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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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il Giornale - Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa - La Repubblica - L'Unità Rassegna Stampa
27.06.2009 G8 di Trieste: poche accuse alla teocrazia iraniana
Cronache e analisi di Livio Caputo, Christian Rocca, Tatiana Boutourline, Franco Venturini, Viviana Mazza, opinioni di Bernard-Henri Lévy e Vittorio Emanuele Parsi

Testata:il Giornale - Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa - La Repubblica - L'Unità
Autore: Livio Caputo - Franco Venturini - Christian Rocca - Tatiana Boutourline - Viviana Mazza - Maria Giulia Minetti - Gaimpaolo Cadalanu - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Quell’offerta di dialogo ora mette in crisi la Casa Bianca - Joan Baez a Teheran - Palloncini verdi in cielo. E le piazze tornano vuote - I politici in piazza - Gli ayatollah hanno perso l’arte del “tarof” e la piazza si sente sola - A Roma il gay pe»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 27/06/2009, a pag. 11, l'analisi di Livio Caputo dal titolo "Quell’offerta di dialogo ora mette in crisi la Casa Bianca ", dal CORRIERE della SERA, in prima pagina,l'editoriale di Franco Venturini dal titolo " Joan Baez a Teheran  " e, a pag. 6, l'articolo di Viviana Mazza dal titolo " Palloncini verdi in cielo. E le piazze tornano vuote ". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, gli articoli di Christian Rocca e Tatiana Boutourline titolati "  I politici in piazza " e " Gli ayatollah hanno perso l’arte del “tarof” e la piazza si sente sola  ". Dalla STAMPA, a pag. 37, l'intervista di Maria Giulia Minetti a Bernard - Henri Lévy dal titolo "  Il regime iraniano ha i giorni contati  ". Dalla REPUBBLICA, a pag. 11, l'intervista di Giampaolo Cadalanu a Vahid, ragazzo omosessuale sfuggito alla condanna a morte in Iran dal titolo " A Roma il gay perseguitato 'Adesso l´asilo politico'  ". Dall'UNITA', a pag. 25, l'intervista di Umberto De Giovannangeli a Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " L’Italia ha sbagliato sull'invito all'Iran. I diritti prima di tutto ". Ecco gli articoli:

Il GIORNALE - Livio Caputo : " Quell’offerta di dialogo ora mette in crisi la Casa Bianca "

Nella sua storica offerta di dialogo all'Iran, Obama si impegnò anche - con delusione della diaspora - a non cercare più quel "cambiamento di regime" che era tra gli obiettivi segreti di Bush. L'offerta aveva un senso nel quadro della politica della mano tesa, del tentativo di indurre Teheran a prendere finalmente in considerazione la proposta occidentale di rinunciare alle sue ambizioni nucleari in cambio di un pacchetto di sostanziose concessioni. Bisogna tuttavia chiedersi se abbia ancora un senso oggi che il regime è violentemente contestato dagli stessi iraniani e, in seguito ai brogli che hanno confermato al potere Ahmadinejad e alla sanguinosa repressione delle proteste che ne sono seguite, ha perduto buona parte della sua legittimità. Il Grande ayatollah Montazeri, che era stato il braccio destro di Khomeini, ha previsto che «potrebbe cadere», il candidato riformista sconfitto Moussavi ha bollato gli attuali governanti come «sostenitori di un Islam pietrificato e di modello talebano» e la Nobel Shirin Ebadi ha invitato l'Occidente a sospendere qualsiasi contatto con Teheran fino a quando le elezioni presidenziali non saranno annullate.
Su 290 deputati al Parlamento, ben 185, compreso il presidente Larijani, si sono rifiutati di partecipare alla festa della vittoria di Ahmadinejad e - secondo fonti bene informate - un terzo dei Grandi ayatollah di Qom si sarebbero dissociati dalla Guida suprema Khamenei e dal Consiglio dei guardiani, che ieri hanno avuto la faccia tosta di definire l'elezione di 15 giorni fa «la più corretta dal 1979». Intanto, centinaia di migliaia di cittadini, cacciati dalle piazze dalla violenza dei Basiji, continuano a manifestare il loro dissenso gridando di nottetempo dai tetti «Dio è grande» e «morte al dittatore» e commemorando la giovane martire Neda inondando il cielo di palloncini verdi. Questo significa che a volere quel "cambiamento di regime" cui Obama ha rinunciato, o almeno la cacciata dell'attuale gruppo di potere, sono ormai anche molti esponenti dell'establishment iraniano e la parte più avanzata e dinamica della popolazione: non sono strutturati in un partito, non hanno tutti gli stessi obiettivi, non hanno ancora la forza per sconfiggere il brutale apparato repressivo schierato contro di loro, ma certamente rappresentano il domani.
Ahmadinejad ha invitato perentoriamente Obama a non interferire negli affari interni del suo Paese e la propaganda ufficiale sta facendo il possibile per addossare la responsabilità dei disordini ai servizi occidentali. Un giornale governativo è arrivato ad accusare la Bbc di avere organizzato l'omicidio di Neda per realizzare un reportage. Nel comunicato di Trieste - condizionato dalla necessità di accordarsi con la Russia - il G8 si è limitato a deplorare la violenza postelettorale e a esortare Teheran al rispetto dei diritti fondamentali, ma si è astenuto dal pronunciarsi sulla regolarità delle elezioni, con l'evidente intento di lasciare la porta aperta al dialogo anche con un presidente che non ha più il consenso del suo popolo. A caldo, non era forse possibile fare altrimenti. Ma se Ahmadinejad continuerà a massacrare gli oppositori, a rifiutare ogni trattativa sul nucleare, a minacciare Israele e - in un discorso segreto trapelato in Occidente - annunciare una prossima rivoluzione planetaria, sarà opportuno esaminare la possibilità di sostenere la rivoluzione sociale, politica e culturale che potrebbe sbarazzarci di lui una volta per sempre.

CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " Joan Baez a Teheran "

 Il G8 di Trieste non è stato molto duro con il regime iraniano

Sull'Iran il G8 di Trie­ste ha fatto il massi­mo di quello che po­teva fare, cioè non molto. Nel comunicato ven­gono deplorate le violenze del dopo-elezioni e si chie­de il rispetto dei diritti umani. Parole che possono sembrare insufficienti. Ma due motivi impedivano di andare oltre. Non si voleva uno scontro con la Russia, che comunque ha accetta­to espressioni mai prima sottoscritte. E soprattutto occorreva lasciare aperto lo spiraglio nel quale Ba­rack Obama aveva infilato la sua mano tesa.
La posizione del presi­dente Usa si va facendo ogni giorno più difficile. Al­le prime manifestazioni di protesta e alle prime vitti­me della repressione Oba­ma aveva reagito con gran­de cautela. Poi le violenze delle milizie pro Ahmadi­nejad sono diventate intol­lerabili, e il volto coperto di sangue della giovane Ne­da ha fatto il giro del mon­do diventando la bandiera di una rivolta di popolo. Obama ha allora alzato il to­no, fino a parlare, come ha fatto ieri, di oltraggio alle regole internazionali e di brutalità senza limiti delle autorità di Teheran.
Nessun capo della Casa Bianca avrebbe potuto fare diversamente. Ma Barack Obama, ed è qui il legame con Trieste, non ha mai detto che la sua disponibili­tà al dialogo veniva revoca­ta, non ha mai messo una croce definitiva sulla spe­ranza di prevenire la poten­ziale minaccia nucleare ira­niana con il metodo del ne­goziato.
La linea di Obama è giu­sta: davanti al calvario di Teheran l'Occidente deve riaffermare i propri valori senza troppi peli sulla lin­gua, e nel contempo non deve tornare a quella dottri­na bushiana del «non si parla con» che tanti guasti ha prodotto e che nessuno applica fino in fondo.
Ma è proprio qui, è su questa mano tesa malgra­do tutto, che Ahmadinejad fa ora piovere i suoi veleni. Nei giorni scorsi, mentre i blog di Teheran riferivano di massacri non verificabi­li, il presidente iraniano si è scagliato contro Gran Bre­tagna e Stati Uniti. La Bbc è diventata una organizzazio­ne sovversiva. Si è provve­duto ad allontanare due di­plomatici inglesi. È stato ti­rato in ballo un complotto della Cia. Gli Usa sono stati accusati di ingerenza, e Obama di «parlare come Bush». È stato resuscitato, insomma, il vecchio Sata­na a stelle e strisce che per decenni ha nutrito il nazio­nalismo iraniano.
Scaricare all'esterno le tensioni interne è un classi­co. Ma in questo caso il gio­chetto di Ahmadinejad può avere conseguenze gra­vi, come se non bastasse la tragica perdita di vite uma­ne che ha insanguinato Teheran. Nessuno, nemme­no Obama, potrà superare in poco tempo la somma negativa delle pesanti accu­se pubbliche all'America e della repressione armata. Il negoziato nucleare, am­messo che un giorno ci sia, è rinviato per esigenze poli­tiche. Ma nella vicenda del nucleare iraniano il tempo è un fattore cruciale, per­ché al di là dei morti e del­le rampogne l'arricchimen­to dell'uranio prosegue. Obama per primo, così, po­trebbe trovarsi un giorno con una sola opzione sul ta­volo: quel ricorso alla forza che tutti, Israele compreso, preferirebbero evitare.
Ancora una volta Ahma­dinejad si comporta come se «volesse» essere bom­bardato. E Obama, tra mil­le equilibrismi, deve impe­gnarsi in una ardua corsa contro il tempo per rende­re possibile una soluzione alternativa. Paradossale. Forse non ci resta che spe­rare in Joan Baez, la splen­dida voce del movimento anti Vietnam, quando tor­na a cantare il suo
We shall overcome in lingua farsi.

