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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Foglio - La Repubblica Rassegna Stampa
23.06.2009 Perchè Obama non prende una posizione netta contro il regime teocratico?
Analisi di Franco Venturini, Fareed Zakaria, Fouad Ajami, Marina Valensise, E. J. Dionne, Alix Van Buren

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio - La Repubblica
Autore: Franco Venturini - Fareed Zakaria - Fouad Ajami - Marina Valensise - E. J. Dionne - Alix Van Buren
Titolo: «Perché Trieste era la strada giusta - Il regime forse sopravviverà Ma la teocrazia islamica è finita - Perché Obama è finito nella trappola persiana e che cosa può fare - La piazza -Parlare va bene, ma noi liberal siamo per la democrazia -»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 23/06/2009, a pag. 52, gli articoli di Franco Venturini e Fareed Zakaria titolati "Perché Trieste era la strada giusta " e " Il regime forse sopravviverà Ma la teocrazia islamica è finita ". Dal FOGLIO, a pag. I, gli articoli di Fouad Ajami, Marina Valensise e E. J. Dionne titolati " Perché Obama è finito nella trappola persiana e che cosa può fare ", " La piazza " e " Parlare va bene, ma noi liberal siamo per la democrazia ". Dalla REPUBBLICA, a pag. 16, l'articolo di Alix Van Buren dal titolo " Oggi parla Obama ma l´America divisa sul sostegno alla rivolta " preceduto dal nostro commento. Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " Perché Trieste era la strada giusta "

Venturini crede che la partecipazione dell'Iran al G8 avrebbe permesso alle democrazie occidentali di far sentire maggiormente la propria voce sulle elezioni iraniane e la repressione dei manifestanti. Non siamo dello stesso parere. Gli interessi economici in Iran sono troppi.
Khamenei ha accusato Usa, Francia, Gran Bretagna e Israele di interferire nelle politiche iraniane e di fomentare le proteste in piazza. Perchè l'Italia non è stata citata? Ne deduciamo che, per l l'ayatollah, l'Italia è  un paese amico. Perchè il nostro governo non prende una posizione netta contro la teocrazia iraniana?  Ecco l'articolo:

Revocare un invito per la mancata risposta dell’invitato non è di solito la soluzione migliore: si finisce per dover ammettere di essere stati trattati con scarso rispetto, e si rinuncia a una motivazione più elevata per disdire l’appuntamento. Franco Frattini ha deciso ieri di correre il rischio, ponendo un limite al silenzio di Teheran sulla presenza iraniana al G8 di Trieste in programma venerdì e sabato.
Noi, pur comprendendo che «non si può stare troppo a lungo con la mano tesa», avremmo preferito sperare che alla fine l’Iran decidesse di esserci. Non perché ci sfugga l’inaudita repressione in atto a Tehe­ran nei confronti di manifestanti che denun­ciano brogli (ora in parte ammessi) e chiedo­no libertà. Non perché la sempre valida ricer­ca del dialogo o i nostri interessi commercia­li ci sembrino prioritari rispetto all’appog­gio che i giovani iraniani si aspettano dall’Oc­cidente. Ma piuttosto perché, se a Trieste si fosse presentata una delegazione iraniana degna di questo nome, i Paesi del G8 avreb­bero avuto l’occasione per farsi sentire me­glio di quanto siano riusciti a fare sin qui.
Se venisse accorciata la distanza che sepa­ra la retorica dalla politica, ci si accorgereb­be in questa come in tante altre occasioni che certi dilemmi non hanno ragion d’esse­re. Con Teheran, si deve alzare la voce e ri­schiare il naufragio del tentativo di dialogo guidato da Obama, oppure salvaguardare un futuro possibile negoziato e in questo caso chiudere un occhio su quanto sta accadendo nelle piazze della capitale iraniana? Credia­mo che l’alternativa, quando lo scontro rag­giunge certi livelli di violenza e di durata, non debba più esistere: chi si riconosce nei valori occidentali deve protestare senza ri­sparmio, e deve anche, quando le circostan­ze lo consentano, discutere con qualsiasi controparte nell’interesse della sicurezza e della pace.
Per questo da Trieste ci aspettavamo mol­to. Ci aspettavamo che non si parlasse soltan­to di Afghanistan e di Pakistan (il tema desi­gnato dell’incontro), ci aspettavamo che i membri titolari del G8 prendessero di petto gli iraniani su quanto è accaduto e sta acca­dendo nel loro Paese, ci aspettavamo, men­tre da Teheran piovono accuse contro gli oc­cidentali «provocatori», che con la necessa­ria fermezza venisse fatto presente ai messi di Ahmadinejad che la volontà di dialogo re­sta ma non può far dimenticare valori e liber­tà di critica. Si sarebbero irritati, gli iraniani? Pazienza. Il G8 avrebbe rischiato di spaccarsi per il dissenso della Russia? Due volte pa­zienza. Ma almeno, al posto delle prese di posizione tra l’ambiguo e il confuso che giungono dalle capitali occidentali, una li­nea di condotta sarebbe stata tracciata.
Invece gli iraniani non verranno. Invece non ci sarà nemmeno Hillary Clinton, che malgrado il suo braccio rotto avrebbe potu­to
articolare meglio la posizione Usa. Invece Frattini ha dovuto, per ragioni organizzative e forse anche tenendo conto di certi umori politici, far calare il sipario prima dell’ulti­mo atto.
Non ci resta che guardare a Teheran, sen­za aspettarci visite. Lì vediamo, e continuere­mo a vedere, una lotta di potere di cui i disor­dini e le manifestazioni sono soltanto la tra­gica parte emersa. Moussavi e Rafsanjani contro Khamenei e Ahmadinejad, vecchi ran­cori personali, il clero sciita spaccato in due, e dietro la frattura del potere una profonda frattura sociale: i benestanti quartieri setten­trionali di Teheran con Moussavi e contro le masse diseredate di Ahmadinejad, i giovani contro i meno giovani, i modernizzatori con­tro i conservatori, gli ammiratori di Obama contro gli iper nazionalisti. L’unica cosa cer­ta è che l’Iran non potrà più essere quello di prima, e che la lotta tra fazioni e interessi, più o meno visibile, durerà a lungo. Troppa carne al fuoco, forse, per pensare a Trieste.
E sia. Ma gli occidentali dovranno egual­mente affrontare la sfida di rimanere fedeli alla loro identità e insieme alla loro strategia politica. Il problema si pone spesso quando si tratta della difesa dei diritti umani. Oggi si pone al cospetto di un esplosivo rompicapo chiamato Iran.

