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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio - Libero - La Repubblica Rassegna Stampa
26.06.2009 Il regime iraniano continua ad accusare l'occidente di interferenze e a reprimere i manifestanti
Cronache e analisi di R. A. Segre, Maurizio Molinari, Paolo Lepri, Redazione del Foglio, Francesco Ruggeri, Davide Frattini, Cecilia Zecchinelli

Testata:Il Giornale - Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio - Libero - La Repubblica
Autore: R. A. Segre - Paolo Lepri - Davide Frattini - Cecilia Zecchinelli - Stefano Montefiori - Maurizio Molinari - Enzo Bettiza - La redazione del Foglio - Francesco Ruggeri - Francesca Caferri
Titolo: «Una rivolta che fa tremare i Paesi islamici - movimento virtuale non basta. L'Iran ha bisogno di sfilate e sit-in - G8 di Trieste, l’Iran contro tutti - Il video clandestino di Ahmadinejad. 'La nostra rivoluzione è planetaria' - Mojtaba, l’uomo forte si»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 26/06/2009, a pag. 14, l'analisi di R. A. Segre dal titolo " Una rivolta che fa tremare i Paesi islamici ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 10, l'analisi di Paolo Lepri dal titolo " Il movimento virtuale non basta. L'Iran ha bisogno di sfilate e sit-in ", a pag. 13, gli articoli di  Davide Frattini e Cecilia Zecchinelli titolati " G8 di Trieste, l’Iran contro tutti  " e " Il video clandestino di Ahmadinejad «La nostra rivoluzione è planetaria»  ", e l'intervista di Stefano Montefiori a Paulo Coelho dal titolo " Il messaggio di Coelho «Iraniani, non siete soli» ". Dalla STAMPA, a pag. 3, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "  Mojtaba, l’uomo forte si prepara nell’ombra " e, a pag. 1-43, l'articolo di Enzo Bettiza dal titolo " La profezia dello Scià  ". Dal FOGLIO, a pag. 1, gli articoli titolati " La democrazia è contagiosa " e " L’asse della ferocia tra Khamenei e i pasdaran regge anche grazie all’aiuto degli alleati all’estero  " e, a pag. 3, l'editoriale dal titolo "  Il realista assalito dagli ayatollah  ". Da LIBERO, a pag. 18, l'articolo di Francesco Ruggeri dal titolo " Sondaggi e una faccia da tv. Le ragioni di Ahmadinejad " preceduto dal nostro commento. Dalla REPUBBLICA, a pag. 6, l'intervista di Francesca Caferri a Aaron Rhodes, portavoce di Human Rights Watch, dal titolo " Diritti umani, adesso è allarme 'Un torturatore capo delle indagini' ".

Il GIORNALE - R. A. Segre : " Una rivolta che fa tremare i Paesi islamici "

 R. A. Segre

La rivoluzione che scuote l'Iran ha qualcosa di nuovo e di antico. Di nuovo perché dimostra che nello scontro fra popolo e teocrazia la moschea non riesce a neutralizzare con la violenza delle armi la non violenza elettronica delle masse. (l'uso dei messaggi tweet nei telefonini è ciò che anche distingue la Piazza dei Martiri di Teheran dalla piazza Tienanmen di Pechino). Di vecchio, dopo le fallite rivoluzioni nazionaliste arabe di Nasser, del Baath siro-iracheno e di Arafat, in questa rivolta di popolo per la libertà c'è qualcosa delle rivoluzioni europee del 1848, nel senso che contagerà i regimi autocratici medio-orientali provocando - come avvenne in Europa col passaggio dallo Stato dinastico allo Stato nazional-democratico - l'apparizione di Stati basati su legittimità diverse dalle attuali. In attesa di saperne di più cerchiamo di identificare i fattori di combustione più evidenti di questa straordinaria e tragica epopea.
1. In Iran, sono in corso due lotte. La lotta della strada contro la moschea e la lotta dentro la moschea. In quest'ultima la «vecchia guardia religiosa» dei compagni di Khomeini (Moussavi, Rafsanjani ecc.) vuol difendere i propri privilegi e le ricchezze acquisite ma non abbattere la teocrazia. Tra la «nuova guardia» guidata da leader più giovani come Ahmadinajad e dal figlio della «Guida suprema» Khamenei, la preoccupazione per la legittimità religiosa è inferiore a quella per il mantenimento del potere. In questo senso potrebbero definirsi «laici» e, alla rovescia, ricordano qualcosa dello scontro fra Trotzky e Stalin all'interno della «chiesa» comunista.
2. Anche se la rivolta per la libertà verrà soffocata nel sangue in Iran, il fatto che le masse, anche senza leader e idee ben precise, possano sfidare con «twitter» e con l'appoggio dell'opinione pubblica globalizzata, i manganelli e i fucili dei pretoriani del regime, fa tremare i leader dei paesi arabi musulmani dal Marocco al Pakistan. Il trasferimento del grido di battaglia «Allah Akbar» dal campo degli islamo-fascisti a quello degli islamo-liberali è una scossa tellurica per la moschea politica di cui è ancora difficile intuire le conseguenze...
3. Nell'immediato, i perdenti sono i clienti esterni del regime iraniano, gli Hezbollah del Libano e Hamas a Gaza. Con una ripetizione a rovescio e da farsa dell'invio dei «volontari» fascisti nella guerra civile spagnola, queste organizzazioni militanti islamiche hanno inviato gruppi di «volontari» per reprimere la rivolta a Teheran.
Di converso Israele appare temporaneamente vincente vedendo stornata l'attenzione internazionale dalla questione palestinese e diminuita la pressione di Washington sugli insediamenti. Per tastare le reazioni americane, Netanyahu ha autorizzato da un lato la costruzione di 300 nuove abitazioni nelle colonie ebraiche ma dall'altro ha indorato la pillola agli americani e ai palestinesi smantellando decine di posti di blocco che ostacolavano i movimenti in Cisgiordania.
4. Obama deve affrontare una situazione difficile e per lui imbarazzante. La sua strategia della mano tesa si è scontrata con un muro di ostilità e sospetto a Teheran. La Guida Suprema venerdì scorso ha svelato con disprezzo la lettera che Obama gli aveva inviato in tutta segretezza per sviluppare quel «dialogo col nemico» che a Gerusalemme ricorda l'illusione pacifista di Chamberlain con Hitler. Obama non è certo Chamberlain, ma si rivela più debole di quanto la sua carismatica personalità faccia pensare. Ha spedito una missione a Pechino per assicurarsi che in caso di proposta di condanna dell'Iran al Consiglio di sicurezza la Cina non ponga un veto che la trasformerebbe assieme alla Russia nel vero manipolatore delle crisi medio-orientali. Ha spedito un'altra missione in Siria, dove ha riaperto l'ambasciata a Damasco per controllare da vicino il Paese.
5. L'Europa sta sorprendendo molti suoi critici con prese di posizione contro il regime di Teheran che grazie al suo peso economico potrebbero dimostrarsi più efficaci di quello di Washington. Si apre comunque per la Comunità un’occasione per ridare un lustro al suo prestigio politico.
6. Resta infine pericolosamente aperta la questione del nucleare. Chiunque vinca in Iran, non accetterà di sottoporre al controllo straniero una industria che si è trasformata in simbolo di orgoglio e potenza nazionale. Attualmente il nucleare è nelle mani di Ahmadinejad e dei Pasdaran. Assumerne la responsabilità potrebbe essere una tentazione per l'esercito che sino a ora si è tenuto fuori dalla mischia, in attesa che emerga il vincitore. Non sarà una sorpresa se alla fine questa rivolta risveglierà la vocazione nazionale persiana in opposizione a quella attuale rivoluzionaria islamica.

