Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Poco prima delle elezioni in Iran Obama ha scritto una lettera a Khamenei Continua la repressione dei manifestanti in Iran. Cronache e analisi di Maurizio Molinari, Giulio Meotti, Christopher Hitchens
Testata:la Stampa - Il Foglio - Corriere della Sera Autore: Maurizio Molinari - Giulio Meotti - Christopher Hitchens - La redazione del Foglio Titolo: «Il segreto di Obama.'Scrisse a Khamenei' - L’anima nera è il figlio del leader supremo - La voce di Israele - Contro l’ascia di Teheran - L’antica cultura del sospetto e quell’odio per inglesi e americani»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 25/06/2009, a pag. 3, due articoli di Maurizio Molinari, titolati " Il segreto di Obama.'Scrisse a Khamenei' " e " L’anima nera è il figlio del leader supremo ". Dal FOGLIO, a pag. 4, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " La voce di Israele " e, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " Contro l’ascia di Teheran ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 10, l'articolo di Christopher Hitchens dal titolo " L’antica cultura del sospetto e quell’odio per inglesi e americani ". Ecco gli articoli:
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Il segreto di Obama.'Scrisse a Khamenei' "
Poco prima delle elezioni in Iran, il presidente americano Barack Obama scrisse una lettera personale ad Ali Khamenei sulla «ripresa dei rapporti bilaterali» e ora quel testo crea imbarazzo all’Amministrazione, che si affretta a precisare: «Dalle elezioni in poi non vi sono stati più contatti diretti». A svelare l’esistenza della lettera è il quotidiano conservatore «Washington Times», che riportando quanto scritto dal sito iraniano Ayandehnews sul fatto che alla vigilia del voto l’ambasciatore svizzero a Teheran portò di persona alla residenza del Leader Supremo della rivoluzione la missiva del capo della Casa Bianca. Il primo a svelare l’esistenza della lettera è stato proprio Khamenei che, nel sermone pronunciato venerdì all’Università della capitale, ha detto: «Da un lato l’Amministrazione Obama ci scrive una lettera per esprimere il rispetto per la Repubblica Islamica e la ripresa dei rapporti bilaterali, dall’altro il presidente dice di aspettarsi che la gente scenda in strada. A quale affermazione dobbiamo credere?». L’ipotesi dell’esistenza di un canale segreto di contatto fra i governi di Washington e Teheran era emersa subito dopo l’inizio degli scontri in Iran, in ragione della determinazione dell’Amministrazione Usa a difendere comunque il dialogo con gli ayatollah, ribadendo a più riprese la scelta della «non interferenza» e del «rispetto della sovranità» iraniana. Si era parlato anche di un incontro segreto a Ginevra del vicepresidente Joe Biden con alcuni inviati di Ali Khamenei. Quali che siano state la genesi e la dinamica delle aperture dirette della Casa Bianca all’Iran, ora tutto appare congelato. All’indomani della conferenza stampa nella quale Obama ha parlato di «shock e indignazione« per le perduranti violenze contro i manifestanti, il ministro degli Interni iraniano Sadeq Mahsouli ha lanciato dure accuse contro la Cia, imputandole di «finanziare le dimostrazioni». «Gran Bretagna, America e il regime sionista sono contro i recenti disordini a Teheran - ha detto il ministro - molti dei manifestanti sono stati in contatto con l’America, la Cia e i Mujaheddin del popolo, e sono alimentati dalle risorse che costoro fanno arrivare«. Un’ulteriore conferma del raffreddamento dei rapporti viene dalla scelta dei diplomatici iraniani di non accettare gli inviti estesi dalle ambasciate Usa nel mondo per partecipare alle feste del 4 luglio, per l’Independence Day. A mettere una pietra sulla vicenda è stato un portavoce del Dipartimento di Stato, facendo sapere che «gli inviti sono stati ritirati». Per Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relation di New York, ci sono pochi dubbi su quanto sta avvenendo: «L’Amministrazione Obama ha capito che bisogna evitare qualsiasi riferimento ai rapporti diretti con l’Iran fino a quando non si chiarisce che cosa accadrà a Teheran«. Di conseguenza la scelta della realpolitik è destinata per il momento a rimanere nel limbo. Aggiunge Patrick Clawson, esperto di affari iraniani del Washington Institute, «le prospettive di successo dell’apertura di un canale diretto con Teheran stanno declinando» anche perché, avendo svelato l’esistenza della lettera di Obama, è stato