CORRIERE della SERA - Fareed Zakaria : " Il regime forse sopravviverà Ma la teocrazia islamica è finita "

 Fareed Zakaria

Zakaria scrive : " Nel suo sermone del venerdì Khamenei ha detto che dietro alle proteste di piazza che hanno sconvolto Teheran c’erano gli Stati Uniti, Israele e soprattutto la Gran Bretagna, un’accusa che sicuramente apparirà ridicola a molti iraniani. Ma non a tutti: il sospetto di maneggi da parte di potenze straniere è profondamente radicato anche tra gli iraniani più occidentalizzati. ". Gli "iraniani più occidentalizzati" vorrebbero che l'Iran diventasse una democrazia e sono delusi dal mancato appoggio delle democrazie occidentali alle quali guardano come modello.
La politica morbida di Obama con l'Iran non è positiva ed è un peccato che Frattini non abbia revocato prima il suo invito all'Iran per il G8 di Trieste. Non era l'Iran a dover rifiutare di venire, ma il mondo democratico a rifiutare di accoglierlo. Ecco l'articolo:

Stiamo assistendo alla caduta della teocrazia islamica in Iran. Non intendo dire che il regime iraniano stia per crollare. Potrebbe anche succedere (e spero proprio che alla fine sarà così), ma i regimi repressivi possono durare a lungo. Stiamo assistendo al fallimento dell’ideologia sulla quale si basa il governo iraniano.
Nel 1970 il fondatore del regime, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, espose la sua personale interpretazione dell’Islam politico in una serie di conferenze. In questa interpretazione dell’Islam sciita, sosteneva che i giuristi islamici ricevono direttamente da Dio il potere di governare e custodire la società, di essere gli arbitri supremi non solo delle questioni morali, ma anche di quelle politiche. Quando Khomeini istituì la Repubblica Islamica dell’Iran, pose al suo centro questa idea,
velayat-e faqih, il governo della Guida Suprema. La scorsa settimana questa ideologia ha subito un colpo fatale.
L’attuale Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, dichiarando che l’elezione di Mahmoud Ahmadinejad è «voluta da Dio», ha usato l’arma del
velayat-e faqih, della ratifica divina. Milioni di iraniani non ci hanno creduto, convinti che il loro voto — uno dei diritti laici fondamentali consentiti dal sistema religioso iraniano— fosse stato tradito. Khamenei è stato così costretto ad accettare che vi fosse una verifica dei risultati. Il Consiglio dei Guardiani della Costituzione, l’organo costituzionale supremo iraniano, ha promesso di indagare, di incontrare i candidati e di contare nuovamente i voti. Khamenei ha capito che l’esistenza del regime è a rischio, e ha ora irrigidito la sua posizione, ma questo non basta a rimettere le cose a posto.
È ormai chiaro che oggi in Iran la legittimità non discende dall’autorità divina, ma dalla volontà popolare. Per trent’anni
il regime iraniano ha esercitato il potere grazie al suo primato religioso, riuscendo a scomunicare chi osava sfidarlo.
Ora non funziona più, e i mullah lo sanno. Per milioni di iraniani, forse per la maggioranza della popolazione, il regime ha perso la sua legittimità.
