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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
28.06.2009 Piano Marshall per l'Afghanistan
Cronache e analisi di Hamid Karzai, Emanuele Novazio, Davide Frattini

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Hamid Karzai - Emanuele Novazio - Davide Frattini
Titolo: «Piano Marshall per l'Afghanistan - Il G8: ora attenti al voto di Kabul - L’America cambia strategia sull’oppio»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 28/06/2009, a pag. 1-2, l'articolo di Hamid Karzai, presidente dell'Afghanistan, dal titolo " Piano Marshall per l'Afghanistan " e, a pag. 3, l'articolo di Emanuele Novazio dal titolo " Il G8: ora attenti al voto di Kabul  ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 15, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " L’America cambia strategia sull’oppio ". Ecco gli articoli:

La STAMPA - Hamid Karzai : " Piano Marshall per l'Afghanistan "

 Hamid Karzai

La linea Durand, tracciata nel 1893 dagli inglesi a seguito della seconda guerra anglo-afghana, ha spaccato l’Afghanistan. Per soffocare il senso di identità comune di un intero paese e il patriottismo e l’orgoglio delle tribù Pashtun, gli amministratori coloniali promossero anche l’estremismo religioso.
Lo Stato che seguì il dominio coloniale britannico continuò questa politica. Purtroppo, la risposta occidentale all’invasione dell’Unione Sovietica nel 1979 spinse attivamente l’estremismo nella regione.
Decidendo di sostenere i gruppi radicali locali ed esterni insieme alle principali organizzazioni afghane di Mujaheddin contro i sovietici, l’Occidente e i suoi alleati crearono ciò che oggi è una delle più gravi minacce per la sicurezza internazionale. Agli estremisti, che erano favoriti rispetto alla massa della resistenza afghana, furono date le risorse non solo per combattere i sovietici ma anche per mettere a punto un programma politico violento per minare l’ordine sociale tradizionale e creare campi di addestramento mimetizzati da madrasse. Questi campi di addestramento continuano a sfornare un flusso costante di giovani con posizioni radicali e molto proni alla manipolazione.
Dopo il ritiro sovietico dall’Afghanistan, continuarono i legami profondi tra gli estremisti locali e le reti terroristiche internazionali. Aiutati e istigati da elementi all’interno delle istituzioni statali e finanziati da una rete internazionale di sostenitori, questi gruppi hanno acquisito capacità che vanno ben oltre Afghanistan e Pakistan.
Per impedire a questa minaccia di diffondersi ulteriormente e di creare maggiore scompiglio nella regione e nel mondo, si deve adottare un approccio su tre fronti.
Innanzitutto, i Paesi all’interno e all’esterno della regione devono riconoscere la gravità della minaccia rappresentata da incessanti attività da parte dei terroristi e dai trafficanti di droga nella regione. Per combattere la piaga che questi rappresentano per il benessere e la sicurezza di tutti noi, dobbiamo impegnarci con sincerità a lavorare insieme. Possiamo riuscire nello sforzo solo se coloro tra noi che considerano sponsorizzare l’estremismo uno strumento di politica capiscono che esso non solo minaccia la sicurezza degli altri ma mette anche in pericolo, come già evidente, la loro stessa sicurezza.
In secondo luogo, i terroristi devono essere stanati dai loro rifugi sicuri. Questo richiederà la distruzione di nascondigli, delle reti di comunicazione e delle rotte sulle quali passano i rifornimenti. Al contempo, tuttavia, bisogna essere molto accorti a non provocare vittime tra i civili. Fondamentalmente, tuttavia, queste aree non possono essere riconquistate solo dalle forze straniere, possono essere rese sicure solo migliorando di molto le risorse e le capacità delle forze di sicurezza locali, rivitalizzando le strutture sociali tradizionali e riguadagnando la fiducia della popolazione.
In terzo luogo, si deve affrontare la straziante povertà dell’area e la mancanza quasi totale di servizi di base per la gente. Un’area che ha patito decenni di guerra, di distruzione fisica e sociale ha bisogno di qualcosa che somigli molto a un Piano Marshall. Un tale programma di assistenza a lungo termine favorirebbe la crescita economica e offrirebbe servizi di stato di base, in particolare per una migliore istruzione, salute e migliore occupazione. Soprattutto, deve esserci un impegno per la creazione di uno Stato di diritto e per il rispetto dei diritti umani della popolazione. L’impegno internazionale richiesto deve essere in termini di decenni piuttosto che di anni.
Chiaramente, un’attuazione con risultati positivi di questo approccio triplice richiederà l’impegno da parte della comunità internazionale a mettere a disposizione sostanziose risorse finanziarie e politiche per l’Afghanistan e il Pakistan. Senza una tale strategia globale e senza sufficienti risorse per renderla impresa di successo, il mondo si troverà di fronte a una serie di crisi sempre più ampie che porranno una minaccia anche maggiore non solo alla regione ma a tutto il mondo.
L’Afghanistan ha già fatto immensi sacrifici per combattere il terrorismo internazionale. Seguirà la rotta intrapresa fino a quando questa piaga, che perpetua insicurezza e instabilità nella nostra regione, non verrà eliminata. L’Afghanistan continuerà a sviluppare relazioni sempre migliori e più profonde con i suoi vicini al fine di combattere il credo estremista di odio e distruzione che minaccia la sicurezza dei popoli ben oltre la nostra regione. Per raggiungere questi obiettivi così importanti l’Afghanistan continuerà a cercare la partnership e la collaborazione dei suoi amici e alleati all’interno della comunità internazionale.

