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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Manifesto - L'Unità Rassegna Stampa
23.06.2009 Abu Mazen libera 200 criminali di Hamas. Quale dialogo interpalestinese vuole ?
Al quotidiano comunista piace criticare il 'muro' israeliano. Gli facciamo vedere dove sono i veri muri nel mondo

Testata:Il Manifesto - L'Unità
Autore: Umberto De Giovannangeli -
Titolo: «Umberto De Giovannangeli - Massimiliano Guareschi - Federico Rahola»

Riportiamo dall'UNITA' di oggi, 23/06/2009, a pag. 26, l'articolo di Umberto De Giovannangeli dal titolo " Prove di dialogo con Hamas. Abu Mazen libera 200 detenuti " e dal MANIFESTO, a pag. 11, l'articolo di Massimiliano Guareschi e Federico Rahola dal titolo " Al di là del muro ".

L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " Prove di dialogo con Hamas. Abu mazen libera 200 detenuti "

Anp e Hamas. Le loro posizioni sono convergenti solo per quanto riguarda il rifiuto delle proposte di pace fatte da Netanyahu. Udg crede che la liberazione di 200 terroristi di Hamas riuscirà a mettere d'accordo l'Anp e Hamas?
Ecco l'articolo:

Il dialogo interpalestinese passa anche per il carcere. E per i detenuti liberati. Quelli di Hamas. Il presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha ordinato la liberazione dei sostenitori di Hamas detenuti nelle carceri palestinesi in Cisgiordania. A riferirlo è l’agenzia di stampa palestinese Maan. Secondo prime valutazioni, potrebbe trattarsi di oltre 200 persone.
La notizia è stata confermata in seguito da Azzam al-Ahmad, il capo del blocco parlamentare di al-Fatah nel Consiglio legislativo palestinese (parlamento) di Ramallah. Secondo al-Ahmad il provvedimento - che dovrebbe materializzarsi nei prossimi giorni - avviene nel contesto degli sforzi diplomatici egiziani profusi per avvicinare le posizioni di Al-Fatah e di Hamas, in vista di un incontro al Cairo fissato per il 7 luglio.
Da Gaza un portavoce di Hamas, Fawzi Barhum, ha affermato che «tutti i detenuti politici devono essere liberati. Inoltre deve cessare la campagna lanciata contro di loro in Cisgiordania. Una volta che ciò sia avvenuto - ha precisato - allora potremo davvero parlare di una svolta positiva». Ma poi Barhum è tornato a polemizzare a distanza con Abu Mazen. «Non ci sono - ha esclamato - militanti di Hamas pericolosi” per la sicurezza nazionale del popolo palestinese. Chi rappresenta un pericolo sono semmai i servizi di sicurezza (di Abu Mazen, ndr), che non proteggono il nostro progetto nazionale. Quando loro arrestano i nostri miliziani, non fanno che approfondire le lacerazioni dei palestinesi». Hamas afferma che nelle prigioni dell’Anp ci sono complessivamente 760 dei suoi uomini.