Se gli alti ranghi del clero mettessero in dubbio il giudizio divino di Khamenei e affermassero che il Consiglio dei Guardiani è in errore, infliggerebbero un colpo mortale alle premesse fondamentali su cui si regge la Repubblica Islamica dell’Iran. Sarebbe come se un importante leader sovietico avesse affermato nel 1980 che le teorie di Marx sull’economia erano sbagliate.
La Repubblica Islamica potrebbe sopravvivere, ma verrebbe meno la sua legittimità. Il regime ha sicuramente le armi per vincere questa battaglia; anzi, sarà questo l’esito più probabile, ma dovrà ricorrere a misure drastiche: vietare le manifestazioni,
arrestare gli studenti, punire i leader e imbavagliare la società civile. Comunque vada è ormai chiaro che in Iran milioni di persone non credono più all’ideologia del regime. Se questo vorrà mantenere il potere, dovrà farlo con i mezzi usati in Unione Sovietica negli ultimi anni dell’era Brèžnev, con la minaccia delle armi. «L’Iran assomiglierà all’Egitto», dice Reza Aslan, intellettuale di origini iraniane, alludendo a un regime che, dietro una facciata politica, si regge sui fucili e non sulle idee. (...) Nel suo sermone del venerdì Khamenei ha detto che dietro alle proteste di piazza che hanno sconvolto Teheran c’erano gli Stati Uniti, Israele e soprattutto la Gran Bretagna, un’accusa che sicuramente apparirà ridicola a molti iraniani. Ma non a tutti: il sospetto di maneggi da parte di potenze straniere è profondamente radicato anche tra gli iraniani più occidentalizzati. Il fatto che Obama sia stato cauto nel replicare rende ancor più difficile per Khamenei e ad Ahmadinejad ammantarsi della bandiera nazionalista.
I neoconservatori stanno criticando Obama per la sua cautela. Paul Wolfowitz, vice del segretario della difesa Donald Rumsfeld, ha paragonato la reazione della Casa Bianca alle esitazioni di Ronald Reagan durante le manifestazioni di protesta contro il regime di Ferdinand Marcos nelle Filippine. Ma l’analogia non regge. Marcos era una pedina americana, era al potere grazie agli Stati Uniti. I contestatori chiedevano a Reagan di ritirare il suo appoggio e di lasciare che gli eventi seguissero il loro corso.
L’Iran è invece un Paese indipendente, fortemente nazionalista, che nella sua storia ha subito interferenze politiche ed economiche da parte della Gran Bretagna e degli Stati Uniti.
Nel 1901 la Gran Bretagna si è praticamente appropriata dell’industria petrolifera iraniana; nel 1953 gli Stati Uniti hanno orchestrato un colpo di stato. Lo Scià fu soprattutto accusato di essere un fantoccio nelle mani degli americani. Come in molti altri Paesi con analoghi trascorsi (un altro esempio è l’India), anche in Iran il sentimento anti-imperialista è molto forte.
Gli iraniani sanno che questa è la loro lotta, e vogliono che lo sia.
(...) La crisi della Repubblica Islamica avrà ripercussioni in tutto il mondo musulmano.
Anche se l’Iran è sciita, mentre la maggior parte del mondo islamico è sunnita, l’ascesa al potere di Khomeini era stato uno shock per tutti i Paesi musulmani, un segno che il fondamentalismo islamico era una forza con cui fare i conti.
Alcuni Paesi, come l’Arabia Saudita, hanno cercato di neutralizzare quella forza. Altri, come l’Egitto, l’hanno repressa brutalmente. Ma l’Iran è diventato ovunque il simbolo dell’ascesa dell’Islam politico. Se ora cadrà, una fase storica trentennale cambierà corso.

