Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Iran: arrestati otto diplomatici inglesi Cronache e interviste di Cecilia Zecchinelli, Ennio Caretto, Maurizio Molinari, Fausto Biloslavo, Francesca Caferri, Gigi Riva
Testata:Corriere della Sera - La Stampa - Il Giornale - La Repubblica - L'Espresso Autore: Cecilia Zecchinelli - Ennio Caretto - Maurizio Molinari - Fausto Biloslavo - Francesca Caferri - Gigi Riva Titolo: «, la protesta si riaccende. Scontri e arresti - Attaccano Londra per non spezzare il filo con Washington - So che cosa si prova, la vita appesa a un filo -Il dialogo sul nucleare non si deve fermare - L´uomo che trattò per gli ostaggi Usa 'L´Occidente si»
Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 29/06/2009, a pag. 5, la cronaca di Cecilia Zecchinelli dal titolo " Iran, la protesta si riaccende. Scontri e arresti " e l'intervista di Ennio Caretto a Michael Walzer, filosofo liberal, dal titolo " Attaccano Londra per non spezzare il filo con Washington ". Dal STAMPA, a pag. 3, l'intervista di Maurizio Molinari da Bruce Laingen, uno dei diplomatici americani sequestrati nel 1979 dai pasdaran, dal titolo " So che cosa si prova, la vita appesa a un filo ". Dal GIORNALE, a pag. 8, l'intervista di Fausto Biloslavo a Javier Solana dal titolo " Il dialogo sul nucleare non si deve fermare ". Dalla REPUBBLICA, a pag. 4, l'intervista di Francesca Caferri a Gary Sick, principale negoziatore della Casa Bianca durante la crisi degli ostaggi del ´79, dal titolo " L´uomo che trattò per gli ostaggi Usa 'L´Occidente si muova il meno possibile' ". Dall'ESPRESSO n° 26 del 26/06/2009, a pag. 52, l'intervista di Gigi Riva a Thomas Friedman dal titolo " Facebook è la moderna moschea ". Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli : " Iran, la protesta si riaccende. Scontri e arresti "
Khamenei
Iran, 16esimo giorno. Le proteste di piazza sono riprese, il regime colpisce sempre più duro. Contro i «nemici» interni ed esterni. Dopo le recenti accuse a Usa e Europa, ieri otto dipendenti iraniani dell’Ambasciata britannica di Teheran sono stati arrestati. La notizia è stata data in forma anonima dall’agenziaFars, vicina al presidente Mahmoud Ahmadinejad. L’accusa è quella di aver avuto un «ruolo» nei disordini iniziati il 13 giugno dopo l’annuncio del «trionfo elettorale» dell’ex pasdaran. Una colpa ribadita ieri dalla Guida Suprema Ali Khamenei che ha attaccato i «commenti idioti» e le «interferenze» dell’Occidente. «Ma se la nazione e le autorità restano uniti — ha aggiunto— le tentazioni dei politici stranieri crudeli e malauguranti non avranno effetto». Degli otto fermati non si sa niente (forse quattro sono stati rilasciati in serata), prassi peraltro comune in questi giorni in cui gli arresti confermati hanno superato quota 2 mila, come denunciato ieri dalla Federazione Internazionale per i Diritti Umani. Ma il ministro degli Esteri britannico David Miliband, a Corfù per il vertice Osce, ha confermato l’evento, chiedendo l’immediato rilascio degli impiegati («un’inaccettabile intimidazione»). La stessa richiesta è arrivata dai capi di tutte le diplomazie Ue, che hanno invitato Teheran a porre fine a ogni «intimidazione e persecuzione » dei dipendenti di rappresentanze dell’Unione, pena una «forte e comune risposta » europea. «Non possiamo accettare l’arresto dei funzionari di un’ambasciata», ha commentato il ministro Franco Frattini. Piazze e strade a Teheran, dopo quattro giorni in cui erano rimaste semideserte, sono tornate ad essere teatro di scontri. Grazie all’ormai abituale tam tam via Internet o con i telefonini, qualche migliaio di manifestanti ieri è riuscito a convergere su piazza Ghoba, a nord-est del centro. L’occasione era la commemorazione (legale) di un ayatollah-eroe della Rivoluzione ucciso nel 1981. Dopo una marcia volutamente lenta, i manifestanti arrivati alla moschea sono stati attaccati da agenti antisommossa e miliziani basiji. Testimonianze su Internet denunciano violenze, uso di lacrimogeni, spari di cecchini, una trentina di arresti. Tra i presenti, vari esponenti dell’opposizione ma non Mir-Hussein Mousavi, considerato dai riformisti il vero vincitore delle elezioni. Su Internet il rivale di Ahmadinejad ha ripetuto ieri la richiesta di tornare alle urne, respingendo il parziale riconteggio dei voti proposto dal governo. Più vago l'ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani, tra i principali sponsor di Mousavi, che ha chiesto un «esame equo e approfondito» delle contestazioni post-voto. Nella prima dichiarazione pubblica dal 12 giugno, Rafsanjani ha peraltro lodato ieri la Guida Suprema per aver concesso una proroga per i ricorsi elettorali. Una dichiarazione che per alcuni analisti sarebbe una smentita delle voci di un aggravarsi del dissenso tra Khamenei e l’ex presidente. Ipotesi, comunque, perché di notizie certe su quanto sta succedendo a Teheran ce ne sono sempre meno.