Il FOGLIO - Christian Rocca : "  I politici in piazza"

 
Joe Lieberman, John McCain e Lindsey Graham

New York. Ora che anche Barack Obama si è schierato senza se e senza ma con i manifestanti di Teheran, provocando la reazione stizzita di Mahmoud Ahmadinejad, i “three amigos” di Washington Joe Lieberman, John McCain e Lindsey Graham, cioè i tre senatori che negli anni Novanta hanno scritto la legge “Iraq Liberation Act”, hanno annunciato la presentazione di un’analoga iniziativa sull’Iran, a sostegno dei dissidenti che si vogliono liberare del regime teocratico degli ayatollah. La proposta dei tre senatori amplia gli sforzi pro democracy di Condoleezza Rice che nel 2006 aveva convinto il Congresso a finanziare per 75 milioni di dollari la tv via satellite in farsi e le attività dei dissidenti, dei sindacati e delle organizzazioni non governative. Lieberman, McCain e Graham non offrono soldi al popolo di Teheran, ma tecnologia e informazione. Joe Lieberman è il senatore democratico, ma eletto da indipendente, che nel 2000 ha affiancato Al Gore nella corsa alla presidenza contro George W. Bush e Dick Cheney e che quattro anni dopo è stato tra i candidati democratici alla presidenza. John McCain ha sfidato Obama alle scorse elezioni e Lindsay Graham è il senatore della Carolina del Sud, ex militare e grande amico dei due. L’iniziativa a favore degli iraniani democratici potrebbe essere discussa dal Senato subito dopo l’estate e prevede l’aumento dei finanziamenti per Radio Farda e Voice of America, i due strumenti che in queste settimane di ribellione hanno fatto circolare le informazioni. Le altre idee contenute nella proposta di legge sono un sito Internet in farsi e la diffusione di nuove tecnologie di comunicazione capaci di superare il pugno di ferro del regime. “Abbiamo visto che il regime iraniano ha cercato di impiegare le nuove tecnologie per restringere l’accesso alle informazioni, impedire l’esercizio della libertà di parola e d’associazione – ha detto Lieberman – Il governo iraniano ha disturbato le trasmissioni radiofoniche e via satellite, interrotto i servizi telefonici dei cellulari, controllato l’uso di Internet e bloccato alcuni siti Web. E ora sta cercando di sbattere la porta che un’elezione vitale aveva cominciato ad aprire. La legge che proponiamo si ispira a un principio chiaro e semplice: vogliamo che il popolo iraniano sia un passo avanti al regime, abbia accesso alle informazioni ed eserciti in modo sicuro la libertà di parola e la libertà di riunirsi on line”. McCain ha fatto un paragone storico per giustificare l’iniziativa: “Durante la Guerra fredda abbiamo fornito al popolo polacco e ai dissidenti i ciclostile. Twitter, Facebook e YouTube sono le rotative moderne e sono il modo migliore per diffondere informazioni e mantenere viva la speranza di libertà nel popolo iraniano”. I tre amigos hanno liquidato le critiche di chi sostiene che è meglio non aiutare apertamente i dissidenti perché l’appoggio esterno potrebbe ricompattare il regime. “La sinistra liberal – ha detto McCain – durante la Guerra fredda aveva avvertito che se ci fossimo schierati con quei popoli oppressi nei loro statiprigione avremmo creato le condizioni per una repressione maggiore. Quando è caduto il muro di Berlino abbiamo scoperto che noi per loro eravamo un faro di speranza e di libertà. Allo stesso modo, di nuovo, la sinistra liberal continua a sostenere che dovremmo essere gentili con il regime iraniano e che non dovremmo incoraggiare la dissidenza. Questo è in contraddizione direttae con i principi fondamentali degli Stati Uniti d’America”.