Il FOGLIO - Fouad Ajami : " Perché Obama è finito nella trappola persiana e che cosa può fare "

 Fouad Ajami

Il presidente Barack Obama non ha “perso” l’Iran. Non è un momento da Jimmy Carter. Il periodo di formazione sui temi dipolitica estera del 44o presidente americano è appena iniziato. Finora è stato superficiale, si è affidato alla sua biografia come ponte verso popoli lontani, ha creduto di poter dissuadere farabutti e ideologi dalle loro profonde credenze. Il suo predecessore aveva tracciato linee nella sabbia. Lui vorrebbe guardare oltre. Così un uomo che non si era sentito a proprio agio con il suo secondo nome (Hussein) in campagna elettorale è andato ad Ankara e al Cairo, inserendosi in una guerra civile che va al di là dello stesso islam. Il regime teocratico iraniano sta tentando di dominare la ragione; Obama gli ha offerto un ramoscello d’ulivo e ha atteso che “schiudesse” il suo pugno. Il messaggio del presidente è strano e contrastato. E’ stato al contempo un araldo del cambiamento e un esperto di realpolitik. Può attirare le folle, eppure può garantire agli autocrati che la “diplomazia della libertà” che li ha scossi nel corso della presidenza di George W. Bush è morta e sepolta. Diamo ai governatori di Teheran e Damasco ciò che gli spetta: sono stati rapidi a prendere le misure del nuovo amministratore del potere americano. Era arrivato per portarli a un “engagement”. Era svanita la speranza di trasformare questi regimi o farli pagare per le loro trasgressioni. Si diceva che la teocrazia stesse attendendo un’apertura americana, e che questo nuovo presidente avrebbe posto fine a tre decenni di allontanamento tra Stati Uniti e Iran. Ma in realtà l’Iran non ha mai voluto un’apertura verso gli Stati Uniti. Per tre decenni, i custodi della teocrazia hanno avuto il livello di ostilità verso gli Stati Uniti che volevano – abbastanza da essere una colla ideologica per il regime ma non sufficiente per rappresentare una minaccia al loro potere. I governanti dell’Iran si sono fatti strada nel mondo con una relativa facilità. Nessuna Armata bianca si è riunita per restaurare il dominio degli scià. La Guerra fredda e il petrolio li hanno salvati. Così come la falsa speranza che la rivoluzione si addolcisse e facesse la pace con il mondo. Obama forse crede che la sua offerta all’Iran sia una spaccatura con la linea dura della politica americana. Ma nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Nel 1989, nel suo discorso inaugurale, George H.W. Bush avanzò un’offerta all’Iran: “La buona volontà genera buona volontà”, disse. Un decennio dopo, col tipico spirito clintoniano di rimorso e contrizione, il segretario di stato Madeleine Albright porse le scuse per il ruolo dell’America nel rovesciamento del 1953 che spodestò il premier nazionalista Mohammed Mossadegh.I governanti iraniani la schernirono. Avevano ereditato un mondo, e non avevano alcun bisogno di aprirlo all’estero. Erano in grado di volare al di sotto dei radar. Le azioni di terrorismo selettive e mirate e i proventi del petrolio hanno permesso loro di mantenere intatto il regime. Ci sono un orgoglio persiano, una solitudine persiana e l’impatto di questi tre decenni di zelo e indottrinamento. L’opera teatrale dell’elezione di Obama non era un affare iraniano. Avevano una loro elezione da mettere in scena. Mahmoud Ahmadinejad – figlio dell’ordine rivoluzionario dell’ayatollah Khomeini, un uomo che arriva dalle brigate del regime, austere e indifferenti agli esterni, un uomo normale iraniano con abiti che gli stanno male e calzini bianchi – era in ballo per la rielezione. Molti nei massimi livelli iraniani non lo apprezzavano e si sono intrufolati dentro il sistema di controlli che i mullah, i militari e le brigate rivoluzionarie avevano messo in piedi, ma Ahmadinejad aveva il potere, il denaro e gli organi di stato schierati al suo fianco. C’era una linea di demarcazione ben visibile nel paese. C’erano certo iraniani che anelavano alla libertà, ma non dobbiamo sottostimare il potere e la determinazione di coloro che sono mossi dall’anelito alla pietà. Il populismo interno di Ahmadinejad e il tono di sfida all’estero, la dichiarazione che la ricerca per ottenere il nucleare è “un capitolo chiuso”, definito e oltre ogni discussione, hanno grande risonanza sul suolo iraniano. Il suo sfidante, Mir Hossein Moussavi, più vecchio di una generazione, non poteva competere con lui su quel terreno. Sulle rovine dell’ancien régime, i rivoluzionari iraniani – bisogna ammetterlo – hanno costruito uno stato formidabile. Gli uomini che sono sopravvissuti alla lotta crudele e sanguinaria sull’identità e sulle spoglie del loro paese sono tenaci e senza pietà. La loro capacità di repressione è spaventosa. Dobbiamo frenare la presunzione moderna che i blogger – e la forza di Twitter e Facebook – possano vincere per le strade contro gli squadroni del regime. Quella lotta sarebbe una tragedia iraniana e tutti gli altri fuori dal paese sarebbero meri spettatori. L’ambivalenza al centro della diplomazia obamiana sulla libertà non ha reso un bel servizio alla politica americana durante questa crisi. Abbiamo cercato di “barare” – un’apertura al regime con una strizzatina d’occhi obbligatoria a coloro che sono scesi in strada impauriti dal cinismo dei loro governanti e dalla loro disattenzione nei confronti dell’intelligenza e del buon senso del loro popolo – e siamo rimasti intrappolati. Obama dovrà riconoscere “l’essere straniero” dei paesi stranieri. La sua ariosa sicurezza in se stesso è stata messa sull’avviso L’Amministrazione Obama ha creduto alla sua stessa retorica, secondo la quale la coalizione filo occidentale del 14 marzo in Libano aveva cavalcato il cavallo di Obama verso una vittoria elettorale. (Ha fatto capire in ogni modo di aspettarsi una prova simile in Iran). Ma l’affermazione sul Libano rifletteva la poca comprensione delle forze in gioco nella politica libanese. Quella competizione era regolata dalle regole libanesi e dal tira e molla degli interessi sauditi, siriani e iraniani in Libano. Il discorso del 4 giugno di Obama al Cairo non ha ridisegnato il paesaggio islamico. Ero in Arabia Saudita quando Obama è andato a Riad e al Cairo. La terra non si è mossa, la vita è andata avanti come al solito. C’erano innumerevoli persone confuse dalla presunzione dell’intero evento, un esterno che aveva messo becco nelle questioni sacre della loro fede. In Arabia Saudita, e nelle cronache degli altri paesi arabi, si sentiva il disagio di fronte al fatto che un ambito ideologico e culturale così complicato potesse essere approcciato con tale facilità e fretta. E quella era l’età dell’oro? Giorni dopo l’inizio della sua presidenza, bisogna ricordare, Obama aveva parlato del suo desiderio di restaurare nelle relazioni dell’America con il mondo islamico il rispetto e il mutuo interesse che c’erano stati 20 o 30 anni prima. Parlava quindi del trentesimo anniversario della Rivoluzione iraniana – e il lasso di tempo cui si stava riferendo, l’età dell’oro secondo lui, copriva l’invasione sovietica dell’Afghanistan, le fratture fra America e Libia, la caduta di Beirut nelle mani delle forze del terrorismo e l’abbattimento del volo 103 della Pan Am su Lockerbie, in Scozia. Gli opinionisti liberal si sarebbero messi a strillare se questa storia l’avesse raccontata George W. Bush, ma a Barack Obama è stata concessa una deroga. Poco più di trent’anni fa, Jimmy Carter, un altro presidente americano convinto che ciò che era successo prima di lui potesse essere annullato e scomparire, chiese alla nazione di dimenticare la “paura smodata del comunismo” e di accantonare il timore di “solite questioni di guerra e pace” a favore di “nuove istanze globali di giustizia, uguaglianza e diritti umani”. Avevamo tradito i nostri principi nel corso della Guerra fredda, disse, “combattuto fuoco contro fuoco, non pensando mai che il fuoco si spegne con l’acqua”. La risposta sovietica a quel nuovo mondo coraggioso fu l’invasione dell’Afghanistan nel 1979. Carter ha poi vissuto una redenzione nell’ultimo anno della sua presidenza, atteggiandosi come un falco di ritorno. Ma era troppo tardi. Ci sarebbe stato bisogno di un leader eccezionale come Ronald Reagan per vedere quella battaglia giungere alla vittoria. La terribile esperienza iraniana e i suoi strascichi hanno oscurato la presidenza di Carter. L’apprendistato persiano del presidente Obama è appena cominciato.