CORRIERE della SERA - Paolo Lepri : " Il movimento virtuale non basta. L'Iran ha bisogno di sfilate e sit-in "

Neda in farsi vuol dire «voce». Hanno ucciso Neda in una piazza di Teheran, ma la voce di questa ragazza che voleva la democrazia si sta facendo sentire molto forte nel mon­do, come una musica ribelle, tradotta in tutte le lingue possibili del nostro im­maginario. E il suo volto macchiato di sangue è diventato il simbolo di una protesta che corre sul web, che cresce di ora in ora, di minuto in minuto, con una forza e una dimensione fino a que­sto momento sconosciute.
«Per la prima volta assistiamo al for­marsi di una consapevolezza universa­le su ciò che sta accadendo. L’opinione pubblica di tutto il mondo — osserva lo scrittore brasiliano Paulo Coelho in un’intervista al Corriere — segue i fatti di Teheran con una partecipazione ine­dita perché la tecnologia permette di in­teragire con i giovani iraniani. Internet e Twitter sono strumenti molto poten­ti ». È vero. Addirittura c’è chi pensa — e sono molti, per esempio, i contributi in questa direzione apparsi su Huffin­gton Post — che questa piazza virtuale
sia
«il movimento». Certo, si tratta di una grande novità. Questa mobilitazione sta coinvolgendo un numero inatteso di persone, soprat­tutto giovani, e rappresenterà sicura­mente una tappa storica nell’evoluzio­ne dei media e del loro rapporto con la realtà. Ma sarà sufficiente per incrinare la tenace resistenza della teocrazia ira­niana che tra l’altro è già riuscita, con la repressione e la censura, a limitare le fonti di questo movimento? Forse no, forse non sarà sufficiente.
Il «nuovo movimento» potrebbe non bastare. Servono anche volti, voci, persone in carne e ossa, uomini giusti. Sfilate e cartelli, sit-in e digiuni. Solo una pressione di questo tipo può smuo­vere i governi che ragionano esclusiva­mente in termini di
realpolitik, può iso­lare gli amici vecchi e nuovi degli ayatollah, può dare forza a tutti coloro che, nel mondo, sono solo spettatori di elezioni-farsa, può dare speranza a chi è privato dei propri diritti, può dare an­cora più coraggio ai protagonisti del­l’onda verde che sta facendo tremare Mahmoud Ahmadinejad.

CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli : " Il video clandestino di Ahmadinejad «La nostra rivoluzione è planetaria» "

«Un vero discorso di ispirazione fascista- messianica, perché seppur in modo diverso dal nostro in Europa quel mélange di culto della forza e di ossessione della purezza altro non è: fascismo». «Un chiaro annuncio del progetto di rivolgimento planetario e di esportazione della rivoluzione islamica nel mondo: terrificante». Bernard-Henri Lévy, noto filosofo e intellettuale francese, impegnato in politica nonché reporter, non ha dubbi sull’importanza del video appena uscito clandestinamente dall’Iran e di cui è venuto in possesso.
«Un documento straordinario» che riprende il presidente Mahmoud Ahmadinejad mentre arringa, con voce sommessa, una quindicina di religiosi iraniani in turbante bianco o nero, alla presenza del suo mentore, l’ayatollah oltranzista Mesbah Yazdi. «Ho deciso di mettere quel filmato sulla mia pagina di Face­book — spiega Lévy al Corriere — per­ché la gente deve sapere. E perché i gio­vani e l’opposizione in Iran non vanno lasciati soli in questo momento. È un at­to di solidarietà come cittadino, anche se non so chi l’abbia ripreso, nè chi l’ab­bia inviato».
Nel video, oltre dieci minuti di au­dio e immagini scadenti, probabil­mente filmato di nascosto con il tele­fonino da un partecipante, Ahmadi­nejad sussurra con voce e occhi bassi rivolgendosi ai «cari» invitati, seduti a un tavolo ingombro di fiori e micro­foni. Dice di essere a Qom, la città santa sciita dove risiede e predica Mesbah Yaz­di (e molti altri ayatollah anche del­l’opposizione, come Ali Montaze­ri o Yousef Sanei). Ringrazia i presenti per i «servigi» offerti, dice che questi serviranno a pre­parare finalmente una «grande vittoria, perché i tempi sono pro­pizi ».
«Non sappiamo quando sia avve­nuto l’incontro ma penso che fosse il 13 giugno, all’indomani delle elezioni — dice Lévy —. Quel ringraziamento ri­guarda i brogli che hanno hanno con­sentito al presidente di 'vincere', anche se qualcuno tra i miei amici iraniani pensa sia precedente al voto e che il
grazie sia invece per la preparazio­ne delle elezioni truccate. Ma se i tempi sono ambigui, non lo è il resto: la 'grande vittoria' di cui parla Ahmadi­nejad è la futura esportazione della rivo­luzione islamica nel mondo che il presi­dente sogna da tempo. Un progetto terri­ficante. Un video che fa ancora più im­pressione di quelli sulle proteste a Tehe­ran ».
Nel consueto mix di Corano e politi­ca, toni profetici e apparente umiltà, Ah­madinejad si dice in effetti certo che «la rivoluzione islamica ha ormai trovato la sua strada e un grande rivolgimento è iniziato: avrà dimensioni planetarie poi­ché il mondo ha sete di cultura musul­mana, come diceva sempre l’Imam Kho­meini ». Il movimento, di cui lui si dice «solo uno dei partecipanti», ha una «for­za immensa». «E se qualcuno pensa che l’organizzazione o le forze armate a no­stra disposizione non siano sufficienti — continua Ahmadinejad sussurrando monotono — ebbene si sbaglia, poiché la logica comune non si applica a movi­menti come questo, sostenuti dalla vo­lontà e dalla misericordia divina».
Se da un lato Ahmadinejad si dichia­ra certo del «sostegno di Dio», dall’altra chiede però ai presenti di fare il possibi­le per rafforzare il movimento: «Biso­gna mobilitare tutti i potenziali intellet­tuali e manager per realizzare la legge e la giustizia dell’Islam e instaurare una società sul modello islamico nella no­stra cara patria», dice, convinto come Yazdi che lo spirito della Repubblica Isla­mica in Iran si sia perso, e che prima di esportare la rivoluzione nel mondo si debba far pulizia in casa.
Poi parla del popolo iraniano «che nel suo insieme non è malvagio» anche se «chi si basa su analisi e non su Dio non è certo un illuminato», e se «tutti quei giovani cresciuti in casa e a scuola non sanno niente dei grandi avvenimen­ti. Che noi, umani e maturi invece cono­sciamo
». Discorsi che preludono a un golpe, co­me qualche commentatore iraniano su siti e forum sostiene?, chiediamo a Lévy. «Non saprei, difficile dirlo — ri­sponde lui —. Ma di certo so che il regi­me è condannato. Se cercate in archivio gli articoli che il filosofo Michel Fou­cault scrisse proprio per il Corriere della Sera nel 1979, vedrete che dall’inizio delle proteste alla caduta dello Scià pas­sò un anno. Ci volle del tempo allora, ce ne vorrà adesso. Ma alla fine accadrà».

CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " G8 di Trieste, l’Iran contro tutti  "

 Franco Frattini e Sergej Lavrov

TRIESTE — «Sto incontran­do Sergej Lavrov». La notifica in tempo reale, via iPhone per­sonale, non racconta le difficol­tà che Franco Frattini deve an­cora affrontare per convincere Mosca ad appoggiare un docu­mento di «dura condanna» del­la repressione in Iran. «L’isola­mento di Teheran è un approc­cio sbagliato», dice il ministro degli Esteri russo. «Nessuno vuole sanzionare come si sono svolte le elezioni». E su questo (forse) sono tutti d’accordo. Anche chi come Gran Breta­gna, Germania e Francia spin­ge perché dall’incontro di Trie­ste esca un atteggiamento «fer­mo », perché il movimento di contestazione è «profondo e prolungato: tra l’ingerenza e il non fare nulla, il margine è stretto», spiega da Parigi Ber­nard Kouchner, prima di vola­re in Italia.
Trieste è sotto la pioggia, che lucida ancora di più le stra­de chiuse al traffico e con i po­chi pedoni a permesso specia­le. Tra piazza Unità d’Italia e la vecchia Stazione marittima, so­no spariti i cassonetti dei rifiuti e i cartelli stradali. Le indicazio­ni per la riunione dei ministri degli Esteri prova a darle Fratti­ni, quando annuncia «mostre­remo una posizione chiara da­vanti al mondo. La Russia non farà mancare il suo sostegno. Nessuno pensa di ricontare le schede. Vogliamo una risposta iraniana sul risultato elettora­le, non l’abbiamo ancora avuta. Ora ci preoccupa la violenza e su questo sono certo che avre­mo un buon documento».
Poche ore prima della cena inaugurale, il fronte sembra meno compatto. La Farnesina nega la frattura, quello che c’è di «comune» è la «sensibilità»: «I Paesi vogliono trovare un equilibrio tra il forte messag­gio contro le violenze di questi
giorni e la necessità di non chiudere la porta all’Iran e man­tenerla invece il più possibile aperta per il futuro», commen­ta il portavoce Maurizio Massa­ri. Dopo la cena, fonti diploma­tiche riferiscono che i ministri degli Esteri sono orientati a «esprimere rammarico per la violenza» in Iran e a chiedere al­le autorità di rispettare i «dirit­ti fondamentali» inclusa la «li­bertà di espressione».
Sono gli ayatollah che non sembrano interessati a infilar­si negli spiragli. Da Teheran, ar­riva la versione ufficiale della mancata partecipazione all’in­contro di Trieste. Poche paro­le: «È colpa dell’Italia», che ave­va invitato la delegazione per il ruolo che l’Iran può giocare in Afghanistan, uno dei temi principali del vertice. «Roma non ha agito secondo gli accor­di — accusa un portavoce del ministero degli Esteri —. Grup­pi di esperti iraniani e italiani avrebbero dovuto negoziare per preparare il terreno a un nostro utile intervento, non è stato permesso». Massari riba­disce: «Siamo stati noi per pri­mi a pensare a un coinvolgi­mento dell’Iran, gli avvenimen­ti di questi giorni hanno creato un quadro molto più comples­so ».
Il regime insiste ad accusare l’Occidente di interferenze. Mahmoud Ahmadinejad ha in­timato a Barack Obama di smetterla (il leader americano aveva detto di «essere allibito e indignato» per le violenze). «Se questa è la tua posizione, non ci sarà più niente di cui parlare. Pensi che così potrai risolvere i tuoi problemi? Non otterrai nessun risultato, se non quello che la gente ti con­sidererà simile a Bush», procla­ma il presidente dichiarato vincitore dal conteggio ufficia­le. «Sono loro che devono con­centrarsi sulla soluzione a quello che sta succedendo — replica la Casa Bianca —. Non possono dare la colpa a noi».
A Trieste, gli europei do­vrebbero anche trovare una posizione comune sull’apertu­ra delle ambasciate in Iran ai feriti e ai rifugiati. A dodici giorni dall’inizio delle prote­ste, «non ne abbiamo ancora discusso», ammette Benita Fer­rero- Waldner, commissario al­le Relazioni esterne dell’Unio­ne.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Mojtaba, l’uomo forte si prepara nell’ombra "