Il FOGLIO - Tatiana Boutourline : " Gli ayatollah hanno perso l’arte del “tarof” e la piazza si sente sola "

 Ahmad Khatami

Roma. Quasi tutti gli iraniani, compresi i grandi ayatollah, sono versati nell’arte del “tarof”, quell’insieme di cortesie esagerate che da duemila anni tiene insieme la loro società. Dire di sì quando si pensa no, fare offerte con la speranza che vengano rifiutate ed essere possibilisti, diplomatici ed evasivi pure nelle circostanze più difficili. Ieri alla preghiera del venerdì gli iraniani hanno avuto una conferma che questa non è una delle qualità dell’ayatollah Ahmad Khatami. “Voglio che la magistratura punisca chi guida le proteste, senza mostrare alcuna misericordia per dare a tutti una lezione”. Una raccomandazione superflua a giudicare dalle file di genitori terrorizzati che si allungano davanti al tribunale rivoluzionario di via Moallem. Il primo a rompere il tabù è stato Mahmoud Ahmadinejad: nessuno prima di lui aveva incarnato con meno ambiguità le intenzioni e le ossessioni di una parte della leadership iraniana. La sua distanza dall’arte della dissimulazione pareva un caso isolato, ma in due settimane le regole della Repubblica islamica sono saltate. E’ un segno dei tempi che anche l’ayatollah Khamenei, che deve tutto proprio a una gestione calibrata delle punizioni e delle alleanze, abbia abdicato ogni cautela e perso, forse per sempre, il gusto del “tarof”. I seyyed sono nervosi tanto quanto sono più espliciti. E mentre Khamenei grida come un Ahmad Khatami qualsiasi, gli insider trattengono il fiato in attesa di una parola di Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. Una sua dichiarazione è attesa da giorni e alcuni suoi collaboratori avevano dato per certo un annuncio per ieri. Ma il grande regista non scioglie il silenzio e c’è chi sostiene che dietro al suo mutismo si celi uno stallo. Crescono i dubbi intorno alla strategia di Rafsanjani, il cui feudo – il partito Kargozaran – è stato assaltato ieri dalla polizia: forse il Richelieu della nomenklatura ha mostrato troppo, troppo presto e forzato la mano. Mentre il popolo della piazza si chiede se abbia ancora un senso farsi sparare addosso mentre il Consiglio dei Guardiani sancisce “l’elezione del 12 giugno è stata la più sana dalla rivoluzione” e Mir Hossein Moussavi cavilla di procedure; quando i bassiji continuano a sparare, i potenti che non si sono ancora schierati hanno trovato un nuovo cavallo su cui puntare. Un uomo che incarna il volto enigmatico del regime e non ha dimenticato l’arte del “tarof”. La terza via della Repubblica islamica potrebbe essere nelle mani di Ali Larijani. In questi giorni complicati in cui anche i decani sembrano persi, il capo del Majlis non ha perso il sangue freddo e la sua calma segna una strada maestra per chi si sente a metà tra Khamenei e la piazza. Larijani ha lodato l’alta affluenza alle urne, ma criticato la violenza della repressione. Ha attaccato Londra e Washington accusandole di interferenze nelle faccende interne iraniane, ha presenziato alla preghiera del venerdì seduto accanto ad Ahmadinejad (ostentando però una certa insofferenza). Si è inerpicato in sottili distinguo tra gli hooligan e i dimostranti. E’ stato tagliente nei confronti dei media di regime e ha invocato un’apparizione tv di Moussavi. Il tentativo di Larijani di ritagliarsi un profilo autonomo nella crisi non è passato inosservato e tutti si domandano da che parte penderà nella partita tra Rafsanjani e Khamenei. L’opportunismo di Larijani potrebbe rivelarsi una merce preziosa. E’ figlio dell’ayatollah Amoli e il fratello Sadegh siede nel Consiglio dei Guardiani.

CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " Palloncini verdi in cielo. E le piazze tornano vuote "

Una calma piena di tensione è scesa su Teheran. La calma della tomba, la definisce online un manifestante che ha parteci­pato alle proteste dei giorni scorsi. «I basiji e i militari ci sor­vegliano », dice al telefono un iraniano che chiede di restare anonimo. Il governo sorveglia le strade e la Rete. Ma gli irania­ni cercano nuovi metodi di con­testazione, per far volare alti i loro simboli. Ieri palloncini ver­di si sono levati nel cielo azzur­ro di Teheran macchiato da qualche nuvola bianca. I pallon­cini portavano messaggi di so­stegno per Mir Hossein Mousa­vi, il leader dell’opposizione che si dichiara il legittimo vinci­tore delle elezioni del 12 giu­gno, e frasi in memoria di Ne­da, la ragazza uccisa il 20 giu­gno e divenuta simbolo delle proteste. Ripresi con il cellula­re, sono arrivati via Facebook e Twitter al mondo.Le autorità non si muovono di un millimetro. Il Consiglio dei Guardiani, l’organo che so­vrintende alle elezioni, che do­po le accuse di brogli aveva pro­messo un riconteggio parziale dei voti, darà domani il verdet­to. Ma un portavoce ha già det­to ieri che è stata «l’elezione più sana dalla rivoluzione». E’ la linea della Guida Suprema Ali Khamenei: il risultato resta, Ahmadinejad pure. Al sermone del venerdì, ieri c’era l’ayatol­lah Ahmad Khatami, membro ultraconservatore dell’Assem­blea degli esperti. Khatami ha invitato la magistratura a «puni­re coloro che guidano le rivolte con durezza e senza pietà, per dare a tutti una lezione». Nei giorni scorsi, il capo dell’oppo­sizione Mir Hussein Mousavi è stato accusato d’essere respon­sabile dei «disordini». I leader dei «rivoltosi» sono «moha­reb », ha detto Khatami ieri, cioè in guerra contro Dio, accu­sa per la quale è prevista la pe­na capitale. Turbante nero in te­sta, dito puntato al cielo, sotto le foto incorniciate del fondato­re della Repubblica Islamica Khomeini e di Khamenei, Kha­tami ha ricordato che quest’ulti­mo governa per volere divino. Ha attaccato la stampa stranie­ra e il governo di Londra, propo­nendo di usare lo slogan «Mor­te alla Gran Bretagna» accanto a «Morte agli Usa». E i fedeli hanno gridato: «Morte a Israe­le ». Neda, invece, sostiene Kha­tami, l’avrebbero uccisa gli stes­si dimostranti per fare propa­ganda contro il governo. In se­rata, la tv di Stato avrebbe man­dato in onda il padre o, secon­do altre fonti, l’insegnante del­la ragazza, che rimprovera pro­prio loro per la sua morte.
Le autorità colpiscono i sim­boli dell’«Onda verde». Mousa­vi non guida una manifestazio­ne da oltre una settimana. A un suo addetto alla comunicazio­ne, Abdolfazl Fateh, è stato im­pedito ieri di partire per Lon­dra, «a causa dell’inchiesta sui recenti assemblamenti». In un messaggio agli iraniani su Face­book, Mousavi dichiara che «non può comunicare con
l’esterno» ma «continuerà a op­porsi ai risultati elettorali». L’al­tro ieri però sul suo sito web, poi messo K.O. da un attacco hacker, annunciava che per le proteste chiederà il permesso del governo. E il regime colpi­sce i singoli. Centinaia (o mi­gliaia) sono in carcere, gli altri isolati, braccati. Il sito www.ger­lab. ir, legato ai Pasdaran, pub­blica le foto dei manifestanti, in­vitando i lettori a identificarli. La paura cresce. «Non posso co­operare con lei o altri giornali­sti stranieri. Ho sentito che alcu­ni miei amici sono stati arresta­ti per questo», replica un irania­no contattato via Facebook. Ep­pure, a gruppetti di due e di tre, diversi iraniani sarebbero anda­ti ieri al cimitero di Teheran con un fiore per Neda. E circola­no voci su una nuova protesta.