Il FOGLIO - Marina Valensise : " La piazza "

Ladan Boroumand

Roma. Ladan Boroumand ha l’antikhomeinismo nel sangue. Suo padre, Abdorrhman, riformista del partito di Shahpur Bakhtiar, l’ultimo premier dello scià, fu assassinato a Parigi nella primavera del 1991, pochi mesi prima che uccidessero anche Bakhtiar, fautore dell’apertura di Reza Pahlavi a partiti e sindacati. Dopo aver preso un dottorato con François Furet sulla Rivoluzione francese, Ladan Boroumand dirige da Washington la Fondazione per i diritti dell’uomo intestata a suo padre, una specie di Memorial iraniano che in pochi anni è riuscito a raccogliere un gigantesco archivio sulle migliaia di vittime del regime degli ayatollah, anche a costo di dover cambiare l’intestazione Web per sviare i reiterati tentativi di censura da parte del regime. Ladan Boroumand oggi segue con apprensione le notizie da Teheran, ultime quelle sull’arresto e il rilascio della figlia di Hashemi Rafsanjani. Faezeh “vuole conquistare il ruolo da pasionaria liberale: soltanto che è la figlia di un politico per il quale dire ‘non ha niente di liberale’ è un eufemismo”. Il regime degli ayatollah, dice Ladan, “sta vivendo una frattura molto profonda e per quanto sia difficile capire che cosa succeda dietro le quinte, Rafsanjani deve disporre di forti mezzi di pressione. Se la popolazione risponderà all’appello allo sciopero generale indetto per oggi, entreremo in una nuova fase, e in questo frangente il sostegno degli stati democratici è cruciale”. Ladan Boroumand biasima, a questo proposito, le oscillazioni del presidente americano: “Non credo che Barack Obama sia stato di grande aiuto quando all’inizio della crisi iraniana ha detto che gli Stati Uniti negozieranno col vincitore: così facendo ha contribuito soltanto a consolidare l’arroganza della Guida Suprema”. Militante dei diritti dell’uomo, Ladan Boroumand cita il precedente del 1997, quando per la vittoria di Mohammad Khatami fu determinante il ritiro degli ambasciatori occidentali deciso di concerto dagli stati stranieri insieme per protestare contro il caso Rushdie. “Dovrebbero fare la stessa cosa oggi per aiutare il popolo iraniano a vincere questa prova di forza. Gli arresti infatti continuano e le condanne a morte pure: una grande dimostrazione di solidarietà avrebbe di sicuro un forte impatto”. Intanto, però, la popolazione continua a protestare contro i brogli elettorali, ma non sembra protestare contro la natura teocratica della Repubblica islamica. “Le elezioni in Iran non sono libere e non sono nemmeno considerate una fonte di legittimazione democratica. La legittimità deriva da Dio, non dal popolo: il popolo si può anche consultare, ma non è la sua volontà a dettare leggi, bensì la volontà di Dio. E se il popolo devia dalla volontà divina, dovrà ritornare sulla buona strada”, spiega Ladan Boroumand ricordando come in effetti nessuno dei quattro candidati alle elezioni del 12 giugno abbia mai messo in discussione il potere assoluto della Guida Suprema. “I candidati vengono selezionati dal Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione, composto per metà da mullah e per metà da giuristi designati dal leader supremo Khamenei, il quale, nominato a vita, esercita un potere assoluto responsabile solo verso Dio. La Costituzione della Repubblica islamica prevedeva che il capo supremo potesse essere eletto dal Consiglio degli Esperti, soltanto che per entrare nel Consiglio degli Esperti bisognava passare dal Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione. E’ per questo che oggi regna a Teheran una oligarchia fondata sulla cooptazione per la quale le elezioni contano poco: servono soltanto come valvola di sfogo alle tensioni interne”. Le trattative e la corruzione Eppure da quando la Guida Suprema si è pronunciata a favore di Mahmoud Ahmadinejad, l’apprezzamento per il voto popolare sembra diverso: “Khamenei ha fatto allusione alla differenza di oltre dieci milioni di voti a favore di Ahmadinejad per sottolineare che brogli di questa portata sono improbabili. Ha condannato le manifestazioni di piazza come un complotto straniero, e ha messo in guardia i candidati alle elezioni dal continuare le proteste, minacciando una violenta repressione sui manifestanti, e suggerendo ai candidati di rivolgersi direttamente al Consiglio dei Guardiani, lo stesso che ha organizzato la truffa. Così, nello stesso momento in cui si dichiara vicino a Ahmadinejad piuttosto che a Rafsanjani, Khamenei invita gli oligarchi a rinunciare alle accuse reciproche di corruzione. E’ una partita a scacchi molto pericolosa. La Guida Suprema rifiuta nuove elezioni, ma pone i candidati sconfitti di fronte a un dilemma: sottoporsi al verdetto delle urne, oppure essere esclusi dall’oligarchia finendo fra gli oppositori del regime. Khamenei tenta così di sfruttare i vantaggi di una forte partecipazione elettorale per dimostrare la legittimità del regime, senza però rispondere alle rivendicazioni dell’elettorato. Per capire che cosa succederà, bisognerebbe conoscere le trattative dietro le quinte. Ma ci sono almeno due fattori chiave che rischiano di andare fuori controllo: lo stato psicologico della popolazione – sarà disposta a spingere la contestazione sino a un punto di non ritorno? – e il grado di coesione interna del regime: sino a che punto può contare sulle forze di sicurezza interna? E a quale ritmo avvengono le defezioni?”.

