il governo iracheno e i capi militari, che per definizione spet­tano al nuovo ambasciatore degli Usa in Iraq, Christopher Hill. A lui, dice al nostro giornale un collaboratore del vi­ce- presidente, «toccherà far pressione sulle autorità di Bagdad, alzando il li­vello politico del contatto, perché lavo­rino con più impegno al superamento delle divisioni interne, intensifichino il rafforzamento delle forze di sicurez­za e si prodighino di più nella riconci­liazione politica sulla strada che porta
alle elezioni nazionali».
Pochi negli Stati Uniti, fanno notare le fonti dell’Amministrazione, «pos­seggono l’esperienza e la conoscenza del problema iracheno di Joe Biden, che conosce bene tutti i protagonisti ed ha la completa fiducia del presiden­te Obama».
Ma è chiaro che un incarico di così alto profilo confermi l’insoddisfazione della Casa Bianca: «Non ho visto anco­ra la quantità di progressi politici che avrei voluto vedere», ha ammesso Ba­rack Obama ancora quattro giorni fa.
«Se le cose fossero tutte andate per il verso giusto — dicono le fonti dell’Am­ministrazione —, non ci sarebbe stato bisogno di coinvolgere il vice-presi­dente. Ma il ritiro è cominciato in buo­ne condizioni di sicurezza. È la situa­zione politica che richiede più atten­zione ».
Allarme per lo stato delle cose in Iraq è stato espresso da analisti come Tom Friedman, che in un’intervista di pochi giorni fa al
Corriere ha messo in guardia dai rischi di un fallimento in Mesopotamia: «Se l’Iraq si squaglia mentre ci ritiriamo, l’Amministrazio­ne verrà ritenuta responsabile e sarà il caos. Ma se si instaura un ordine politi­co stabile e decente, avrà un impatto molto positivo sul futuro dell’intero mondo arabo e sulla reputazione ame­ricana. Possiamo odiare la guerra, pos­siamo condannare Bush, ma non pos­siamo rinunciare a chiudere questa co­sa nel modo giusto. In fondo l’Afghani­stan è secondario, questo è il dossier più importante. Ci vuole uno sforzo maggiore: dimostriamo che i leader sciiti, sunniti e curdi possono scrivere il loro contratto sociale e il mondo ara­bo avrà un modello diverso da quello degli autocrati o dei dittatori col pu­gno di ferro».
Friedman queste cose le ha dette an­che di persona al presidente Obama, in una lunga telefonata di qualche set­timana fa. E l’incarico al vice-presiden­te Biden sembra muoversi proprio nel senso del riconoscimento di questa preoccupazione. «Non c’è dubbio che dobbiamo cercare di tirare fuori il me­glio dalla situazione che abbiamo ere­ditato », dicono le fonti dell’Ammini­strazione.
Da presidente della Commissio­ne esteri del Senato americano, Joe Biden aveva visitato la regione al­meno una dozzina di volte ed era stato uno dei principali protagoni­sti del dibattito politico. La sua idea di fondo sul futuro dell’Iraq è quel­la di uno Stato federale, con ampi poteri demandati ai governi locali.

Il GIORNALE - Maria Giovanna Maglie : " Missione compiuta. Ora tocca ad altri il lavoro sporco: difendere la democrazia "