La STAMPA - Maria Giulia Minetti : " Il regime iraniano ha i giorni contati "

 Bernard - Henri Lévy

La vera questione è ciò che si ha in testa quando si decide che la sorte del genere umano ci è indifferente o quando, all’inverso, si assume il ruolo di chi sceglie di fare come se la disgrazia degli altri lo riguardasse…». È una delle frasi-chiave di Nemici pubblici, il libro a due voci di Michel Houellebecq e Bernard-Henri Lévy (alla Milanesiana per presentarlo) in uscita da Bompiani, e chi fra i due sia quello che sceglie di fare come se la disgrazia degli altri lo riguardasse, è facile capirlo. Proprio ieri è apparsa la notizia dell’ultima «intrusione» di Lévy nella disgrazia altrui: la diffusione su internet di un video dove Ahmadinejad ringrazia un gruppo di ayatollah oltranzisti per i «servigi resi» e proclama giunto il momento di «esportare la rivoluzione islamica nel mondo».
Eppure lei si dice convinto che queste elezioni siano il principio della fine per il regime iraniano.
«Non sono sicuro ma accetto la scommessa. Certo, non credo che possa accadere da un giorno all’altro. Viviamo in un’epoca di tempi corti. O le cose accadono subito o sembra che non debbano più accadere. Provi a chiedere in giro: la gente crede che la rivoluzione di Khomeini sia accaduta in un lampo. C’è voluto un anno».
C’è anche l’ipotesi Tien An Men…
«C’è anche quell’ipotesi, ma io mantengo la mia scommessa. Perché credo che il regime islamista in Iran sia “rotto”. Riposava su un’unità vera. Ma oggi quell’unità è di facciata. E dal giorno in cui Khamenei ha deciso di appoggiare il risultato delle elezioni ha perso il suo ruolo di arbitro. Il conto alla rovescia è cominciato a partire da quel giorno».
Il suo «engagement» è inesausto. L’Iran è solo l’ultima causa di una serie densissima, Algeria, Bosnia, Afghanistan, Pakistan, Darfur…
«Non sono solo interventi sporadici, prese di posizione sui giornali. Se mi dedico a una causa mi metto a disposizione completamente».
E dunque mi stupisco che in questo libro si sia messo a dialogare con Houellebecq, il suo perfetto opposto.
«Niente è più stimolante per uno scrittore che mettersi alla prova con uno che ha idee diverse. E poi ritengo Houellebecq uno degli scrittori migliori d’Europa. Mettiamola così: è uno degli scrittori che più rispetto ed è uno degli scrittori con cui più sono in disaccordo».
A che serve il dibattito?
«È una grande opportunità, per chi scrive. Un modo di “mettere in pericolo” le proprie idee. Farle vacillare, creare “intranquillità” nella propria testa…».
Intranquillità?
«È una parola di Pessoa».
A volte sembra che lo scopo di Houellebecq sia soprattutto quella di «andare a vedere» fino a che punto può spingersi con la provocazione.
«È la definizione di un buon intellettuale. Andare a vedere fin dove la provocazione ti porta, a partire da dove diventa debolezza… È questo il buon uso delle idee».
Una delle idee di Michel Houellebecq è che la religione musulmana sia responsabile della degenerazione terrorista.
«È un’idea completamente sbagliata, da cui dissento radicalmente».
Da cosa dipende secondo lei il terrorismo islamico?
«Dalla politica. Bisogna avere il coraggio di dire ad alta voce che c’è un fascismo in senso proprio nel mondo musulmano. Ed è vivo perché non è mai stato pensato come tale. Al contrario di quanto è successo in Italia, Germania, Francia dove la questione è stata pensata, elaborata, sviscerata».
Un fascismo in senso proprio?
«Mistica nazionalista, culto della forza, ossessione della purezza, antisemitismo… Il movimento dei Fratelli Musulmani appare contemporaneamente ai fascismi europei, ne è l’incarnazione mediorientale».
Ma a differenza di quanto è successo in Europa questo fascismo, lei dice, non è stato chiamato col suo nome e poi «superato».
«Il mondo arabo musulmano non ha fatto questo lavoro. Hanno un fascismo tanto più pericoloso in quanto non è mai stato riconosciuto come tale. Ma è una questione politica, in ogni caso, non religiosa. Ho trovato particolarmente disgustoso, quando è uscito, il libro di Oriana Fallaci (La rabbia e l’orgoglio, ndr). Un libro razzista che attaccava la religione musulmana. Io attacco una politica che chiamo fascista e ha una forma pakistana, iraniana, afgana eccetera».
La religione, però, viene abbondantemente usata da questi fascismi.
«Si ricorda la frase di Kant “Limitare il sapere per far posto alla fede”? Nel nostro caso proporrei di cambiarla così: “Limitare la fede per far posto alla politica”. Ma in ogni caso una cosa io so e credo: i musulmani sono miei fratelli, i fascisti sono i miei avversari».
Fede e politica sono tutt’uno nell’Islam. Lo Stato è legittimato da Dio. La sua legge è la legge dello Stato.
«No, deve cambiare, può cambiare. Guardi la Bosnia. Perché mi ha interessato? C'erano là dei musulmani che avevano rotto il paradigma».
L’aveva fatto anche il Baath in Siria e in Iraq.
«Sì, però erano fascisti».
Aspettiamo l’Iran?
«Io ho molta fiducia».