Il FOGLIO - E. J. Dionne : "  Parlare va bene, ma noi liberal siamo per la democrazia"

 E. J. Dionne

Imanifestanti scendono in strada per chiedere libertà ed elezioni giuste. Un governo repressivo ordina rappresaglie e denuncia i dissidenti come se fossero sovversivi contro la patria. Il cambiamento, addirittura la rivoluzione, è nell’aria. I liberal e i progressisti dovrebbero essere alleati naturali di chi cerca di ribaltare l’ordine esistente. O sono per la democrazia, per l’uguaglianza e la libertà, o non sono niente. In teoria, è conservatore chi predica la prudenza. Ma c’è una tensione nella visione progressista. Di solito, la sinistra è a favore della moderazione anche in politica estera. Preferisce negoziare piuttosto che dichiarare guerra, consiglia cautela nell’uso del potere americano e si ritrare di fronte alla pistola-facile di parte della destra. L’Iraq è la “prova A” del pericolo della presunzione che il potere americano possa facilmente rifare il mondo. Mentre gli iraniani combattono in strada per trasformare il loro paese, il presidente Obama si ritrova dentro questo dilemma liberal. Prima delle elezioni, aveva avviato gli Stati Uniti sulla via della negoziazione con il governo iraniano – proprio quel governo la cui legittimità si stava sgretolando durante il weekend al punto da dover prendere seri provvedimenti contro l’opposizione. Secondo una linea di politica estera realista, Obama sapeva che alla fine dello scontro in corso, gli Stati Uniti avrebbero dovuto ancora negoziare con l’Iran sui risultati del suo programma nucleare e su altre questioni che si riferiscono “agli interessi di lungo termine”. E’ pure vero che se il governo degli Stati Uniti abbracciasse i coraggiosi manifestanti dell’opposizione iraniana troppo calorosamente, potrebbe screditarli e creare una ragione per quella repressione che i loro avversari speravano comunque di scatenare. Ma non appena i manifestanti si sono rafforzati e le immagini del loro coraggio hanno catturato l’immaginazione di tutto il mondo, il presidente ha iniziato a realizzare che la discrezione era insufficiente. Lentamente, la linea dell’Amministrazione Obama è diventata più dura, pure se non abbastanza da soddisfare quei numerosi conservatori che erano innanzitutto contrari alla politica di dialogo con l’Iran decisa da Obama. Per i critici, la strategia di Obama è senza cervello. Il loro consiglio: stare dalla parte della libertà e dei diritti umani, rifiutare i mullah oppressivi senza badare alle conseguenze. Se l’opposizione vince, vincono tutti. Se il regime prende provvedimenti e riesce a sopravvivere, l’“engagement” è morto. Il che, dal punto di vista dei critici di Obama, è una “win-win solution”, una vittoria completa. In effetti, Obama aveva ragione a essere cauto, per due ragioni: perché gli Stati Uniti non dovrebbero fare agli avversari del regime false promesse che poi non possono mantenere; e perché il nostro abbraccio potrebbe, nei fatti, nuocere ai dissidenti. E, paradossalmente, i leader politici europei sono stati schietti e diretti nel sostenere i democratici iraniani proprio perché la moderazione di Barack Obama ha dato loro lo spazio per agire in modo indipendente. Ma se Obama, come leader del governo americano, deve usare grande attenzione nel calcolare le sue mosse, i ranghi e le fila progressiste e i liberal fuori dal governo dovrebbero essere risoluti e spudorati nel difendere la lotta iraniana per la libertà. Scrivendo la scorsa settimana su The New Republic sul tema di come rapportarsi con la classe dirigente iraniana, il filosofo politico Michael Walzer ha riassunto per bene la divisione dei compiti: “Per liberal e uomini di sinistra: opposizione e nient’altro; per i diplomatici del dipartimento di stato: strette di mano e negoziati”. Ma gli eventi durante il weekend sono andati oltre questo approccio. Se il regime iraniano semplicemente sopprime i suoi avversari politici, sarà impossibile riprendere in breve tempo le relazioni diplomatiche come se nulla fosse successo. E anche se il governo attuale dovesse sopravvivere nel breve periodo, ora sappiamo che il suo potere è traballante. C’è più opposizione in Iran di quanto noi – e probabilmente anche gli stessi iraniani – potevamo sapere, e quindi esiste una maggiore opportunità di cambiamento. Per questo Obama deve rendere più dura la sua retorica. Ha inviato un chiaro messaggio sabato quando ha invitato il governo iraniano “a bloccare tutte le azioni violente e ingiuste contro il proprio popolo” e ha avvertito che non si può aspettare “il rispetto della comunità internazionale” se trascura “il rispetto della dignità del proprio popolo e del governo attraverso il consenso, e non la coercizione”. Il presidente Barack Obama, d’accordo con i nostri alleati, sta ora dicendo al regime iraniano che pagherà un prezzo per la repressione. Il punto della politica americana è che non importa quanto siamo impegnati nella negoziazione, siamo anche militanti della democrazia. L’iniziale prudenza di Obama ha servito gli interessi della libertà chiarendo che la rivolta contro le elezioni ingiuste in Iran è nazionale, nasce all’interno della Repubblica islamica. Se la battaglia continua, noi non possiamo pretendere di restare indifferenti al suo risultato. Non è facile passeggiare sulla strada progressista. Ma Obama ha sempre detto di sapere come affrontare le situazioni complesse. Questa è la sua occasione per provarlo.