 David Petraeus

Gli americani se ne vanno sul serio. Viva gli americani, o piuttosto abbasso gli americani, come è stato nello stile denigratorio di buona parte del mondo per sei anni, certo è che da oggi il lavoro sporco di difendere la democrazia tocca a qualcun altro. Nel 2003 hanno trovato un Paese povero, infelice, senza un sistema bancario o una catena di vendita, piagato dalla tortura, dallo spionaggio, dalla negazione di qualunque libertà personale. Il denaro della vendita di petrolio, destinato a cibo e medicine per la popolazione serviva ad arricchire ancora il dittatore Saddam Hussein e la sua famiglia, la corte di complici e carnefici.
Quando sono arrivata a Baghdad liberata, marzo del 2003, l'interprete e l'autista che finalmente potevano accompagnarmi in giro per strade e quartieri prima proibiti, mi mostravano Ferrari e Maserati nei giardini delle ville abbandonate dai gerarchi fuggiti, quelle automobili le chiamavano con amara ironia «oil for food», petrolio in cambio di cibo. Sui libri scolastici si imparava solo la gloria e l'obbedienza a Saddam. I terroristi del Medio Oriente venivano foraggiati, addirittura il dittatore iracheno elargiva risarcimenti alle famiglie dei terroristi suicidi palestinesi, agli eroi del terrorismo che aveva colpito gli Stati Uniti l'11 settembre del 2001, che poi tornò a farlo a Madrid e a Londra. Sono passati sei anni e molti errori, tanti morti, chiedetelo alle famiglie dei soldati americani, ma giudicate voi se ne valesse la pena, se oggi il Paese restituito non sia migliore e più sano. Pronunciamo senza timore la parola tanto vituperata: democrazia esportata. È un sollievo.
Dal giorno del ritiro delle forze militari statunitensi dal controllo diretto delle città irachene, spetterà fino in fondo alle forze irachene l'assunzione di rischi e responsabilità che finora hanno lasciato in parte massiccia e ben volentieri ai soldati americani. Vedremo, certamente ci auguriamo, se siano capaci politicamente e militarmente di mantenere un quadro di sicurezza accettabile fino alle nuove elezioni politiche fra sei mesi, nel gennaio del 2010. Il primo ministro Al Maliki, oggi trionfante, si gioca in questo periodo prestigio e possibilità di successo elettorale sull'ordine e la sicurezza.
Negli ultimi due anni, grazie alla cosiddetta «dottrina Petraeus», dal cognome del comandante militare statunitense, lo straordinario generale David Petraeus, è stata spezzata l'alleanza fra terroristi stranieri e capi tribali sunniti, gli iracheni sono tornati a vivere se non ancora nell'agio della normalità in una condizione di riconquista della tranquillità, dopo aver ritrovato una da decenni dimenticata libertà dalla dittatura. Il governo Al Maliki ne ha abbondantemente beneficiato. Ma la caduta dei prezzi del petrolio e la crisi internazionale hanno ridotto le disponibilità finanziarie del governo che deve continuare a mantenere la lealtà dei capi tradizionali e finalmente arruolare in modo ufficiale le fondamentali milizie sunnite.
Al Maliki viene accusato di pratiche autoritarie dai curdi e dai sunniti. Molti parlamentari criticano apertamente i suoi rapporti troppo stretti con i comandanti militari. Il rischio di attentati, magari contro obiettivi diplomatici o uffici delle Nazioni Unite, che da poco sono tornare in Irak, esiste. Già sono ripresi nelle ultime settimane e non per una coincidenza alla vigilia del ritiro americano. Già è deciso che la condizione di massimo allarme debba essere mantenuta, già si può dire che l'annunciata nuova vita del Paese, una volta usciti di scena gli odiosi occupatori, non sarà né semplice né immediata. Prepariamoci a sentire che saranno rimpianti.
In Irak gli americani sono stati circondati da nemici interni ed esterni fin dal giorno della liberazione dalla dittatura di Saddam Hussein, tutti come minimo pronti a scommettere sul fallimento dell'impresa, come massimo impegnati a organizzare guerra civile e attentati suicidi. Nel primo dopoguerra non hanno scelto i giusti comandanti e i diplomatici adeguati. Non avevano neanche gli interpreti che servivano, l'eredità di allegri anni Novanta nei quali né gli Stati Uniti né il resto dell'Occidente si erano preparati a combattere lo scontro di civiltà che si andava organizzando. C'è voluto del tempo. Ma a George W. Bush resterà nella storia non già il discredito di cui la cronaca antiamericana lo ha facilmente ricoperto, ma un merito, e grande. Dopo l'11 settembre Bagdad era il luogo giusto per dimostrare ai sovvenzionatori del terrorismo che finalmente l'Occidente è pronto a far pagare un prezzo salato a chi li aiuta e li protegge.

Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Oggi al ministero del Petrolio di Baghdad asta al miglior offerente, ma senza perderci "