La REPUBBLICA - Giampaolo Cadalanu : "A Roma il gay perseguitato "Adesso l´asilo politico"  "


Non ci sono omosessuali in Iran...non più

ROMA - Vahid è stremato, ma felice. È tornato in Italia, ha riabbracciato il compagno, ha ringraziato gli attivisti del gruppo EveryOne che avevano seguito il suo caso, stimolando persino un intervento di Gianfranco Fini oltre che della Farnesina. Ha passato qualche ora in meditazione, poi è uscito a respirare l´aria di Roma.
Vahid, dopo essere stato fermato come clandestino in Francia ha temuto di dover affrontare un processo in Iran e la possibile pena capitale?
«Certo, ero molto spaventato. So che in questo momento nel mio paese per i gay è ancora più difficile, con la lotta per la presidenza».
Com´è andata nel centro clandestini francese? L´hanno trattata bene?
«Ci sono rimasto quasi un mese. Mi hanno trattato bene, ma ero rinchiuso, come in un carcere. E avevo paura».
Sul suo caso c´è stata una grande mobilitazione in Italia. Ora conta di chiedere di nuovo asilo politico nel nostro paese?
«Sì, penso di sì. Devo ancora parlare con il mio avvocato, devo vedere, ma credo che sì, chiederò di nuovo asilo politico in Italia».
Secondo lei, in Europa i diritti dei gay sono rispettati? E in Italia in particolare?
«Certamente in Europa la situazione è ben diversa da quella iraniana. In Italia... beh, so che ci sono paesi dove i gay sono trattati meglio».
Quali?
«La Spagna per esempio. La Gran Bretagna, l´Olanda».
Ma perché in Iran c´è un accanimento così forte contro i gay?
«I religiosi dicono che l´omosessualità è contro la religione. Dicono che amare una persona dello stesso sesso non è giusto, che è male, è brutto. E dicono che questo è scritto nel Corano. Ma io non credo che sia così».
E i parenti?
«Certe volte le famiglie non vogliono vedere, rifiutano persino di sentirne parlare».
Su un forum web britannico si legge che per i gay Moussavi o Ahmadinejad sono la stessa cosa. È d´accordo?
«No, Moussavi è più democratico, Ahmadinejad è un dittatore. Non sono la stessa cosa».
Se potesse parlare agli amici gay rimasti in Iran, che cosa direbbe loro? Di impegnarsi a lottare, o di andarsene dal paese?
«Gli direi di andar via, di realizzare la propria vita altrove. Come possono cambiare le cose da soli? Non possono farcela solo loro. L´Iran può cambiare solo se tutti lotteranno assieme».