 Mojtaba Khamenei

Di lui esistono poche fotografie, l’età è incerta fra i 40 e 50 anni e nessuno è in grado di dire con certezza quale titolo islamico possieda o quali mansioni svolga nel governo ma tanto i manifestanti di Teheran che gli analisti di Washington hanno pochi dubbi sul fatto che sia lui l’eminenza grigia della repressione. Mojtaba Khamenei, figlio della Guida Suprema della rivoluzione iraniana, è chiamato dai giovani dell’onda verde la «porta d’accesso al padre» mentre per Mehdi Khalaji, iranista del «Washington Institute» è «l’alleato più importante di Mahmud Ahmadinejad nel progetto di liquidare la vecchia guardia khomeinista» alla quale Mir Hossein Mousavi appartiene, essendo stato premier dal 1981 al 1989.
Le testimonianze raccolte nelle strade di Teheran individuano in Mojtaba il super-burocrate, cresciuto in una casa perennemente protetta dai servizi segreti, riuscito a farsi spazio nell’esoterico sistema di potere della Repubblica Islamica diventando l’influente punto di riferimento di tutti i più importanti alleati del padre: il ministero dell’intelligence, le milizie del Basij, le Guardie rivoluzionarie più ideologizzate, i fedelissimi del presidente Mahmud Ahmadinejad e leader laici come Gholam Ali Haddad-Adel, l’ex presidente del Parlamento di cui ha sposato la figlia. Ciò che accomuna questa coalizione è rappresentare quella che Ali Ansari, capo degli studi iraniani all’Università scozzese di St Andrews, definisce la «generazione post-rivoluzionaria» composta da individui ideologizzati, millenaristi al punto da condividere con Ahmadinejad l’idea della reincarnazione del XII imam sciita, passati per le trincee della guerra contro l’Iraq e determinati a strappare il controllo della Repubblica Islamica ai leader khomeinisti della prima ora, protagonisti della presa del potere nel 1979.
Non è un caso che Khamenei e Ahmadinejad siano impopolari a Qom, la città santa sciita, roccaforte del blocco politico-religioso khomeinista della «Società del Clero Combattente» che in occasione delle ultime elezioni ha evitato di appoggiare uno specifico candidato, facendo così trapelare la contrarietà ad Ahmadinejad. «Mojtaba ha vissuto a Qom - racconta Khalaji, che vi ha studiato - ma non ha mai ottenuto i più importanti titoli religiosi islamici sebbene si vesta e comporti come un ayatollah», con atteggiamenti che fanno aumentare l’irritazione del clero.
Lo scontro fra la vecchia guardia khomeinista e la generazione post-rivoluzionaria ha in palio ciò che più conta: la successione a Khamanei ovvero chi sarà la nuova Guida Suprema della Repubblica Islamica. Poiché Khamenei venne personalmente indicato come erede da Khomeini, Mojtaba punta a ripetere quel precedente venendo designato dal padre, arrivato alla soglia dei 70 anni. Quando i media iraniani si riferiscono a Khamenei come all’«Ali del nostro tempo» avvalorano tale scenario perché il riferimento è all’Imam Ali, il primo degli sciiti, che lasciò il regno al figlio Hassan. Ma la trasformazione dell’Iran in una sistema nepotista sul modello della Nord Corea - dove Kim Il Sung designò Kim Jong Il che ora indica il figlio 26enne Kim Jong Un - non piace ai custodi del khomeinismo che, costituzione iraniana alla mano, ritengono che a designare il nuovo Leader Supremo debbano essere gli 86 esponenti del clero che siedono nell’Assemblea degli Esperti, presieduta da Ali Hashemi Rafsanjani, l’ex presidente che simpatizza oggi per Mousavi.
«Rafsanjani e Mousavi difendono la versione originaria del modello istituzionale khomeinista che prevede una Repubblica Islamica a due teste, con il Leader Supremo da un lato e il presidente dall’altro - spiega Mohsen Sazegara, ex co-fondatore dei pasdaran oggi esule in America - mentre Khamenei punta a stravolgerlo, unificando tutto il potere nelle mani del figlio prediletto Mojtaba grazie all’avallo di Ahmadinejad».
La vecchia guarda khomenista nel 2005 perse lo scontro presidenziale con la fazione dei Khamenei quando Rafsanjani venne sconfitto a sorpresa dal quasi sconosciuto Ahmadinejad. Anche allora si parlò di brogli, con le voci su 8 milioni di schede a favore di Ahmadinejad fatte arrivare dall’estero proprio dai seguaci di Mojtaba, ma a prevalere fu poi una tregua che si è rotta quando il 12 giugno il khomeinista Mousavi si è visto strappare il risultato ancora una volta da Ahmadinejad in maniera quantomeno sospetta, sempre con il sostegno dei Khamenei. Se a tutto ciò aggiungiamo che quando Khomeini morì 20 anni fa Rafsanjani e l’ayatollah Hossein Ali Montazeri - altre figura di spicco di Qom - contestarono l’elezione di Khamenei proprio in ragione del suo insufficiente curriculum religioso non è difficile leggere l’attuale scontro come una riedizione di quanto avvenne allora, con la differenza che Rafsanjani adesso si trova di fronte Mojataba.
«La sovrapposizione fra il movimento pro-Mousavi e la lotta di potere interna al regime - aggiunge Patrick Clawson, direttore del Centro di ricerche del Washington Institute - è venuta alla luce quando la figlia di Rafsanjani ha fatto i comizi a favore di Mousavi ed è stata poi ribadita dalla decisione dell’intelligence fedele a Mojtaba di arrestarla, mandando un pesante avvertimento all’intero clero filo-Rafsanjani». Non a caso Montazeri, sta alzando il profilo: prima ha dichiarato tre giorni di lutto per i manifestanti uccisi ed ora, assieme all’ayatollah Hossein Tabrizi di Qom, ammonisce Khamenei sul rischio che «la repressione inneschi la nuova rivoluzione».
Mojtaba Khamenei, nell’unica foto disponibile sul Web, è il figlio minore di Ali Khamenei, Guida Suprema dell’Iran. Si dice che chiunque voglia accedere al padre deve passare prima attraverso di lui. Alcuni analisti gli attribuiscono un disegno per succedere al padre alla testa del Paese.

La STAMPA - Enzo Bettiza : " La profezia dello Scià "

 Reza Pahlavi

Fu a Teheran, nella reggia di Niavaran, che in compagnia dello Scià di Persia passai uno dei più strani Natali della mia vita. Era il 25 dicembre del già tormentato e insidioso 1978. S’avvertiva da tanti segni che la lunga meteora dinastica di Reza Pahlavi, iniziata nel 1941 quando aveva soltanto 22 anni, era in apparente discesa. Dico «apparente» perché in realtà era già in caduta libera; e lo era quasi all’insaputa del diretto interessato che, con ogni probabilità, non prevedeva che la fine del suo regno era prossima più di quanto lui stesso e i suoi consiglieri potessero immaginare. Lo scenario di una piazza dapprima inquieta, poi movimentata, infine di colpo violenta, doveva esplodere il 7 gennaio 1979 nella drammatica rivolta di massa che di lì a pochi giorni, il 16 gennaio, avrebbe costretto lo Scià alla fuga dall’Iran. Il grande vincitore dalla fluente barba bianca, gli occhi fiammeggianti, il turbante nero degli sciiti sulla testa, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, rientrava il 1° febbraio a Teheran per instaurarvi, dopo un esilio di 16 anni, la «Repubblica islamica» di cui lui sarebbe diventato il padre e la guida religiosa assoluta.
Quell’imprevedibile, quasi improvviso cambio totale di regime e di clima s’era svolto in un crescendo di premonizioni psicologiche e di violenze fisiche che nei velocissimi ritmi di piazza, reiterati, incalzanti, inarrestabili, ricordavano alla rovescia per tanti aspetti le manifestazioni di rigetto e gli orrori repressivi che da due settimane insanguinano Teheran.
Le folle del ’79, anche allora in gran parte giovanili, s’avventavano contro la dura autocrazia laicizzante dei Pahlavi; oggi, dopo un trentennio di teocrazia fondamentalista, spietata quanto ambigua, sembra risuonare nei cieli foschi dell’Iran la sveglia del contrappasso; le irate folle giovanili odierne prendono di mira non solo i brogli elettorali, che hanno ridato la presidenza a Mahmud Ahmadinejad sottraendola al moderato Hossein Mousavi, ma in senso lato fanno capire al mondo che la democrazia di facciata, manovrata da vecchi preti inturbantati, è un imbroglio anacronistico che non risponde più alle esigenze di un società iraniana avida di progresso e di modernità.
Mi ritorna di riflesso in mente l’atmosfera d’insoddisfazione e di protesta che serpeggiava per la capitale iraniana negli ultimi giorni del potere, ormai scalfito e usurato, di Shahanshah Aryamehr Mohammad Reza Pahlavi. Pure lui, con il suo realismo ingegneristico e poliziesco, come dopo di lui gli ayatollah e i pasdaran, pensava che la forza d’urto e di ricatto del petrolio avrebbe potuto sanare i molti mali del regno che la politica, da sola, non riusciva a risolvere. Pure lui appariva in ritardo sulle esigenze e le aspettative di costituzionalità, di modernità democratica, che gl’indirizzavano i ceti istruiti ed evoluti di una società mediorientale tutt’altro che primitiva. Riteneva di poter mettere le cose a posto con una megalomaniaca e stonata combinazione di elementi disparati, a cui concorrevano, sul piano ideologico, il pugno di ferro di un kemalismo di riporto, poi sul piano d’immagine un classicismo anch’esso di riporto, imperniato in funzione antireligiosa sul mito di Ciro il Grande, infine sul piano della potenza una polizia segreta spietata e un esercito alimentato dai ricavi del petrolio. La questione del nucleare era già nell’aria. Ma lui mi disse: «Non vogliamo, almeno per il momento, l’atomica, vogliamo invece un esercito tanto forte che, per batterlo, sarebbe necessaria l’atomica: quindi imbattibile».
Intuivo di trovarmi al cospetto di un uomo di sofisticata e controllata brutalità, un misto d’archeologo astuto e uomo d’affari spregiudicato, che esprimeva i suoi concetti realistici nell’ottimo francese appreso nei collegi svizzeri. Sulla faccia pergamenacea, già offuscata dal male, spiccavano le inconfondibili labbra violette, enigmatiche, quasi tirate da un elastico da una guancia all’altra. Una faccia occidentalizzante più che occidentale. Sarebbe bastato liberarla degli occhiali, metterle un paio di baffi, ridurne l’ampiezza della fronte, per renderla del tutto simile a quella del masnadiero caucasico che era stato suo padre, Reza Khan, il fondatore semianalfabeta della posticcia monarchia. Altro che Ciro, Dario, Serse. Erede vulnerabile di un usurpatore forestiero privo di scrupoli e di religione, seduto sul Trono del Pavone vagheggiando di congiungere gli oleodotti dell’Iran energetico al glorioso impero di Persepoli, egli ignorava quasi tutto dell’atavica anima islamica e sciita dell’Iran. Conosceva il calcolo infinitesimale, la chimica, la merceologia industriale, le lingue occidentali, ma non capiva i bottegai del bazar musulmano, che a loro volta non capivano il despota orientale che si dava le arie dell’ingegnere petrolifero. I bazar, che avevo visitato, apparivano abbandonati da quella segreta poesia del baratto, quasi staccata dal valore intrinseco degli oggetti, che in genere gli conferisce una posizione emblematica e arcana al centro dell’universo coranico. I quotidiani locali, intanto, esibivano in prima pagina notizie sempre più allarmanti. Arresti, bombe, sequestri, sparatorie tra gendarmi e terroristi. Moschee affollate e minacciose. Morti, feriti, dispersi: un quadro che sembra ripetersi oggi su altri versanti.
Ricordo le ultime parole, forse le più centrate e antevedenti, che lo Scià con un filo di rassegnazione mi disse in quelle sue ultime ore di regno: «Io, non a caso, ho cercato, nei limiti delle mie forze, di legare lo spirito riformatore e modernizzatore della dinastia iranica che rappresento al passato della Persia classica. Se il mio regno dovesse finire in maniera traumatica, a sostituirlo non sarà il comunismo del partito Tudeh, che dà una mano suicida ai terroristi, bensì qualcosa di assai peggio: sarà il più tetro Medioevo islamico».
Poco più d’un mese dopo, in una Teheran imbandierata di stendardi verdi, al momento del rientro dall’esilio il Khomeini creatore della teocrazia sciita avrebbe annunciato alle folle acclamanti: «La legge appartiene al popolo e nessun governo ha il diritto di mantenerlo sotto la sua tutela: ma fino a oggi il nostro popolo è stato trattato così dal governo dello Scià, in violazione d’ogni sacrosanto diritto internazionale. È per questo che noi non riconosciamo più la sua legittimità». Sono passati trent’anni. Oggi, quelle stesse parole delegittimanti rivolte contro la tirannia laicista dello Scià, vengono rivolte almeno dalla metà degli iraniani contro la tirannica teocrazia degli eredi clericali di Khomeini.