L’obiettivo di uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme per capitale può essere concretamente raggiunto «alla fine dell’anno prossimo, in due anni al massimo» se i palestinesi sapranno ritrovare l’ unità politica.
A sostenerlo ieri all’Università al-Quds di Abu Dis (Gerusalemme est) è stato il primo ministro dell’Anp, Salam Fayyad, poche ore dopo che l’ufficio del presidente Abu Mazen aveva confermato la imminente liberazione di militanti di Hamas. Ciò, nel tentativo di rilanciare con il sostegno attivo della diplomazia egiziana il dialogo politico fra Hamas ed Al-Fatah. «Mi appello al nostro popolo affinché ritrovi la sua unità, sostenendo il progetto di creare uno Stato e di rafforzare le sue istituzioni. È un obiettivo che possiamo raggiungere» ha detto il premier in un intervento di risposta al discorso pronunciato una settimana fa dal primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu. Rispondendo polemicamente a quel discorso, Fayyad ha replicato che Gerusalemme est dovrà essere la capitale del futuro Stato palestinese e che Israele dovrà assolutamente congelare gli insediamenti ebraici in Cisgiordania prima che qualsiasi negoziato possa riprendere. «Non ci sarà mai alcun partner palestinese che possa riconoscere la occupazione - ha esclamato -. Vogliamo uno Stato di cui i palestinesi possano essere fieri: questo è il nostro obiettivo». Fayyad ha anche invocato la fine dei raid militari israeliani in Cisgiordania e la rimozione del blocco di Gaza.
Una famiglia torna a sperare: è quella di Gilad Shalit, Le trattative per la liberazione del giovane caporale israeliano - rapito il 25 giugno 2006 da un commando di Hamas e d’allora tenuto prigioniero nella Striscia di Gaza - sarebbero quasi alla conclusione. Lo affermano giornali egiziani, in relazione alla visita compiuta l’altro ieri al Cairo dal ministro della Difesa israeliano Ehud Barak, che ha avuto colloqui con il presidente egiziano Hosni Mubarak, ed altri dirigenti tra i quali il capo dei servizi segreti, Omar Suleiman.
Il quotidiano indipendente Masri Al Youm cita fonti informate secondo il quale una delegazione dei servizi di sicurezza egiziani è partita l’altro ieri per Gaza subito dopo la conclusione degli incontri di Barak al Cairo. Le trattative che sono in fase di conclusone, scrive il giornale, prevedono che non appena Shalit sarà arrivato in Egitto, scortato dai servizi egiziani, Israele libererà 150 detenuti palestinesi. Una seconda fase prevede che altri 450 detenuti siano liberati ed infine un’ultima fase comporterebbe la liberazione di altri 400 palestinesi, fino ad un totale di 1000 detenuti.
Il giornale sostiene anche che «una luce verde» sullo scambio di prigionieri sia stato concordato tra Omar Suleiman ed il capo dell’ufficio politico di Hamas, Khaled Meshaal, durante la sua visita al Cairo qualche settimana fa.