La STAMPA - Emanuele Novazio : " Il G8: ora attenti al voto di Kabul "

 Afghanistan

Il G8 da il via libera alle aperture di Hamid Karzai verso i «fratelli talebani», che il presidente aghano ha invitato ad andare a votare alle presidenziali di agosto. La strategia di Karzai per raggiungere una riconciliazione nazionale a Kabul va «fortemente incoraggiata», dichiara Franco Frattini a conclusione della tre giorni triestina che si è concentrata sul dossier afghano-pakistano e sulla crisi iraniana. Dopo l’esperienza di Teheran, i ministri hanno auspicato che le elezioni presidenziali «siano credibili», «in condizioni di sicurezza per un risultato legittimato», ha detto Frattini. «Bisogna distinguere, nella galassia talebana, fra i gruppi vicini ad al Qaeda e quelli che possono essere ricondotti nella legalità in funzione di una strategia di pacificazione», sottolinea il ministro degli Esteri italiano anche a nome dei colleghi.
Certo, la mancata presenza di Teheran ha privato la riunione di Trieste - che ieri è stata interamente dedicata all’esame della normalizzazione della regione «AfPak» - di un interlocutore importante. «Un’occasione mancata per l’Iran», commenta il capo della Farnesina: la Repubblica Islamica «dovrà adesso dimostrare di volersi impegnarsi non soltanto a livello bilaterale», come già avviene con l’Afghanistan. I suoi interessi nella regione, «almeno in teoria, coincidono» infatti con quelli occidentali. Basta pensare al pericolo droga: l’Iran è la prima destinazione del traffico di stupefacenti provenienti dall’Afghanistan, il 6% della sua popolazione è tossicodipendente, un record mondiale.
Frattini conferma inoltre che i nostri militari a Herat - dove Afghanistan e Iran condividono oltre 600 chilometri di confine - sottolineano l’importanza della cooperazione operativa con gli iraniani, che procede da tempo, ma non è «organizzata». Se Teheran avesse partecipato alla conferenza, sarebbe stato invitato a renderla più «strutturata».
Con o senza l’Iran - che ieri ha protestato per le critiche alla repressione delle dimostrazioni di piazza espresse venerdì dagli otto Grandi («interferenze nelle libere elezioni iraniane», ha lamentato un portavoce del ministero degli Esteri) - la soluzione della crisi afghano-pakistana è legata secondo il G8 al successo di una «cooperazione regionale» allargata ai Paesi musulmani, a quelli confinanti, a India e Cina, oltre che ai donatori e alle istituzioni internazionali come le Nazioni Unite e la Banca Mondiale. Ieri a Trieste erano una quarantina le delegazioni impegnate nell’esame del dossier afghano, con l’obiettivo di dare «coerenza e concretezza» agli sforzi della comunità internazionale, ai quali spesso è mancato il coordinamento.
Il G8 allargato ha selezionato alcuni settori di impegno, che saranno sottoposti al vertice dell’Aquila. Dal controllo delle frontiere alla lotta ai traffici illeciti, la droga prima di tutto, che alimentano i signori della guerra: i Paesi della regione si sono impegnati ad agire «in maniera raccordata». Fino allo sviluppo economico e sociale: rimuovendo barriere e restrizioni al commercio, sostenendo gli investimenti in infrastrutture e nello sfruttamento delle risorse naturali. E sostenendo «l’agricoltura legale», con finanziamenti a colture redditizie che sostituiscano l’oppio. Sullo sfondo, resta naturalmente il problema della sicurezza, come l’attacco di ieri a una pattuglia di italiani conferma. Anche se, commenta il capo della nostra diplomazia, «la sicurezza è uno strumento, non il fine».
Frattini ha confermato che nessun cittadino iraniano ha chiesto asilo nella nostra ambasciata di Teheran. Dopo le violenze contro i dimostranti, tuttavia, l’Italia ha concesso decine di visti - validi solo per il nostro Paese - a iraniani sfuggiti alla repressione. Frattini chiede però un «forte coinvolgimento dell’Europa», e «una sola voce» dei Ventisette su un tema che rischia di infiammare ulteriormente le relazioni fra Repubblica Islamica e Paesi occidentali.