Il FOGLIO - " Il realista assalito dagli ayatollah "

Barack Obama si è presentato al mondo con l’idea di cambiare radicalmente l’approccio di politica estera del predecessore George W. Bush. Circondato da consiglieri realisti, cioè appartenenti alla scuola di politica estera tradizionalmente vicina alla destra repubblicana, Obama ha vinto le presidenziali, ma anche le primarie dentro il suo partito, promettendo che alla Casa Bianca avrebbe parlato con tutti i nemici degli Stati Uniti e senza precondizioni, convinto che se avesse offerto loro la mano del dialogo, questi avrebbero smesso di serrare il pugno. Per sottolineare il distacco da Bush, da presidente ha deciso di ritirarsi dall’Iraq, di chiudere Guantanamo e di non usare più i toni forti da guerra al terrorismo. La nuova strategia obamiana non poteva essere più irrealistica, come si sta accorgendo lui stesso giorno dopo giorno. In Iraq ci rimane con almeno 50 mila soldati, e molti osservatori indipendenti temono che la generale sottovalutazione del dossier iracheno possa compromettere gli straordinari risultati ottenuti nell’ultimo anno di Bush. Guantanamo è ancora aperto e i giornali cominciano ad accorgersi che Obama invece che nella base di Cuba manda i nuovi prigionieri nel carcere di Bagram, in Afghanistan, dove non hanno alcun diritto e sono trattati decisamente peggio. L’Onu lo ha denunciato perché, al di là della retorica buonista, non riconosce ai detenuti i diritti processuali e li tiene in galera a tempo indeterminato. Il mondo, inoltre, non si è affatto rasserenato. I cattivi non sono diventati buoni, non si sono commossi di fronte alla sua straordinaria epopea di giovane ragazzo di colore delle Hawaii. La Facebookpolitik, la politica estera del sorriso via YouTube, la strategia dell’hot dog e l’abbandono della dottrina del regime change non sono servite a convincere gli ayatollah iraniani. Eppure Obama ha tentato in tutti i modi, perseverando anche quando gli ayatollah l’hanno accusato di essere come Bush, anche quando non hanno risposto agli inviti per le celebrazioni del 4 luglio, anche dopo la truffa elettorale e i primi dieci giorni di proteste e violenze a Teheran. Nel frattempo la Corea del nord ha testato un’arma nucleare, ha lanciato un paio di missili e si prepara a inviarne un altro in direzione Hawaii ai primi di luglio. Tutto questo mentre gli alleati europei e mediorientali rumoreggiano con la Casa Bianca. Gli europei si sentono trattati con sufficienza, gli israeliani temono di non essere più protetti, gli arabi sono terrorizzati dall’idea obamiana secondo cui si possa convivere con un Iran nucleare. E’ ancora troppo presto fare un bilancio della politica estera di Obama, anche perché il presidente è uomo duttile e disinvolto, tanto da aver già dimostrato di essere capace di cambiare in corsa le sue convizioni. Ora è pronto al peggio con la Corea, a cui ha detto che è finito il tempo in cui l’America offre soldi, aiuti e accordi in cambio della rinuncia al nucleare. Ci sono voluti undici giorni, ma infine s’è reso conto che non è possibile fare business con gli ayatollah. In Pakistan non è mai andato molto per il sottile, anzi ha già bombardato una ventina di volte, l’ultima un paio di giorni fa su un funerale (83 morti). Ma sono segnali contraddittori. Ci sono frenate e accelerazioni. La dottrina Bush poteva piacere o no, ma forniva una visione del mondo chiara (anche se mai chiarissima quanto quella di Reagan: “We win, they lose”, noi vinciamo, loro perdono). La visione del mondo di Obama ancora non c’è, a meno che la sua dottrina consista proprio nel non averne nessuna.