L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " L’Italia ha sbagliato sull'invito all'Iran. I diritti prima di tutto "

 Vittorio Emanuele Parsi

La gran parte delle persone che a Teheran rischiano la vita per protestare, non lo fanno per vedere Mousavi al posto di Ahmadinejad, ma perché rivendicano libertà e democrazia. E queste due cose sono incompatibili con il regime iraniano». A sostenerlo è Vittorio Emanuele Parsi, ordinario di Relazioni Internazionali all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Il ministro degli Esteri Franco Frattini e i suoi omologhi riuniti a Trieste, hanno giudicato l’assenza al summit dell’Iran , come un’occasione persa. È anche lei di questo avviso?
«Direi proprio di no. Personalmente ero già perplesso per l’invito all’Iran quando c’erano già i primi morti. Più che perplesso, ero decisamente contrariato. Credo anche che sarebbe stato opportuno dire esplicitamente che l’invito era ritirato senza aspettare che fossero gli iraniani a declinarlo. In ogni caso, le condizioni politiche in cui quell’invito era stato pensato, erano radicalmente cambiate in peggio. E questo per volontà esclusiva del governo iraniano, che ha fatto sparare sui suoi cittadini inermi».
Quanto pesano gli affari che l’Italia ha imbastito con l’Iran sulla risposta politica alla brutale repressione di Teheran?
«Gli affari sono stati tenuti in grande considerazione nella politica verso l’Iran, da parte dell’attuale governo come di quelli precedenti. Come noi non dobbiamo interferire nella politica interna di un Paese, e come dobbiamo trattare anche con governi non democratici, se questo è nel nostro interesse nazionale, però noi dobbiamo anche mandare segnali chiari su quello che dal nostro punto di vista è inaccettabile. E se alcuni governi fanno cose tremende, noi non li dovremmo premiare facilitando la loro completa integrazione nella comunità internazionale.».
Insisto su questo punto. Il titolare della Farnesina ritiene importante, se non decisivo, il coinvolgimento dell’Iran nella stabilizzazione di fronti esplosivi, come quello afghano.
«Mi permetto di dissentire. Nel senso che non sopravaluterei il ruolo dell’Iran in Afghanistan. E poi mi chiederei anche quale credibilità può avere su un dossier delicato come quello del nucleare, un regime come quello iraniano che reprime con la forza il diritto di manifestare dei suoi stessi cittadini».
Come leggere l’«onda verde» di Teheran? Si può ridurre il tutto a un regolamento di conti interno al regime?
«Assolutamente no. C’è anche questo aspetto, ma la situazione è profondamente cambiata. All’inizio c’è stato un disegno politico da parte di Ahmadinejad finalizzato a dipingere Mousavi come un liberale, un riformatore la cui vittoria poteva mettere a rischio il regime. Quando la Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, si è convinto di questo - cioè che il referendum su Ahmadinejad rischiava di trasformarsi in un referendum sul regime - ha deciso di coprire i brogli e tutto quello che è successo dopo il voto, nella speranza di poter reprimere facilmente la protesta...».
Un calcolo sbagliato?
«Ora il movimento è già oltre le posizioni, e forse anche gli intendimenti, di Mousavi. Le persone che scendono in piazza, pensano che è possibile determinare, se non oggi in un futuro non lontano, la caduta del regime. Anche perché i morti li hanno esasperati e hanno mostrato la vera faccia criminale del regime».
Quale segnale dovrebbe lanciare oggi l’Occidente verso Teheran?
«In questo momento bisogna fare molta attenzione a non commettere l’errore di fornire al regime il pretesto di un complotto internazionale” ordito contro l’Iran. Contemporaneamente, credo che occorra favorire tutte le forme di sostegno al movimento che si è creato in Iran. Questo sarebbe anche il momento in cui, se esiste davvero una società civile europea che abbia davvero a cuore democrazia e libertà, sempre e ovunque, che questa società si mobilitasse per non far sentire isolati i giovani e le donne di Teheran. Il regime sta cercando di utilizzare l’isolamento per soffocare la rivolta. Noi dobbiamo continuare a mantenere le “finestre” aperte sull’Iran».

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