 Hussain al Shahristani, ministro del petrolio iraqeno

Ricordate “No blood for oil”? Era lo slogan del movimento pacifista nel 2003, nei giorni dell’attacco della Coalizione all’Iraq. Slogan efficace, ma semplicemente non vero. Nei sei anni di guerra che sono seguiti la controprova era a disposizione di chiunque volesse accorgersene, sotto la luce piena del sole iracheno. Convogli lunghi e polverosi di autocisterne noleggiate dai militari e riempite con carburante importato, in viaggio da Kuwait, Turchia e Giordania, per alimentare le operazioni militari tecnologiche, ma sitibonde, del Pentagono. A Baghdad il sangue scorreva. Ma il petrolio? Nemmeno una goccia. L’esercito americano in Iraq, con i suoi 30 mila mezzi pesanti e corazzati, era ed è il più vorace al mondo quando si tratta di carburante: i veicoli da combattimento Bradley possono viaggiare soltanto un chilometro con un litro, e i carriarmati Abrams M1 non coprono nemmeno la metà di quella distanza. Se nel conto si mettono anche gli elicotteri sempre in aria, le missioni aeree di combattimento e trasporto, gli stessi convogli di rifornimento via terra, il fabbisogno sale ancora: per ogni soldato in Iraq si bruciavano ogni giorno circa quaranta litri di carburante. Un termine di paragone: la Terza armata del generale George Patton, che restò a secco in mezzo alla Francia nell’estate del 1944, consumava quattro volte meno, anche se contava il triplo degli uomini. Per paradosso, gli americani in Iraq hanno combattuto sei anni con la lancetta del serbatoio in riserva viaggiando sopra a riserve di greggio che sono tra le più grandi del pianeta. Hanno importato enormi quantità di carburante dai paesi vicini, un impegno logistico colossale che ha tenuto impegnati circa 20 mila uomini tra soldati e contractor privati, un piccolo esercito, un ottavo delle forze schierate. Ogni giorno partivano duemila autocisterne soltanto dal Kuwait, ottocento chilometri a sud dalla capitale Baghdad. I marine di stanza ad al Anbar avevano formulato una risposta standard alle accuse dei vecchi iracheni, quando quelli dicevano “Voi siete qui perché volete il nostro petrolio!”. “Si, è vero, vorremmo il vostro petrolio. Vorremmo comprarlo da voi e rendervi ricchi”. Big Oil, l’insieme delle grandi multinazionali del petrolio, non era invece così entusiasta della guerra. Ha sempre preferito concludere accordi commerciali con le dittature, piuttosto che rovesciarle con interventi armati destabilizzanti nel cuore del medio oriente, fonte privilegiata – e da non perturbare – dei propri profitti. La gara fra le compagnie Oggi al ministero del Petrolio di Baghdad il governo iracheno apre alle compagnie straniere i pozzi di greggio, dopo 37 anni di nazionalizzazione, con un’asta spettacolo che sarà trasmessa in diretta televisiva. La gara petrolifera avrebbe dovuto tenersi due giorni fa, domenica; ma lo show è stato poi rinviato per colpa di una tempesta di sabbia che ha anche ostacolato le ultime fasi del ritiro dei soldati americani dalle città secondo l’accordo firmato a dicembre 2008 fra Baghdad e Washington. L’asta irachena è aperta a tutti, americani e non americani. Alla prima fase di qualificazione due anni fa avevano partecipato 120 compagnie da tutto il mondo, ma soltanto in trentacinque sono arrivate a questa fase finale. Tra i candidati alla vittoria ci sono anche giganti del petrolio dei paesi che nel 2003 si erano opposti alla guerra contro Saddam Hussein: la Total francese, la Lukoil, la compagnia di stato della Russia, la Sinopec, formalmente conosciuta come China Petroleum & Chemical Corp. , da Pechino. Tra i paesi che hanno fatto parte della Coalizione, ci sono anche gli italiani di Eni, che già lavorano a Nassiriyah. In palio c’è un tesoro. Sei giacimenti iracheni con riserve per 43 miliardi di greggio, con una facilità d’estrazione favolosa, da proverbiale picconata nella sabbia. I costi tecnici di esplorazione e sviluppo a Baghdad variano tra gli 1,50 e i 2,25 dollari a barile, contro i 20 dollari a barile del greggio estratto in Canada. E il futuro potrebbe essere anche meglio. L’Iraq è un paese produttore ma vergine, il meno esplorato al mondo. I dati geologici sono obsoleti, risalgono a prima della nazionalizzazione del 1972 e nessuna compagnia occidentale ha condotto ricerche degne di questo nome dopo l’embargo del 1991. Anche se il prezzo del greggio ha attraversato un periodo di regressione, le stime prodotte dagli analisti aprono possibilità vertiginose: sotto l’Iraq, pronto a svelarsi alle tecniche di estrazione moderne, potrebbe riposare un quarto delle riserve del mondo. Con 115 miliardi di barili di riserva, Baghdad potrà competere con tutti