CORRIERE della SERA - Ennio Caretto : " Attaccano Londra per non spezzare il filo con Washington "
Michael Walzer
WASHINGTON — Per Michael Walzer, non è una sorpresa che oggi il regime iraniano demonizzi l’Inghilterra più che l’America. «L’Inghilterra è il suo nemico storico, simbolo dello sfruttamento coloniale, soprattutto del petrolio, ed è un bersaglio più facile dell’America di Obama, un’America molto diversa da quella di Bush, e comunque un nemico più recente». Il filosofo liberal, autore diGuerre giuste e ingiuste e di altri trattati, sospetta che questo cambiamento di fronte sia dovuto a lotte interne e a un calcolo politico: «La fazione al potere, chiunque essa sia, sa che uno scontro con l’Inghilterra è meno pericoloso di uno scontro con l’America con cui, prima o poi, potrebbe essere costretta a dialogare». Perché nemico storico? «Perché l'Inghilterra impose i suoi interessi all’Iran, al punto da deporne il leader Mossadeq in un golpe nel ’53. È vero che al golpe partecipò l’America, ma per l’Iran fu concepito a Londra. Non dimentichiamo che in quegli anni l’Impero britannico era in crisi nelle colonie». Non è un nemico storico dell’Iran anche l’America? «Direi che lo fu a partire dalla deposizione dello scià e dalla cattura della nostra ambasciata a Teheran nel ’79. Noi diventammo il suo nemico numero uno subentrando all’Inghilterra nel Golfo Persico e in Medio Oriente». Ma allora, perché è più facile per il regime iraniano denunciare la Gran Bretagna e non gli Stati Uniti? «Perché alle elezioni il regime ha constatato che Obama è popolare presso il pubblico: personalmente, sono convinto che le aperture del nostro presidente abbiano influito sul voto. E perché, come dicevo, l’Inghilterra non è essenziale a un eventuale futuro dialogo del regime con noi». Chi lo è? «A mio parere, la Russia. L’impasse sull’Iran può essere risolto solo da noi e dai russi assieme. Spero che Obama ne discuta a Mosca, dove si recherà in settimana. Se e quando ci sarà un’intesa, l’Iran non potrà ignorarla. Superati i traumi elettorali, la diplomazia si attiverà, anche se al principio inutilmente». Ma al momento un dialogo è impossibile. «Lo rende impossibile la massiccia repressione in corso, che ha impedito al popolo iraniano di dichiarare uno sciopero nazionale. È chiaro che esso è contro il regime. È meno chiaro chi comandi il regime. Non escluderei che esso sia nelle mani della guardia rivoluzionaria, dei militari, e non degli ayatollah». Essere contro il regime a Teheran vuole dire essere per la democrazia? «Per qualche forma di democrazia. Ma non mi illuderei. Temo che negli anni prossimi in Iran accada solo quello che è accaduto in Cina. Che il regime cioè conceda più libertà economica, elezioni locali e via di seguito, ma senza mai rinunciare minimamente al potere». Si parla di un movimento di diritti civili nel mondo islamico, contro la teocrazia… «Si sta formando, ma non credo che possa dare frutti a breve termine. Nel mondo arabo, per esempio in Egitto e in Arabia Saudita, l’America non vuole cambiamenti radicali perché potrebbero favorire i nostri nemici. In Libano ha vinto la democrazia ma è una rondine che non fa primavera. Quello è un Paese che è stato sempre politicamente aperto».