Il FOGLIO - " La democrazia è contagiosa "

 Bernard - Henri Lévy e Andrè Glucksmann

Roma. Dopo l’appello di Bernard-Henri Lévy sul Web alla gioventù iraniana, anche André Glucksmann, l’ex nouveau philosophe paladino trent’anni fa dei diritti dei dissidenti contro l’impero sovietico, si mobilita per l’opposizione al regime degli ayatollah. Lo fa seguendo il movimento di piazza a Teheran e prendendo parte agli incontri con gli esuli a Parigi. “Anch’io mi auguro che i riformisti riescano a rovesciare il regime – dice al Foglio – e sto dalla parte dei giovani che si battono per la libertà a rischio della propria vita”. E’ il risveglio della coscienza occidentale che, se si tratta di libertà e democrazia, è disposta a dimenticare gli interessi e superare la prudenza, pure se i capi della rivolta iraniana non offrono molte garanzie in questo senso? “Migliaia di persone in piazza per protestare contro il regime è un fatto che di per sé conta più di qualsiasi pedigree – risponde Glucksmann – Nessuno sa che cosa succederà, ma nessuno ha previsto una tale deflagrazione”. Qualunque cosa accada, nulla sarà più come prima, dice Bernard- Henri Lévy: “Il popolo si è dissociato da un regime esangue e sa che nessun potere al mondo può mantenersi al potere contro il popolo. Il re è nudo. Il regime degli ayatollah è condannato a mediare o scomparire. Qualunque cosa accada, nessun politico iraniano potrà apparire sulla scena del mondo senza essere avvolto da una nuvola di zolfo che circonda chi bara”. Certo, ci sono pure gli scettici che giudicano l’appello di Bernard-Henri Lévy mera retorica, buona per tutte le stagioni, Vietnam, Cambogia, Cile, Kosovo, e ci sono gli attendisti che davanti alla complessità dell’Iran cercano di evitare la miccia del nazionalismo. “Vogliamo fare la guerra all’Iran come vuole Bernard-Henri Lévy? Sarebbe una catastrofe”, commenta per esempio Alain Besançon. Glucksmann invece mostra un altro tipo di scetticismo: “Non mi faccio illusioni sulla capacità dell’Europa di reagire alla dittatura, sia di Putin in Cecenia, sia di Khamenei a Teheran, ma finché posso sosterrò chi si batte contro la repressione. Non possiamo ragionare a breve. La democrazia è un movimento di lunga data che si diffonde in tutto il mondo. Dobbiamo sostenerlo: sarà contagioso”.

Il FOGLIO - " L’asse della ferocia tra Khamenei e i pasdaran regge anche grazie all’aiuto degli alleati all’estero "

 Khamenei

Roma. Le cifre delle vittime fornite dall’agenzia Fars offrono un chiaro spaccato delle forze in campo nelle strade insanguinate di Teheran: venti i morti ammessi ufficialmente di cui otto bassiji. Tutte le fonti indipendenti testimoniano che i manifestanti uccisi sono molti di più, ma resta il fatto che il regime ammette la morte violenta di ben otto dei membri delle sue squadracce che ricordano tanto gli “ashashin”, i feddayn del Grande Vecchio della Montagna che dal “Nido dell’Aquila” della fortezza di Alamuth, a un centinaio di chilometri da Teheran, inaugurarono la tradizione sciita dell’assassinio politico. La notizia è apparsa poche ore dopo che Mohsen Rezai, ex comandante dei pasdaran, sconfitto alle presidenziali, ha annunciato che – nel nome della compattezza dei pasdaran – ha ritirato la sua denuncia dei brogli. L’alleanza di vertice tra ayatollah oltranzisti e pasdaran tiene, e non soltanto sulla piazza. Tiene soprattutto perché sinora i tentativi di Hashemi Rafsanjani di organizzare un Termidoro, di defenestrare Ali Khamenei attraverso il Consiglio degli Esperti paiono non dare frutti. Soltanto l’ayatollah Montazeri e ieri l’ayatollah Tabrizi, fedelissimo di Rafsanjani, hanno levato le loro voci da Qom contro la repressione della piazza e i brogli. Gli altri ayatollah tacciono e non c’è segno di una fronda importante nel corpus della gerarchia sciita. Soltanto i prossimi giorni diranno se il silenzio di Rafsanjani è temporaneo, se ha vinto o se ha perso nel suo tentativo di “golpe di palazzo”. Anche sul piano parlamentare Ali Larijani – che non appoggia Mir Hossein Moussavi, ma è schierato contro Ahmadinejad – con tutto il suo prestigio di presidente del Majlis, è riuscito a far disertare solo a cento parlamentari, su 290, i festeggiamenti per l’elezione di Ahmadinejad. Nuova conferma che le forze della dissidenza nei vertici del regime non vanno oltre il terzo dei componenti di tutti gli organi istituzionali (così è, sinora, anche nel Consiglio degli Esperti e in quello dei Guardiani). L’unica notizia grave per Ahmadinejad, a riscontro della presa di Rafsanjani nel paese, riguarda lo sciopero nei bazaar di Tabriz, Isphahn e Meshad. Se quanto riferiscono i blog di Moussavi fosse vero, la base sociale di Rafsanjani si sarebbe schierata con ben maggiore impatto di quanto non abbiano fatto le manovre del suo leader di riferimento, con conseguenze destabilizzanti per il regime. Nel frattempo, Ahmadinejad mette a frutto i successi del suo esecutivo, che è stato di certo fallimentare sul piano economico, ma che ha saputo intessere una corposa rete di alleanze internazionali che ora lo legittimano in pieno e che gli permettono di scagliarsi rabbioso contro il presidente americano, Barack Obama. Non soltanto la Siria di Bashar el Assad, ma anche la Turchia di Tayyip Recep Erdogan hanno riconosciuto la sua elezione e si sono dissociati dalle condanne di Europa e Stati Uniti, dando spessore agli scontati riconoscimenti di Mosca e Pechino, rafforzati da quelli del venezuelano Hugo Chávez, del boliviano Evo Morales, del brasiliano Lula e ovviamente della Cuba dei Castro e dei “non allineati”. E’ una legittimazione internazionale di enorme peso, perché marca un grande limite alla possibilità di azione e di manovra dell’Ue e degli Stati Uniti che vedrebbero sicuramente bocciare in ogni sede internazionale qualsiasi azione di censura – anche la più blanda – nei confronti dei brogli elettorali e anche dei massacri che già vi sono stati e di quelli che con tutta probabilità insanguineranno le città iraniane nei prossimi mesi.

LIBERO - Francesco Ruggeri : " Sondaggi e una faccia da tv. Le ragioni di Ahmadinejad "

L'articolo di Ruggeri ipotizza che le elezioni siano state vinte davvero da Ahmadinejad e che in questi giorni in Iran sia in atto solo una lotta interna al regime. I manifestanti, i morti, i feriti, allora? Il regime stesso ha ammesso che ci sono stati dei brogli. Gli iraniani che protestano in questi giorni hanno votato per un altro candidato, non per Ahmadinejad. Ecco l'articolo:

E se in realtà Ahmadinejad avesse vinto davvero? Nella smania irrefrenabile di veder germogliare una nuova primavera di Teheran, l’Occidente ha finora trascurato l’ipotesi meno attraente ma forse più probabile: l’eventualità che la maggioranza del popolo iraniano, a prescindere dagli episodi sospetti, abbia potuto riconfermare il presidente uscente. E che quello in atto in Iran sia dunque uno scontro di potere tutto interno al regime. Combattuto strumentalizzando il sincero anelito libertario delle frange più evolute, sulla pelle di ragazzi innocenti. Un indizio chiave in questa analisi controcorrente, confortata dalle cautele di Obama, lo fornisce la rassegna dei sondaggi pre-elettorali. Almeno 37, svolti da organizzazioni tanto interne che estere. I quali, al netto delle finte indagini propagandistiche e con gli ovvi limiti del caso, assegnavano in maniera unanime al candidato del clero conservatore un vantaggio sul rivale Mussavi. Analogo, in media, al corposo scarto registrato dal conteggio ufficiale. Di tali rilevazioni sull’elettorato alla vigilia del voto abbiamo rinvenuto le tracce e i metodi. Focalizzando in particolare la fotografia scattata da uno dei più seri istituti demoscopici euro-americani, lo stesso che lavora per la Bbc vincendo degli Emmy. Nelle risposte del campione sondato si cela il segreto del consenso per il leader di Abadgaran, Mahmoud Ahmadinejad. Tuttora purtroppo un iraniano medio, malgrado il “wishful thinking” dei media e delle nostre cancellerie.Cominciamo da un’asciutta carrellata dei sondaggi di matrice autoctona, in ordine di vicinanza. Il 10 giugno, a meno di 2 giorni dal voto, l’Iranian students polling association (Ispa) comunica l’esito di un’indagine sul territorio nazionale, attribuendo il 47% ad Ahmadinejad e solo il 31 a Mussavi. Quattro sondaggi diffusi da Farsnews tra 2 e 10 giugno confermano in quasi 20 punti il distacco tra i duellanti, quantificando una maggioranza del 53.5% per Ahmadinejad e un 34.4 per Mussavi. Ai primi di giugno altri cinque sondaggi diffusi da Alef e Tabnak news accreditano il candidato di Abadgaran del 40.8%, e di un 36.7 il principale sfidante (rispetto al 38 a 32 del 5 maggio, e al 40 a 24 del 4 aprile). Il 30 maggio il Club dei giovani giornalisti, pur senza percentuali, pronostica anch’esso una riconferma del presidente, sulla base di un sondaggio di 30.000 cittadini. E in favore di Ahmadinejad, per 39.2% contro 24.5, è il risultato della rilevazione effettuata il 17-18 maggio da Entekhab news. Mentre Ghalamnews il 27 maggio li dà a una spanna, 35% a 34. Sull’ex sindaco di Teheran scommettono pure Ettemad-e-melli, Rahbord Danesh, e il servizio statistico del governo con un 54% su 22. Un po’ più equilibrata la partita delle interviste realizzate solo nelle città, con l’eccezione dell’Irib (tv di stato), che il 7 giugno parla di un Ahmadinejad a valanga nei centri urbani (62.7 a 25.7), e di Press tv (53 a 36 prima dell’1/6). Ayandeh news riporta infatti un 38 a 34 per Mousavi nelle 10 metropoli principali. E lo sfidante si piazza addirittura davanti nella capitale: 44 a 42 per Rayemelat, 46 a 42 per Alef, e un quasi pareggio (39 a 47) per l’Irib. Quanto ai (pochi) test nazionali con in testa Hossein Mussavi, la comune assenza di una pur vaga metodologia scientifica ne annulla il valore. Trattavasi di rilevazioni condotte su gruppi statisticamente esigui, come studenti di singoli atenei o categorie di lavoratori (Worker’s statistical institute). Oppure attraverso quesiti scorretti («chi non votereste mai?»). Piuttosto che frutto di inverosimili bufale, come la patacca dei 300.000 intervistati dall’Ilna, o il 30.8% al candidato Rezai che non supera l’1.7 . Quando non opera di enti politicizzati, vedi la formazione di Mehdi Rafsanjani, figlio del padrino di Mussavi. Il sondaggio di gran lunga più affidabile e indipendente è invece senza dubbio quello sponsorizzato dal Tft-Center for public opinion di Washington, da New America Foundation e KA Europe Sprl, grazie al Rockefeller fund. Le cui interviste son state realizzate in Iran fra l’11 e il 20 maggio dal premiato istituto che per primo ha effettuato 30 sondaggi in 10 stati islamici (2 in Iran) per conto di Bbc ed Abc. Riscuotendo il plauso di Onu e Dipartimento di Stato. Ebbene, con un margine d’errore del 3.1%, le percentuali così ottenute accreditavano Ahmadinejad di oltre il doppio delle intenzioni di voto per Mussavi: 34% contro 14. Lasciando le briciole ai nanetti Karroubi e Rezai, fermi a 2 e 1%. Insomma una previsione quasi identica all’esito convalidato dalla Guida suprema Khamenei. Compresa la sconfitta dello sfidante nella sua terra azera. Del restante 27% di indecisi, solo in 6 casi su 10 il profilo corrispondeva a un elettore riformista. Gli intervistatori, di madre lingua Farsi, hanno utilizzato la metodica Cati, telefonando randomicamente a 1001 iraniani maggiorenni di 30 province, dopo 2364 tentativi. Il questionario si componeva di 31 domande, più 17 quesiti demografici e 24 per il controllo di qualità. Il campione era stato tarato per rispecchiare i dati reali del Centro statistico iraniano (Sci). Adeguandone il peso in proporzione alle variabili di genere, età, reddito, occupazione, etnìa (azera, baloch, curda, araba, persiana, khalaj ecc) confessione, provincia, ambiente urbano o rurale. Aldilà dei cliché, spulciando le risposte raccolte dal Tft, il perdurante appoggio all’amministrazione Ahmadinejad sembra trovare un movente proprio nella politica economica dell’ultimo quadriennio. Pur ritenendo la crisi peggiorata (ottimisti in calo del 9% rispetto all’indagine di un anno fa), il numero di coloro che hanno giudicato efficaci le politiche del governo, in materia di disoccupazione e inflazione, sarebbe risultato in crescita del 4%. E la somma di chi ha ritenuto migliorata la sua situazione, rispetto ad agosto 2005, avrebbe toccato il 76%. Emerge quindi netta l’impressione che negli elettori convivano due anime all’apparenza inconciliabili. Ad esempio 7 iraniani su 10 si sono dichiarati certi che le elezioni sarebbero state corrette, solamente uno presagiva brogli. Al contempo il 77% ha auspicato l’elezione diretta della Guida suprema, e il 90.5 che alla presidenza salisse un esperto di religione. O ancora, il 51.5% si è detto favorevole alla riapertura dell’ambasciata americana a Teheran e il 77 a riprendere le relazioni, ma solo il 26.6 a farsi aiutare dagli Usa per democratizzare il Paese. E mentre il 52% si diceva pronto a riconoscere Israele, tra il 57.3 e il 63.6 si è augurato che non venisse meno il sostegno ad Hamas, Hezbollah.La prospettiva a senso unico della stampa occidentale nel raccontare le proteste iraniane, dipende dal fatto che gli inviati si fermano di solito a Teheran o nelle grandi città. D’altronde girare in campagna è quasi impossibile, occorrono permessi speciali. Eppure è lì che si incontra il vero Iran, contadino, povero e fondamentalista. L’anomalia è la giovane tribù degli sms e di Twitter. Che in assoluto, secondo il Center for public opinion, non raggiunge il 30%. Lo scaltro Ahmanidejad ha preparato la sua rielezione tra i reietti per anni. Garantendo a 22 milioni la sanità gratuita, aumentando lo stipendio di un terzo degli insegnanti e metà delle pensioni, pagando bonus alle vittime della siccità e bollette e patate ai senza reddito. In sostanza s’è comprato i voti, i brogli però sono altra cosa. Il surplus innaturale di schede si spiega col mancato obbligo a recarsi in un unico seggio: ma c’è sempre stato. Al flop di Mussavi tra gli azeri ha contribuito la capacità del suo avversario di parlarne l’idioma, appreso negli anni della naja. Perfino nei faccia a faccia tv aveva prevalso Ahmadinejad. Pastette e inciuci (da ambo i fronti) in un Paese del terzo mondo non sorprendono. Ma a sentire uno dei massimi studiosi di frodi elettorali, Walter Mebane dell’università del Michigan, finora «non ci sono solide prove di brogli di massa». D’altra parte Mussavi non aveva il background di un candidato di rottura. Da studente e prediletto di Khomeini, fu in prima linea nel sequestro degli americani. Da premier agevolò l’esecuzione di 30mila dissidenti, e avviò il programma atomico. Nel sistema iraniano la frode elettorale non avrebbe poi un gran senso. Un riformista doc come Khatami vinse senza problemi già nel ’97. E comunque per legge sono i mullah a selezionare alla fonte i candidati, autorizzando quelli graditi. Quest’anno ne avevano scartati la bellezza di 475.