Il MANIFESTO - Massimiliano Guareschi e Federico Rahola : " Al di là del muro"

Quello di Guareschi e Rahola è un elenco di libri da evitare sul Medio Oriente. Tutti carichi di pregiudizi e propaganda antiisraeliana, con un unico obiettivo : coltivare l'odio dei lettori verso Israele.
Hamas e Hezbollah, secondo gli autori dei vari libri presentati vengono definiti terroristi non perchè lo sono, ma per venire "depoliticizzati e delegittimati ". Il ritornello preferito dagli autori è quello contro il cosiddetto " muro".
Di seguito riportiamo un'immagine che mostra quanti muri ci sono al mondo (muri dei quali il Manifesto non parla MAI). Quello che gli articolisti del Manifesto chiamano "muro "israeliano è, in realtà, una barriera difensiva, eretta dagli israeliani per difendersi dagli attacchi dei terroristi suicidi palestinesi. Da quando esiste la barriera gli attentati sono diminuiti del 98%. Quando esisteranno i confini fra Israele e lo Stato palestinese smilitarizzato la barriera difensiva non sarà più necessaria e, per questo, rimossa. Ecco l'immagine:

Ecco l'articolo del MANIFESTO:

Fra le retoriche che hanno innervato le narrazioni sulla globalizzazione, una delle più diffuse riguardava la fine dei territori sotto la pressione di uno spazio dei flussi sempre più smaterializzato. La sottovalutazione del «terreno», ridotto a carta o diagramma, rappresentava anche uno dei presupposti della Revolution in Military Affairs cara a Donald Rumsfeld, ossia dell’idea di una guerra «leggera » ed economica, in cui la supremazia tecnologica si sarebbe immediatamente tradotta in una stabile preminenza sul campo, che avrebbe poi trovato una clamorosa smentita nelle città irachene e fra le gole dell’Afghanistan. Rispetto a tale visione, opposto è ilmessaggio continuamente ribadito da un conflitto come quello israeliano-palestinese. In esso, il fattore territoriale conta. E tutti gli attori coinvolti ne sono consapevoli. Lo spazio è la risorsa tragicamente scarsa che le forze in campo si contendono.Ma la posta in gioco non è solo quantitativa. Lo spazio in questione, infatti, è eminentemente qualitativo, dotato di tratti di espressione, di velocità e lentezze, di relazioni di distanza e prossimità, di risorse e punti notevoli. Il tutto su una superficie complessiva inferiore a quella di molte regioni italiane, che obbliga a una scala cartografica che tende inesorabilmente a coincidere con le dimensioni fisiche del territorio. La centralità della cifra territoriale emerge, fin dai titoli, in due libri recenti sul conflitto israelo-palestinese Geopolitica del conflitto arabo israeliano palestinese. Spazi, fattori, culture di Giovanni Codovini (Bruno Mondadori, euro 20) e Architetture dell’occupazione. Spazio politico e controllo territoriale in Palestina e Israele di Eyal Weizman (Bruno Mondadori, euro 25. Ne ha scritto su queste pagine Lucia Tozzi il 16 Aprile). Il volume di Codovini può essere visto come un utile tentativo di evidenziare le diverse poste in gioco e le dinamiche di lungo periodo che soggiacciono al vorticoso susseguirsi degli eventi nell’area dell’ex Palestina mandataria. Ciò permette di considerare il conflitto israeliano-palestinese alla luce di un più articolato spettro di problematiche, smarcandosi da una vulgata dominante che spesso tende ad appiattirlo nei termini di un disincarnato scontro identitario se non, addirittura, di un’appendice delle tragedie europee del Novecento. In particolare la sezione dedicata alla geopolitica si sofferma sulle molteplici geografie che fanno da sfondo al conflitto. Bombe demografiche In primo luogo la questione dell’acqua, che dà vita a una vera e propria carta idropolitica ridefinendo la gerarchia dei singoli territori in relazione alle possibilità di accesso a una risorsa scarsa quanto cruciale. Vengono poi gli scenari legati ai trend demografici, con attendibili proiezioni che attestano nel medio-lungo periodo una preponderanza numerica della popolazione araba nell’area fra il Giordano e il Mediterraneo. La «bomba demografica» rappresenta senza dubbio una delle maggiori sfide percepite dalla classe dirigente israeliana, concorrendo in maniera significativa, insieme alle questioni idropolitiche e strategiche, a determinare, e allo stesso tempo a destabilizzare, la complessa struttura a «isole ed enclavi» attraverso la quale si sviluppa la logica di integrazione e segregazione che presiede al controllo israeliano sulla Cisgiordania. Sul testo di Codovini grava però un limite tanto politico che analitico, che emerge in particolare nelle sezioni dedicate alla storia