La STAMPA - Maurizio Molinari : " So che cosa si prova, la vita appesa a un filo "
Bruce Laingen
Stanno giocando la carta della cospirazione». Bruce Laingen, 87 anni, segue di fronte alla tv le notizie che arrivano da Teheran e torna con la memoria a quanto accadde il 4 novembre 1979, quando fu uno dei diplomatici americani sequestrati dai pasdaran, nelle cui mani rimase per 14 lunghi mesi. «La cattura di otto dipendenti civili iraniani dell’ambasciata britannica serve al regime non tanto per ricattare la Gran Bretagna quanto per giustificare la repressione» dice l’ex incaricato d’affari nell’ambasciata Usa a Teheran, secondo il quale «le prese di ostaggi da parte degli ayatollah hanno molto spesso fini interni». Nel 1979 il sequestro per 444 giorni di 52 diplomatici americani servì «per consolidare la legittimità del nuovo regime rivoluzionario, identificando in noi il nemico più pericoloso» mentre adesso «puntano ad avvalorare il sospetto odioso che la Gran Bretagna abbia creato una rete di spie grazie alle quali il movimento pro-Mousavi si è rafforzato». Laingen torna a più riprese sulle «teorie della cospirazione», perché «in Iran sono molto diffuse e da decenni riguardano assai più i britannici che non gli americani». «Nella mente di molti iraniani sin dall’inizio del ’900 è stata la Gran Bretagna a interferire nelle vicende nazionali nuocendo alla nazione, noi americani non siamo che la brutta copia dei malvagi britannici» e dunque «ora Ahmadinejad e Khamenei» tentano di «fare leva su questi sentimenti popolari per indebolire il vasto sostegno popolare che Mousavi sta dimostrando di avere». Passano pochi minuti e arriva da Londra una telefonata per l’ex ostaggio. Non ci vuole dire chi c’è dall’altra parte ma la domanda deve avere a che fare con la psicologia dell’ostaggio, perché lui risponde così: «In questi momenti gli otto civili iraniani arrestati si sentono soli, minacciati, sono impauriti, non hanno idea di che cosa succederà, provano la sensazione che la loro vita è appesa a un filo, nelle mani di persone violente mosse da lontano». Sulla sorte dei sequestrati Laingen ha pochi dubbi: «Avverrà a loro quello che è avvenuto a noi, li terranno fino a quando serviranno» e «il fatto che sono iraniani e non stranieri li espone certamente a maggiori pericoli fisici». Insomma, potrebbero essere uccisi. La tecnica dei rapimenti «è un metodo che la rivoluzione islamica adopera per avere delle fiches da giocare» spiega l’ex ostaggio, rifacendosi a più precedenti: «Tempo fa Ahmadinejad sequestrò un gruppo di soldati britannici nelle acque del Golfo Persico per poi rilasciarli puntando a guadagnare punti di fronte al resto del mondo, proprio come ha fatto per la giornalista americana Roxanna Saberi, ex Miss North Dakota, alla quale forse non ha giovato essere tanto bella». In questo caso gli otto rapiti «hanno più usi possibili» perché «se da un lato fomentare le teorie della cospirazione indebolisce Mousavi, dall’altro è evidente che i diplomatici stranieri a Teheran da oggi hanno più paura», mettendo le rispettive capitali sulla difensiva. «Ahmadinejad e Khamenei sfruttano con abilità il fantasma della nostra cattura nel 1979, sanno che è una moneta che paga sempre, quando viene giocata con gli occidentali». Ma se queste sono le mosse che gli ayatollah stanno facendo, qual è la risposta che la Casa Bianca dovrebbe dare? Il pensionato Bruce Laingen resta un fedele servitore dello Stato e nella risposta che dà, parlando dalla sua casa di Bethesta, in Maryland, premette che «non dispongo delle informazioni che ha il Presidente degli Stati Uniti». Ma subito dopo aggiunge: «Ho sempre creduto nella necessità di dialogare con l’Iran, perché il popolo iraniano è amico dell’Occidente e dell’America e non bisogna dunque consentire al regime di impedirci di avere rapporti con loro» ma «poiché nella strade di Teheran c’è ancora violenza, in questo momento sarebbe bene aspettare e vedere che cosa succede». L’ultima riflessione è per «gli studenti pro-Mousavi». «Sono giovani coraggiosi, amano la libertà, sono pronti a morire per l’Iran - dice l’autore di "Yellow Ribbon", il libro nel quale racconta la sua avventura -. Il loro sacrificio e la loro forza confermano il ricordo che serbo di una nazione forte, vivace, amante delle libertà e della democrazia che forse presto potrebbe tornare sul palcoscenico». Parola di ex ostaggio dei Guardiani della Rivoluzione. Il 4 novembre 1979 un gruppo di studenti islamici prese in ostaggio 66 cittadini Usa dentro l’ambasciata americana. La crisi durò 444 giorni. Solo 14 ostaggi furono rilasciati dagli iraniani, mentre gli altri furono maltrattati, tenuti in isolamento o ammanettati, costretti al silenzio, esibiti con gli occhi legati alla folla e sottoposti a finte esecuzioni. Il presidente Carter cercò il negoziato con Khomeini ma, fallita questa via, il 24 aprile 1980 lanciò un blitz per liberare gli ostaggi. L’operazione però fallì. Gli ostaggi furono rilasciati il 20 gennaio 1981, poche ore dopo l’entrata in carica del presidente Reagan.