proprio Khamenei a mettere in difficoltà la Casa Bianca. Robert Gibbs, portavoce del presidente, conferma lo stallo: «Dalle elezioni in poi non vi sono più stati contatti diretti con gli iraniani». L’intenzione di Obama è comunque di continuare a cercare interlocutori fra gli avversari strategici in Medio Oriente: da qui la scelta di inviare in tempi stretti un ambasciatore a Damasco, dopo quattro anni di assenza. «La Siria è una nazione importante per la composizione del conflitto arabo-israeliano», ha spiegato il portavoce del Dipartimento di Stato, Ian Kelly, annunciando la decisione come un passo frutto dei precedenti colloqui avuti a Damasco da alcuni inviati di Hillary.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " L’anima nera è il figlio del leader supremo"
Mohsen Sazegara
«Dietro la repressione c’è Mojtaba Khamenei». Parola di Mohsen Sazegara, ex co-fondatore dei pasdaran khomeinisti. Chi è Mojtaba Khamenei? «Il secondo figlio del Leader Supremo Ali Khamenei». Che ruolo ha? «Spinge il padre alla repressione violenta perché punta alla successione. Se Ali Khamenei riesce a eliminare i principali leader eredi della rivoluzione khomeinista, come Rafsanjani e Mousavi, Mojtaba avrà la strada spianata per diventare Leader Supremo grazie alla seconda generazione, quella di Ahmadinejad». Quali sono gli strumenti militari della repressione? «Circa 12 mila basiji, i miliziani irregolari, e le forze del Ministero dell’intelligence». L’esercito? «Khamenei non lo schiera perché non si fida di loro». E i guardiani della rivoluzione che lei co-fondò? «Al loro interno è in atto un duro scontro. C’è chi sta con Ahmadinejad e chi vuole Mousavi. Alcuni reparti dei pasdaran si sono uniti ai basiji contro la folla». Che cosa prevede? «Uno scontro aperto, scorrerà il sangue».
Il FOGLIO - Giulio Meotti : " La voce di Israele "
Menashe Amir
Roma. “Qui è Gerusalemme, la Voce di Israele”, dice Menashe Amir in un farsi melodioso. La sua radio si ferma soltanto per Yom Kippur. E’ ascoltata da due milioni di persone. La sezione in lingua persiana di Voice of Israel trasmette da uno studio spartano di Gerusalemme ovest che ricorda l’umile edificio all’aeroporto Oberwiesenfeld di Monaco da cui trasmetteva Radio Free Europe, l’emittente dei refusniks. L’ayatollah Ali Khamenei l’ha appena ribattezzata “radio sionista” e il Wall Street Journal le ha dedicato uno splendido servizio. Giornalista e studioso di cose mediorientali che da Teheran approdò a Gerusalemme mezzo secolo fa, Amir gestisce questa Radio Londra per i dissidenti iraniani, la più seguita frequenza clandestina in lingua farsi. Non esistono collegamenti telefonici tra Iran e Israele, ma i tecnici di Amir sono riusciti a creare un sistema di comunicazione che consente di chiamare Gerusalemme da Teheran. C’è anche chi telefona soltanto per gridare slogan antisemiti, il preferito è “morte a Israele”. Dodici anni fa, Amir è stato protagonista di uno scoop: è riuscito a telefonare al carcere di Evin, dove si massacrano i dissidenti. Tiene segreto persino il numero di impiegati alla radio. “Sono al cento per cento iraniano”, ripete di sé, simbolo fra i più famosi della stagione d’oro dei rapporti fra Israele e l’Iran dello Shah. Un’antichissima comunità che contava centomila persone ora ne ha solo 27 mila e soffre di grandi restrizioni: deve vestire all’islamica, ha scuole e giornali chiusi, i giovani devono andare a scuola di sabato, le sinagoghe sono decimate e diciassette ebrei furono giustiziati nel 1979 da Khomeini. Amir ricorda che in Iran non ci sono mai stati ghetti o pogrom. Durante la Seconda guerra mondiale, i diplomatici iraniani riuscirono a salvare migliaia di ebrei concedendo loro la cittadinanza e aiutandoli a raggiungere Teheran. L’Iran è stato il primo paese islamico a stabilire legami con Israele, di cui per decenni è stato il principale fornitore di petrolio. Poi venne Khomeini e tutto è cambiato. Durante l’ascesa di Nasser in Egitto, iraniani e israeliani organizzarono una radio in Iran da cui partivano messaggi al mondo arabo. Amir vuole convincere gli iraniani a seguire l’esempio di Hossein Sardari, il giovane funzionario, di fede musulmana, che lavorava per l’ambasciata iraniana a Parigi. Quando i nazisti iniziarono a rastrellare gli ebrei, Sardari prese i passaporti vergini dell’ambasciata e vi scrisse i nomi degli ebrei. Ne salvò a centinaia. C’è chi lo ha paragonato a Ciro il Grande, che liberò gli ebrei persiani dalla schiavitù.