i vicini, Iran compreso, fino a scalzare i sauditi dal primo posto nella lista dei produttori. Questo, sottolineano le analisi, se e quando uscirà dal suo stato di arretratezza tecnica e non appena lo standard di sicurezza apparirà accettabile anche ai tecnici stranieri (anche se i dipendenti di alcune compagnie, in silenzio, non hanno mai abbandonato i paraggi dei pozzi). Il governo iracheno per ora si sta muovendo con prudenza. I vincitori stranieri dell’asta si aggiudicheranno non una quota di proprietà dei giacimenti, come vorrebbero, ma soltanto una percentuale sulle estrazioni. I pozzi restano iracheni: le compagnie ci mettono il know how e i costi tecnologici per ammodernare un sistema petrolifero rimasto fermo agli anni Settanta. Samuel Ciszuk, analista specializzato sulle riserve energetiche nel medio oriente, dice al Wall Street Journal: “Stiamo parlando di un’enorme quantità di greggio che fluirà per i condotture delle compagnie vincitrici. Dall’altra parte, l’Iraq necessita disperatamente di tecnologia, e queste compagnie possono portarla”. Chi vince, comincerà a lavorare a novembre. Io non mi fido di te, tu non ti fidi di me Eppure, anche se sembra una “win win situation”, una situazione da cui entrambe le parti escono vincitrici, entrambe le parti sono invece insoddisfatte. Le multinazionali si chiedono se, per infilare il piede nel mercato più promettente del pianeta, non stanno invece gettandosi in un affare infernale. E se il livello di violenza torna a crescere? Se l’Iraq scivola indietro, agli anni passati, quando i tecnici occidentali erano sequestrati, gli oleodotti sabotati, le raffinerie colpite da razzi tutti i giorni? Il loro investimento è anche una scommessa sulla stabilità del paese. E – pensano – senza nemmeno avere una quota di proprietà dei pozzi. Almeno pretendono un Production Sharing Agreement a medio termine, vent’anni, che permetta a stento di giocare in anticipo sul mercato con le aspettative di estrazione. Gli iracheni sono invece diffidenti, tanto che il governo ha chiesto all’ultimo minuto un prestito-caparra di 2,6 miliardi di dollari alle multinazionali vincitrici. Temono che qualsiasi sia l’accordo finale, sarà troppo sbilanciato a favore delle compagnie private e puntano su altri tipi di contratti, i Tsa. Sono gli accordi di assistenza tecnica, con termini di tempo molto più ridotti: prima insegnateci come si fa e poi tornatevene al vostro paese. Fayad al Nema, manager della South Oil Company irachena, ha scritto al governo chiedendo contratti limitati per gli stranieri, fino a quando “noi stessi non saremo in grado di fare ricerche e gestire i pozzi”. Ma se i contratti saranno di durata troppo breve, le compagnie straniere non saranno allettate a sopportare i rischi. Ieri il vicepresidente sunnita del Parlamento, Tariq al Hashemi, ha detto che avrebbe boicottato l’asta di oggi. “Sospendete tutto, il Parlamento ha bisogno di più tempo per valutare gli accordi”. Come se non fosse abbastanza, c’è anche la grana del Kurdistan. I curdi, nell’impazienza di considerarsi già terra liberata e autonoma, e grazie anche alle loro condizioni di relativa stabilità rispetto al resto del paese fin dal 2003, hanno già stretto accordi petroliferi con gli stranieri. E ora non vogliono cancellarli per adeguarsi all’asta nazionale. La tensione con gli arabi sta aumentando. Il ministro Sharistani A guidare i contratti e i problemi collegati, c’è l’unica persona in Iraq che ha le capacità per venirne a capo. E’ il ministro del Petrolio Hussain al Shahristani, sciita, entrato nel governo del 2006. La sua storia personale parla per lui. Shahristani, diventato scienziato nucleare all’estero, alla fine degli anni Settanta è tornato in Iraq per fare parte della Commissione nazionale sull’energia. Ma Saddam Hussein da lui voleva altro: la Bomba nucleare. In un incontro faccia a faccia, lo scienziato disse al presidente che l’Iraq era firmatario del patto di non proliferazione nucleare, e che non avrebbe collaborato. Qualche giorno dopo, fu arrestato, torturato per tre settimane e gettato in isolamento per i dieci anni successivi. Nel 1991, ancora in prigione, riuscì a evadere assieme a due compagni grazie alla confusione causata da un bombardamento degli alleati, vestito con l’uniforme da ufficiale dei servizi segreti, e a scappare dal paese con la famiglia. Al ministero, il posto chiave del potere, Shahristani non è visto con favore. Troppo incorruttibile. Ha negato assunzioni di comodo a suoi amici, ha introdotto i cartellini, ha purgato dalle milizie il personale e rifiuta doni dagli stranieri: anche soltanto una cravatta.

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