politica. L’ampio ricorso al sostantivo e all’aggettivo «terrorista», in riferimento a organizzazioni come Hamas, Hezbollah o Fplp segnala la volontà di depoliticizzare e delegittimare il nemico, volontà da sempre fatta propria da Israele e, negli anni passati, adottata senza particolare fortuna dalla war on terror bushista. Il problema però non è solo politico. A livello analitico, infatti, in questi anni si è sottolineato da più parti il carattere problematico della trasformazione di una tecnica di combattimento, il terrorismo appunto, fatta propria da combattenti «regolari» quanto «irregolari», nella definizione sostanziale di specifici attori politici. Il fatto stesso che l’Onu non riesce ad approdare a una definizione di «terrorismo » discende non tanto da astratte questioni nominalistiche quanto da un problema operativo concreto, nella misura in cui, individuando per esempio come criterio discriminante l’assunzione di vittime civili quale obiettivo, si rischierebbe di stabilire una fattispecie applicabile a una serie di soggetti riconosciuti, e magari assai autorevoli, della società internazionale. Distribuire l’etichetta di terrorista a questo o quel soggetto politico può essere utile a fini di propaganda e rassicurante in termini di semplificazione, ma non aiuta affatto a comprendere fenomeni come quello di Hamas, la cui complessità, aldilà di ogni intento apologetico, emerge per esempio nel recente libro di Paola Caridi Hamas. Che cos’è e che cosa vuole il movimento radicale palestinese (Feltrinelli, euro 15). Istantanee coloniali Significativamente, invece, la parola «terrorismo » non ricorre mai nel libro di Eyal Weizman, direttore al Centre for Research Architecture al Goldsmiths College di Londra. Architetture dell’occupazione è senza dubbio il testo più significativo sul conflitto israelo-palestinese pubblicato negli ultimi anni. Ma non solo. Pur calibrata su un contesto situato, infatti, l’analisi di Weizman può essere assunta come paradigmatica di una vicenda più generale, riguardante gli impatti territoriali di politiche di sicurezza che si collocano su una scala globale. Se il fuoco è sul territorio, condividendo in ciò un’attenzione crescente per la geografia dei conflitti, l’approccio tuttavia non si limita a rintracciare sul campo i segni della guerra e dell’occupazione, maassume il territorio stesso come poderoso strumento di guerra, qualcosa che è al tempo stesso posta in palio e arma decisiva del conflitto. A un primo livello, il libro si presenta come una avvincente rassegna di istantanee coloniali, in cui il ruolo di protagonisti spetta non solo a eserciti e generali ma a un ampio spettro di figure e professioni civili: dai tecnici della rete telefonica Orange, che intorno a un’antenna telefonica danno il via alla costruzione dell’insediamento diMigron, agli archeologi che, cocci alla mano, dimostrano l’originaria «ebraicità» dei siti palestinesi. Ci sono poi gli architetti e gli urbanisti, che realizzano residence per coloni incentrati su un duplice regime di visibilità: una trasparenza interna che rafforza i vincoli comunitari e una telescopia verso l’esterno, per controllare imovimenti dei nativi. In questa mobilitazione permanente di mestieri e saperi, i militari, ovviamente, fanno la loro parte. Uno dei capitoli più impressionanti del libro descrive le strategie di contro-guerriglia adottate dall’esercito israeliano a partire dalla Seconda intifada. Da quanto appurato da Weizman, tra gli strateghi di Tsahal Mille piani di Deleuze e Guattari – per l’opposizione tra macchina da guerra e apparato di cattura e, soprattutto, fra spazio striato e spazio liscio – è uno dei testi più in voga.Macome si traduce operativamente tutto ciò? Nel caso dell’attacco al campo profughi di Balata, nel 2002, accettando la conformazione striata del territorio, le sue strade minate, i suoi vicoli chiusi punteggiati da cecchini, ci si esponeva a notevoli rischi. Territori striati Così l’esercito optò per uno spazio liscio recuperato attraverso gli interni delle abitazioni palestinesi. Nelle parole di un soldato: «Siamo avanzati esclusivamente attraverso le case (...) tutti noi, l’intera brigata (...) persino i veicoli sono stati sistemati dentro le abitazioni».Oin quelle di un ufficiale: «Abbiamo scelto di passare attraverso i muri come il verme che si fa strada mangiando, emergendo in alcuni punti per poi scomparire». O, ancora, in quelle di una donna palestinese: «Immagina: sei seduta nel soggiorno... dove tutta la famiglia si riunisce a guardare la televisione di sera... e improvvisamente la parete