Il GIORNALE - Fausto Biloslavo : " Il dialogo sul nucleare non si deve fermare "
Javier Solana
«Nuovi negoziati sul nucleare sono possibili. Noi siamo pronti, ma i governi occidentali vogliono vedere come si stabilizzerà la situazione in Iran». Javier Solana, il rappresentante della politica Estera dell’Unione europea. Solana, è l’uomo chiave dell’Europa nelle trattative per ora congelate sul nucleare iraniano, dei cinque membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania. A Corfù si riuniranno oggi i ministri degli Esteri dell’Ue, che parleranno della crisi iraniana. Sul tavolo ci sarà anche la spinosa questione delle richieste di visti da parte degli oppositori che vogliono lasciare il Paese. In questa intervista al Giornale Solana, parla a tutto campo: dal delicato dossier iraniano all’incubo nucleare della Corea del Nord, passando per le trattative con i talebani afghani. Non pensa che l’Europa avrebbe dovuto fare di più relativamente alla crisi in Iran? «Penso che l’Europa abbia fatto molto condannando quello che andava condannato (l’uso della forza contro i manifestanti che contestano l’elezione di Mahmoud Ahmadinejad, nda). Abbiamo cercato di dare il nostro supporto, ma non possiamo fare molto di più. Ora dobbiamo monitorare come si svilupperà la situazione». E l’idea di «aprire» le ambasciate europee agli iraniani che temono la repressione? «Gli ambasciatori, che abbiamo consultato e le sedi diplomatiche a Teheran stanno operando in maniera trasparente, ma non possiamo organizzare una cosa del genere in pochi giorni a livello comunitario. Se ci sono dei casi di richiesta di visti per timore della repressione la decisione politica spetta ai singoli Stati». Il G8 di Trieste ha dichiarato che la mano tesa nei confronti dell’Iran sul dossier nucleare, non sarà per sempre. C’è una data finale per le trattative? «Neppure prima del G8 abbiamo mai detto che il negoziato andrà avanti senza limiti di tempo. La trattativa serve a fermare l’arricchimento dell’uranio prima che si arrivi alla possibilità di fabbricare un’arma atomica. E l’obiettivo è ottenere un risultato per non giungere a questo punto. Ad aprile dovevamo fare il punto della situazione, ma gli iraniani hanno detto di voler rimandare tutto a dopo le elezioni. In questo momento è molto difficile dire quale sarà il futuro del negoziato, ma penso che bisogna ancora usare gli strumenti politici e della diplomazia, anche nelle circostanze difficili, come quelle vissute oggi dall’Iran». Passiamo a un’altra crisi nucleare: la Corea del nord. Quale sarà la reazione della comunità internazionale se il regime di Pyongyang lancerà un altro missile a lunga gittata, come si teme? «I nord-coreani hanno interrotto i negoziati e il Consiglio di sicurezza ha approvato all’unanimità una risoluzione che dobbiamo far rispettare con tenacia. La risoluzione obbliga i paesi membri delle Nazioni Unite a fermare e controllare qualsiasi cargo sospettato di trasportare materiale utilizzato per progetti missilistici o nucleari. Bisognerà vedere fino a che punto Pyongyang vuole arrivare prima di rendersi conto in quale posizione senza senso si è cacciata. Stiamo parlando di un paese che spende una fortuna per lo sviluppo nucleare bellico mentre