Il FOGLIO -" Contro l’ascia di Teheran"
Continua la respressione dei manifestanti a Teheran
Gli esperti dell’ultim’ora si domandavano quanto ancora potesse durare la tensione della piazza iraniana prima che tutto si trasformasse in manganelli e sangue, e ieri hanno avuto la risposta, urlata da una donna alla Cnn che raccontava di asce e mitragliatori, di spari e coltelli. “Un massacro”. I messaggi di Twitter e i video – che non si riescono più a collocare nello spazio e nel tempo, perché i giornalisti stranieri sono stati cacciati e ci si affida al coraggio amatoriale di qualche testimone – erano ancora più allarmati: cadaveri dappertutto, cellulari della polizia ovunque, botte, botte, botte. Nella furia di quello che è sembrato il primo vero giorno del massacro, tra gli spari e i cori “polvere e spazzatura”, è suonato ancora più stonato e pericoloso il silenzio di quelli che erano i leader di questa protesta. Moussavi, che non si vede da giorni e che ieri è riuscito ad aggiornare il suo sito, a dire che si dissociava dai fatti di piazza Baharestan. Con lui Rafsanjani, il regista dell’onda verde, che da giorni trama da Qom per capire chi sta con lui e chi sta contro e poi pensa a quale offerta fare a Khamenei – che si dibatte come una bestia ferita e dice che non si farà piegare dalle pressioni – naturalmente sulla pelle della piazza. Ora che questa piazza rischia di rimanere senza una guida e senza giornalisti a testimoniare il suo coraggio; ora che nella stanza dei pensieri di Khamenei, la “fekr khané”, si fa di tutto per decidere le sorti di tutti quei rivoluzionari che ancora ci credono e che rischiano di finire silenziati nel silenzio; ora che il regime si è rinchiuso su se stesso, è il momento di gridare forte il sostegno per questa piazza. La comunità internazionale, gli Stati Uniti e l’Europa non devono cedere alla tentazione dello status quo – più governabile e gestibile secondo le ciniche logiche del realismo – perché il ritorno alla normalità ora sarà scandito dal sangue dei massacri. Si è discusso tanto della cautela necessaria per non trasformare le dichiarazioni della comunità internazionale in merce buona per la propaganda antioccidente della Repubblica islamica, ma ora che si confonde la voce dei leader e resta soltanto il canto dei rivoluzionari, siamo polvere e spazzatura, “khash e khashak”, la cautela non è più una strategia. La piazza che subisce la ferocia degli ayatollah e dei loro pasdaran, ha bisogno dei nostri leader, dei nostri capi di governo, di noi.