svanisce in un boato assordante, la stanza si riempie di polvere e dal muro si riversano soldati, uno dopo l’altro, urlando ordini». Se rendere liscio il territorio è l’ambizione delle nuove strategie di Tsahal, la realtà della colonizzazione dei Territori mostra una volta di più l’impossibilità di una partizione lineare fra israeliani e palestinesi. Gli stessi accordi di Oslo, del resto, riconoscevano l’impraticabilità di una tale separazione, demandando alla costruzione di una complessa rete infrastrutturale a più livelli (come nel caso del ponte tra Gaza e Cisgiordania o dei passaggi sopraelevati per i coloni) il ricompattamento delle disiecta membra delle due entità politiche. In maniera molto convincente, Weizman dimostra come questa verticalizzazione, aldilà della sua improbabile capacità di separare due stati, sia nei fatti già inscritta sul terreno, garantendo all’occupante israeliano il monopolio degli spazi sovrastanti. Laddove il muro verticalizza il confine, e i raid aerei lo spostano nei cieli, i tunnel palestinesi ne determinano un’ulteriore stratificazione sotterranea. In tutti i casi, il confine da linea diventa volume, da astrazione bidimensionale si trasforma in spazio tridimensionale. Proprio il tentativo di creare mondi paralleli in cui, pur insistendo sullo stesso esiguo territorio, palestinesi e israeliani non si incontrino mai, agisce come detonatore per una parossistica proliferazione di piani, per un continuo gioco al rialzo, e al ribasso, destinato però a scontrarsi contro il dato di fatto che, alla fine, «Israele e Palestina si sovrappongono e aderiscono», confutando ogni ipotesi di divisione. Anziché ipotizzare «soluzioni», l’analisi di Weizman si concentra allora su un presente che fa di Israele un vero e proprio laboratorio: per gli scenari di guerra, nella «palestinizzazione » dei conflitti iracheno e afgano, per la scomposizione delle forme di cittadinanza su nuovi modelli di apartheid, per la trasformazione dei dispositivi di confine da una matrice territoriale a una declinazione elastica e puntiforme, per la frammentazione di decisioni sovrane su una rete di pratiche e di attori disparati. Sorvegliare e punire Più in generale, Israele diviene luogo paradigmatico del securitarian turn che imperversa su scala globale e ci indica materialmente lo spettro di una «democrazia» sussunta dalle politiche di sicurezza. Un’immagine su tutte: il nuovo terminal situato sul ponte di Allenby, principale collegamento fra Giordania e West Bank. Qui l’architettura riflette e informa la farneticante razionalità panottica delle politiche di sicurezza, dando vita a un dispositivo che ricorda la scena descritta dalla prima tesi sulla filosofia della storia di Walter Benjamin, quella in cui un automa gioca a scacchi su una tavola circondata da specchi guidato in ogni mossa da un burattinaio nascosto. Attraverso un analogo gioco di specchi, che consente di osservare tutto senza essere visti, i militari israeliani controllano il movimento dei civili palestinesi e l’operato della polizia dei Territori, costringendola a passare sottobanco documenti e informazioni e riservandosi la possibilità di intervenire ad armi spiegate in qualsiasi momento. L’unica concessione a futuri possibili contenuta nel libro la si rintraccia nel capitolo finale, dedicato all’«architettura della decolonizzazione», in cui Weizman descrive un progetto che coinvolge comunità locali e collettivi di architetti nel tentativo di reinventare gli spazi delle colonie, assumendo come «già data» la loro restituzione. Si tratta però di una provocazione, un salto in avanti rispetto a un presente scandito da massacri, dal Muro che avanza nottetempo «concentrando» i Territori, da una colonizzazione che, contro ogni risoluzione internazionale, procede inesorabile. Per questo l’urgenza è soprattutto quella di arrestare un simile movimento. A questo proposito, Weizman ha illustrato recentemente un’ulteriore iniziativa in cui è coinvolto, altrettanto provocatoria ma meno «utopica»: alcuni siti individuati come strategici dai coloni risulterebbero essere meta di flussi migratori di straordinario interesse ornitologico, la cui trasformazione in aree faunistiche è incompatibile con ogni insediamento antropico. Constatare come i diritti degli uccelli contino più di quelli dei palestinesi è tanto tragico quanto sintomatico della Palestina di oggi. Ma un’oasi protetta è pur sempre preferibile a un’enclave coloniale militarizzata, se non altro in termini di proprietà o, perlomeno, di libero accesso.

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