la sua gente muore di fame». Infine l’Afghanistan: c’è bisogno di più truppe? «Non penso. Piuttosto abbiamo bisogno di addestrare più soldati e poliziotti afghani. L’Italia ha fatto molto bene a prendere la decisione di incrementare il suo coinvolgimento in questo campo. Lo stesso stanno facendo la Francia e la Spagna. L’arrivo di più carabinieri o guardie civil o gendarmi servirà ad aumentare e migliorare le capacità della polizia locale. È favorevole al dialogo con i talebani? «Sì, ma bisogna essere molto chiari su che cosa questo significa. La galassia talebana è composta da diversi realtà, si va dagli affiliati di Al Qaida a a giovani frustrati perché non trovano lavoro e patiscono la fame. Per questo penso che parte dei cosiddetti talebani sia recuperabile. Con questa gente è possibile aprire un dialogo, che non deve venir intrapreso dalla comunità internazionale, ma dalle autorità afghane. Credo che siano molti (gli insorti) non legati ad Al Qaida, e pronti ad accettare di venir integrati nella società afghana regolata della Costituzione, ai quali si possono offrire garanzie di incolumità».
La REPUBBLICA - Francesca Caferri : " L´uomo che trattò per gli ostaggi Usa 'L´Occidente si muova il meno possibile' "
Gary Sick
Noi invece riteniamo che i paesi democratici dovrebbero prendere una posizione più netta contro l'Iran e non limitarsi a richiamarlo al rispetto delle convenzioni internazionali. La repressione dei sostenitori di Moussavi avverebbe anche se le democrazie occidentali non intervenissero. Ecco l'intervista:
Se c´è un uomo che sa cosa significhi trattare con l´Iran in un momento di crisi, quello è Gary Sick: membro del National security council sotto i presidenti Ford, Carter e Reagan, principale negoziatore della Casa Bianca durante la crisi degli ostaggi del ´79, oggi senior research scholar della Columbia University, sulla crisi di questi giorni non ha dubbi: «L´Occidente farà meglio a muoversi il meno possibile se non vuole creare danni all´opposizione». Professor Sick, il braccio di ferro si fa sempre più duro: cosa può fare L´Occidente? «Il meno possibile. Questo è uno scontro interno all´Iran: ogni parola di Obama, ogni presa di posizione delle cancellerie occidentali si trasforma in una scusa per chi vuole attaccare il movimento riformista. L´unica cosa che possiamo fare è richiamare l´Iran al rispetto delle convenzioni internazionali sui diritti umani e sulla libertà di espressione. Tutto il resto sarebbe un´interferenza pericolosa». La strategia del dialogo di Obama è tramontata? «Non escludo che se ne possa riparlare un giorno. Ma oggi è l´intero Occidente ad accusare l´Iran. E il regime iraniano accusa l´Occidente: non si può pensare che venga dimenticato presto». Lei è stato in prima linea nel momento più difficile delle relazioni fra il suo paese e l´Iran: cosa si aspetta oggi? «Sarà uno scontro lungo. Ricordiamo quello che accadde con Khomeini: tutti parlano del gennaio ´79, ma la rivoluzione iniziò un anno prima. Non vorrei arrivare ad usare il termine fascismo: ma qui in campo c´è uno stato militarizzato e nazionalista, con un´ideologia unica che punta a controllare ogni settore della società. E che non accetta l´idea di dividere il controllo con nessuno».