CORRIERE della SERA - Christopher Hitchens : " L’antica cultura del sospetto e quell’odio per inglesi e americani "
P er ben due volte ho avuto il privilegio di sedermi sul pavimento, la barba incolta, durante la preghiera del Venerdì che la teocrazia iraniana impone ogni settimana nel campus dell’Università di Teheran. Come tutti sanno, questa funzione noiosa di tanto in tanto viene ravvivata dal grido del predicatore scalmanato, che incita i fedeli a unirsi alla cantilena ritmata diMarg bar Amrika! — «morte all’America! ». Nessuno resterà sorpreso nell’apprendere che a questa invocazione segue generalmenteMarg bar Israel! E non è raro che si aggiunga un altro versetto alla salmodia dell’odio:Marg bar Inghilis! Alcuni osservatori hanno notato che quando il «leader supremo », Alì Khamenei, ha sbattuto violentemente la porta su ogni possibilità di riforma durante la preghiera di venerdì scorso, l’accento è caduto sul terzo di questi incantesimi. «Il peggiore di tutti — ha bofonchiato l’ayatollah — è il governo inglese». Dubito, tuttavia, che il vero significato di questa strana accusa sia stato pienamente compreso dall’opinione pubblica. Una spia del sottosviluppo iraniano è senz’altro la cultura del sospetto e della paranoia che scarica tutte le responsabilità dei mali del Paese sull’intervento di vari demoni e satana. Peraltro è anche vero che il lungo e complesso coinvolgimento dell’Impero britannico in Persia ha contribuito a dare un certo peso a questa nozione. Il pubblico occidentale, però, non ha la più pallida idea di quanto sia diffusa e radicata la credenza primitiva che siano gli inglesi — più della Cia, e persino più degli ebrei — i burattinai occulti di tutto quello che accade in Iran. Il romanzo satirico più noto in lingua persiana, e campione di vendite, è «Mio zio Napoleone», di Iraj Pezeshkzad, che descrive l’esistenza ridicola, e in ultima analisi odiosa, di un membro della famiglia, convinto sostenitore della teoria del complotto inglese. Il romanzo fu pubblicato nel 1973 e in seguito trasformato in una serie televisiva di grandissimo successo. Ma sia la versione stampata che quella televisiva vennero prontamente messe al bando dagli ayatollah dopo il 1979, anche se sopravvivono in formato clandestino. Di recente, una delle personalità religiose più in vista del cosiddetto Consiglio dei guardiani, Ahmad Jannati, ha annunciato in una trasmissione a diffusione nazionale che gli attentati alla metropolitana di Londra del 7 luglio 2005 sono stati organizzati dallo stesso governo inglese. Oggi Khamenei torna a scagliare accuse insensate. Quest’uomo evidentemente non sa nemmeno che la teoria del complotto è da tempo diventata una barzelletta tra i suoi concittadini. Ma le sue frasi farneticanti rischiano di produrre conseguenze reali nel mondo contemporaneo, e mi limito a elencarne solo tre: 1. Non c’è nulla che i Paesi occidentali possano fare per sottrarsi all’accusa di interferire negli affari interni iraniani. La convinzione radicata che tutto — specie se in inglese — sia già e per definizione un’ingerenza straniera fa parte della stessa identità e ideologia della teocrazia iraniana. 2. È un errore immaginare che gli ayatollah, per quanto cinici e corrotti, siano capaci di agire in modo razionale. Al contrario, essi sono spesso animati da credenze e paure ataviche, al punto tale che un ottuso servo della gleba, nell’Europa medievale, brilla in confronto a loro per genialità e rigor di logica. 3. La tendenza, da parte dei media esteri, a prendere la temperatura del Paese dai leader religiosi, anziché consultare scrittori e poeti, dimostra la nostra arretratezza culturale. Chiunque abbia letto Pezeshkzad e Nafisi, o abbia discusso con i loro studenti e lettori a Tabriz, Isfahan e Mashad, sarebbe stato in grado di evitare la sorpresa con cui i nostri esperti hanno accolto gli eventi occorsi nelle strade di Teheran negli ultimi giorni. Quest’ultima osservazione si riferisce anche al governo Obama. Vuole prendere una posizione non interventista? Bene, che la prenda pure. Ma non ha senso chiamare Khamenei con il termine ossequioso di «leader supremo », e l’Iran con il titolo tirannico di «repubblica islamica». State attenti però, perché questo non impedirà ai teocrati di accusarvi comunque di ingerenza. Sappiate che prima o poi dovrete fare i conti con i giovani democratici iraniani che hanno rischiato la vita nella battaglia e spiegar loro che cosa stavate facendo, mentre venivano massacrati e soffocati con i gas lacrimogeni. Esiste poi la questione ben più vasta della teocrazia iraniana e della sua continua e arrogante ingerenza nei nostri affari: l’esportazione di violenza, crudeltà e menzogne in Libano, in Palestina, in Iraq e la sfida sprezzante lanciata alle Nazioni Unite, all’Unione Europea e all’Agenzia internazionale per l’energia atomica sul problema non indifferente delle armi nucleari. Come tutti, anch’io sono rimasto colpito dalla decisione del nostro presidente di citare Martin Luther King — anche se con qualche ritardo — sull’arco della giustizia e il modo in cui, prima o poi, si piegherà. È solo che in un momento di crisi e di emergenza Obama ha citato il passo sbagliato di King (quello giusto si trova nella Lettera da una prigione di Birmingham), e inoltre si è espresso come se fosse il presidente dell’Islanda o dell’Uruguay, e non degli Stati Uniti. La coesistenza con una teocrazia totalitaria e nuclearizzata in Iran è impensabile anche nel breve termine. I mullah, questo, lo capiscono perfettamente. Perché noi no?
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