CORRIERE della SERA - Davide Frattini : "L’America cambia strategia sull’oppio "

 Richard Holbrooke

TRIESTE — Bill il chimico era arrivato a Kabul due anni fa. Nominato da George W. Bush per il passato da amba­sciatore in Colombia e sopran­nominato per la tattica predi­letta contro i cartelli della dro­ga: irrorare dall'alto le coltiva­zioni (cocaina od oppio) con gli spray diserbanti. Dalla fine di aprile, William Wood non è più ambasciatore in Afghani­stan e con lui se n'è andata an­che la vecchia strategia ameri­cana. Perché c'è un nuovo ple­nipotenziario di Barack Oba­ma nella regione, che si chia­ma Richard Holbrooke e con il suo stile aggressivo non ha mai nascosto le critiche alle scelte del presidente repubbli­cano. «Il programma per la lotta al traffico di droga — scriveva sul Washington Post nel 2008 — costa 1 miliardo di dollari l'anno ed è probabil­mente il progetto meno effica­ce nella storia della politica estera degli Stati Uniti. Non è solo sperperare i soldi, raffor­za i talebani e Al Qaeda».
Ripete le stesse parole a Tri­este, dov'è intervenuto al G8 dei ministri degli Esteri. «Sra­dicare serve a distruggere qualche ettaro, per il resto non fa nulla — dice Holbroo­ke in un'intervista alla
Asso­ciated Press —. Abbiamo deci­so di spostare i nostri investi­menti e gli sforzi a piani per contrastare i trafficanti e im­porre la legge. Soprattutto vo­gliamo incentivare i contadi­ni a coltivare prodotti alterna­tivi. Gli agricoltori non sono i nemici, devono trovare un modo per vivere. Fino ad ora li abbiamo spinti ad allearsi con i talebani». Il documento finale approvato dagli Otto so­stiene «lo sviluppo dell'agri­coltura, che dia posti di lavo­ro, alzi i livelli di reddito e of­fra possibilità diverse dalla coltivazione dei papaveri».
L'oppio afghano copre il 93 per cento della produzione mondiale e frutta ai fonda­mentalisti oltre 300 milioni di
dollari l'anno, tra estorsione in cambio di protezione e tas­se imposte ai contadini. I gua­dagni vengono reinvestiti per finanziare la guerra contro le truppe occidentali. Dopo l'at­tacco americano del 2001, le distese dei campi di papaveri sono cresciute fino a 160.000 ettari. Dalla fine di agosto, at­torno al periodo delle elezioni presidenziali, ventimila solda­ti verranno inviati nelle aree di Helmand, Kandahar e Za­bul, le province dove si con­centra l'«oro bianco» per l'ero­ina. «Distribuire i semi per il frumento ai contadini non ba­sta — spiega Vanda Fel­bab- Brown della George­town University al quotidia­no Usa Today —. Il punto è garantire accesso ai finanzia­menti e alla terra». Antonio Maria Costa, direttore dell' Unodc, l'ufficio Onu per la lot­ta alla droga e alla criminali­tà, appoggia la svolta america­na. «La distruzione dei campi come avviene in Colombia, dove vengono eliminati oltre 230 mila ettari l'anno, è effica­ce. In Afghanistan, quest'an­no ne sono stati sradicati solo 6.500: così non funziona ed è anzi controproducente».
L'International Council on Security and Develop­ment, un pensatoio strategi­co con sedi a Londra e Ka­bul, ha proposto di legalizza­re la coltivazione di oppio da rivendere alle industrie per produrre morfina. «I far­maci a base di oppiacei scar­seggiano per l'ottanta per cento della popolazione mondiale», commenta Reza Aslan sul
Daily Beast, il gior­nale online di Tina Brown. Costa la considera una vec­chia idea, ormai abbandona­ta anche da chi l'aveva lan­ciata. «La domanda mondia­le non è sufficiente, perché nei Paesi in via di sviluppo non c'è purtroppo ancora una cultura dell'uso degli an­tidolorifici e con la produzio­ne annuale afghana copri­remmo la richiesta di morfi­na per tre anni».

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