L'ESPRESSO - Gigi Riva : " Facebook è la moderna moschea "
Thomas Friedman
Facebook, Twitter, Internet sono le nuove moschee. È lì che si forma il consenso, che nasce il dibattito e si sviluppano le idee. Il paragone, suggestivo, è di Thomas Friedman, 55 anni, editorialista del “New York Times”, tre premi Pulitzer, in Italia per ritirare l’Urbino Press Award 2009. Parla del suo libro “Caldo, piatto e affollato” (Mondadori), cioé i tre mali che affliggono il pianeta, ma non scorda l’antico amore per il Medio Oriente (che gli è valso due dei tre Pulitzer) e la testa corre alla piazza di Teheran. Sale nella camera d’albergo per connettersi. Per lui è la conferma tangibile che il mondo è davvero “piatto” se da Urbino, con un clic e grazie ai social network, raccoglie informazioni fresche, di prima mano. «Fantastico», esclama. Come finirà in Iran è troppo presto per dirlo, ma una novità, non irrilevante, la intravede e si esplicita in una cifra: «Moussavi su Facebook conta più di 50 mila fan, molti di più di quelli che può contenere anche la più capace delle moschee». Mister Friedman, partiamo da questo paragone tra le moschee e Internet. «Gli islamisti, non solo in Iran, ma in tutto il Medio Oriente, hanno sino a poco tempo fa avuto un vantaggio. Hanno goduto del consenso elettorale perché nelle moschee, e totalmente fuori dal controllo dello Stato, hanno potuto formare, educare e ispirare i loro sostenitori. Questo proselitismo si è tradotto nella vittoria nelle urne. Ma ecco che arriva la Rete e svolge lo stesso ruolo. Così il moderato Moussavi (attenzione, non così aperto al cambiamento come tanti suoi sostenitori) riesce col nuovo strumento a contrastare lo strapotere mediatico dei suoi avversari. Il regime lo ha capito talmente bene che sta cercando, con ogni mezzo di bloccare i siti. Ma qualcosa sfugge sempre alle maglie della censura». Si contestano i brogli, la protesta prosegue, ma Ahmadinejad è stato proclamato vincitore. Riuscirà la piazza a ribaltare questo esito truccato? «C’è da chiedersi anzitutto perché Ahmadinejad, se è così sicuro del successo, non permette di ricontare le schede. E comunque quello che sta succedendo è già di notevole portata. Una sommossa popolare in uno Stato che ha petrolio in Medio Oriente è più rara della neve in Arabia Saudita, più insolita dello sci d’acqua nel Sahara. La gente che è scesa in piazza, se vuole vincere, non ha altra chance che continuare ancora, ancora e ancora». Ha citato il petrolio perché anche lei è convinto che la presenza di quella fonte di ricchezza giochi contro la democrazia? «Sì. È una delle ragioni principali che impediscono alla democrazia di crescere. Chi arriva al potere, sia re o dittatore, può usare il denaro che arriva dal petrolio per soddisfare qualche esigenza del popolo ma soprattutto per costruire enormi apparati di sicurezza al proprio servizio». E come si esce da questo circolo vizioso? «Ci sono solo due strade. O c’è un intervento esterno, si va e si decapita il regime, come abbiamo fatto in Iraq con Saddam Hussein. O con una rivolta popolare che parte dal basso». Sarebbe quella a cui stiamo assistendo, se ne avesse la forza? «Non so. Non lo possiamo sapere adesso. Ricordo che in Medio Oriente c’è un solo precedente a cui fare riferimento e riguarda proprio l’Iran. Era il 1979, il popolo scese in strada e rovesciò lo Scià. È ciò che il regime teme di più perché non ha altra scelta se non sparare sul suo popolo o cedere il potere. L’ayatollah Khamenei ha fatto tesoro di quanto successe nel 1979 a suo favore, ed è per questo che adesso dice che la sfida della piazza non sarà tollerata». Se Ahmadinejad si confermerà al potere e proseguirà sulla strada del nucleare, come reagirà l’Occidente? Con una guerra? «La scelta atomica è un progetto nazionale in Iran. Non riguarda questo o quel politico. E non credo che Moussavi sia un vegetariano (ride, n.d.r). E comunque dobbiamo relativizzare, l’India ha la bomba, il Pakistan ha la bomba, ma io non ho mai passato nemmeno una notte insonne pensando all’India». In Europa la questione preoccupa molto le cancellerie. «Per forza. Basta guardare la cartina geografica. C’è l’Iran, c’è Urbino, molto vicino, poi c’è un oceano di mezzo e finalmente ecco gli Stati Uniti. Per questo noi siamo meno sensibili». Gli Usa non possono dimenticare però che nell’area hanno un alleato strategico come Israele. «Israele e il premier Netanyahu dovrebbero cogliere i segnali, anche se deboli, che arrivano. In Libano hanno vinto i moderati, in Iran c’è qualche novità. E capire che, nel lungo termine, se questi segnali si rafforzeranno, ciò sarà assai più utile per la sicurezza nazionale dello Stato ebraico di qualsiasi altro scenario».
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