CORRIERE della SERA - Stefano Montefiori : " Il messaggio di Coelho «Iraniani, non siete soli» " 

«Per la prima volta assistiamo al for­marsi di una consapevolezza universale su ciò che sta accadendo. L’opinione pub­blica di tutto il mondo segue i fatti di Teheran con attenzione, emozione, e una partecipazione inedita perché la tecnolo­gia permette di interagire con i giovani iraniani. Internet e Twitter sono strumen­ti molto potenti». Lo scrittore brasiliano Paulo Coelho, autore di best-seller come L’alchimista o Brida venduti in oltre 100 milioni di copie nel mondo (editi in Italia da Bompiani), si è trovato indirettamente coinvolto nella storia simbolo della rivol­ta in Iran. «Domenica stavo guardando al­la Cnn il video che documenta l’uccisione di Neda. Mi è sembrato di vedere al suo fianco Arash, medico e mio editore in Iran. L’ho conosciuto per motivi professio­nali, ma Arash è diventato innanzitutto un mio caro amico. Sulle prime non vole­vo crederci, conosco molte persone nel mondo, la mia impressione poteva non es­sere corretta. Come tutti ero molto turba­to per quella scena, ho deciso di scrivergli un’email e mi ha risposto. Era lui».
Coelho ricorda la sua esperienza di prigioniero politico durante la dittatura brasiliana, «so bene che non bisogna mai nasconde­re la propria identità una volta che si è in pericolo.
Più si è minacciati e più bi­sogna mostrarsi e rendersi noti, è un buon modo per proteggersi. Ma Arash per il momento non era ancora nelle mani della polizia. Cre­devo che il mio amico fosse già a Londra invece si trova­va ancora in Iran, molto pre­occupato che le autorità po­tessero identificarlo grazie al video». Il medico è riusci­to infine a mettersi in salvo in Inghilterra grazie anche alla collaborazione di Coe­lho e dei molti giornalisti che aveva conosciuto durante una visita di questi ultimi in Iran; in molti avevano riconosciuto Arash ma hanno rivelato la sua identità solo dopo essersi assicurati che fosse finalmente arrivato a Londra.
Pensa che la storia di Neda e di Arash contribuirà a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione in Iran? «Credo di sì, lo vedo anche dai contatti sul mio blog (
www.paulocoelho.com) che sono molto aumentati da quando ho pubblica­to il mio scambio di email con Arash. L’in­teresse del pubblico è molto importante, le autorità iraniane sanno che il mondo sta guardando». Non è deluso dalla man­canza di grandi manifestazioni di piazza in favore dei giovani iraniani? «No perché non mi pare un segno di disinteresse. Al contrario, credo che ci sia un enorme coin­volgimento che però oggi si esprime in al­tro modo, soprattutto online». Paulo Coe­lho ha una posizione cauta sui doveri di intervento dell’Occidente. E non condivi­de gli appelli a una maggiore decisione. «Preferisco l’interesse e la partecipazione dell’opinione pubblica all’azione diretta dei governi, che è un’arma a doppio ta­glio. In questi giorni ho molto apprezzato la posizione del presidente americano Ba­rack Obama, che mi è sembrato saldo sui principi ma anche responsabile e giusta­mente prudente. A meno che qualche paz­zo non pensi seriamente di intervenire mi­litarmente in Iran». Il presidente Obama si è attirato critiche per questo, lo accusa­no di eccessiva realpolitik. «Credo invece che si stia comportando molto bene. Ab­biamo davanti il pessimo esempio prece­dente di George W. Bush, che aveva la pre­tesa di imporre la sua visione al mondo. Per fortuna quell’epoca si è conclusa, l’Oc­cidente non può pensare di interferire e pilotare direttamente gli avvenimenti».
Anche il presidente brasiliano Lula ha mostrato la stessa prudenza, dicendosi convinto dell’effettiva vittoria di Ahmadi­nejad. «Io credo che sia difficile, per chi ha reali responsabilità, prendere una posi­zione avventata. Nessuno può ricontare tutti i voti, tanto più noi che siamo al­l’estero. Quel che possiamo fare però è se­guire gli avvenimenti, e fare sentire agli iraniani che le persone comuni, tramite Internet e Twitter, sono con loro».

La REPUBBLICA - Francesca Caferri : " Diritti umani, adesso è allarme 'Un torturatore capo delle indagini' "

Spari contro la folla in strada. Arresti arbitrati. Minacce contro le personalità più eminenti. E voci di torture. Sono notizie drammatiche quelle che vengono rilanciate dalle organizzazioni per i diritti umani attive in Iran. Due giorni fa Human Rights Watch ha denunciato il procuratore capo Said Mortazavi, implicato in casi di tortura e ritenuto responsabile della morte in carcere della fotografa irano-canadese Zahar Kazemi, è a capo delle indagini sui riformisti arrestati. Nelle stesse ore la International Campaign for Human rights in Iran rivelava che le persone arrestate negli ultimi giorni sono circa 2.000 e non 600 come sostiene il governo. Ad Aaron Rhodes, portavoce della campagna, abbiamo chiesto di spiegarci quale sia la situazione.
Quali sono le cose che vi preoccupano di più?
«La brutalità della polizia. Il tentativo di bloccare le proteste con la violenza ha già fatto molti morti e altri ce ne potrebbero essere. I basji cercano i feriti anche negli ospedali. Poi c´è il rischio che i detenuti siano torturati per costringerli a confessare cose mai fatte. E contro chi non è in carcere sono in corso tentativi di intimidazione fortissimi: ieri un gruppo di legali e professori vicini al governo ha chiesto l´arresto di Shirin Ebadi. Il livello di violenza è molto alto».
Human rights watch denuncia le responsabilità di Said Mortazavi: cosa Cosa può fare la comunità internazionale? «Dobbiamo obbligare l´Iran a rispondere agli obblighi sanciti nelle convenzioni Onu che ha firmato. L´Onu dovrebbe mandare una missione per osservare la situazione e aiutare a trovare una soluzione pacifica a questa crisi. L´Iran è sempre più isolato: i giornalisti sono stati mandati via, c´è un black out informativo e le luci si stanno spegnendo. Una situazione molto rischiosa per quelli che sono in pericolo».

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