La REPUBBLICA - Alix Van Buren : "Oggi parla Obama ma l´America è divisa sul sostegno alla rivolta   "

 Che cosa sta aspettando?

Alix Van Buren analizza le prossime mosse di Obama con l'Iran. A suo avviso la politica statunitense continuerà ad essere morbida per scongiurare un'eventuale guerra fra Ue/Usa e Iran. Noi, invece, non vediamo giustificazioni al fatto che il presidente della prima potenza industriale, economica e militare rimanga inerme davanti a quanto sta succedendo in Iran e non prenda una posizione netta contro la teocrazia iraniana. Ecco l'articolo:

Il presidente Barack Obama oggi pronuncerà il giudizio tanto atteso sull´Iran. Gli obiettivi del mondo si fisseranno sul Giardino delle rose quando Obama si presenterà a una stampa impaziente di estrargli una posizione più netta sul sanguinoso imbroglio iraniano. La cautela del presidente, fa sapere il suo entourage, non è inoperosità: Obama s´è più volte riunito coi suoi consiglieri nello Studio Ovale per valutare le notizie in arrivo da Teheran. Ma il dubbio più ripetuto è se la Casa Bianca compirà la virata che molti reclamano.
Se si sta alle indiscrezioni filtrate dai più stretti consiglieri, il quadro che offre l´Iran non porgerebbe spiragli di speranza per una rivalsa dei riformisti. Agli occhi di Washington, le forze dell´opposizione sarebbero deboli rispetto a un regime ancora compatto e sorretto dai pilastri istituzionali. «L´interrogativo fondamentale è questo», riflette uno degli esperti più vicini alla presidenza: «Chi ha, saldi in pugno, i fucili? cioè la forza per schiacciare le dimostrazioni, ed è pronto a farlo come in Birmania? La risposta è: il regime, che non teme per la propria immagine. Infatti non si vedono le fessure indispensabili a far crollare il potere. La classe media è in buona parte ancora con il governo. Rafsanjani e Montazeri non possiedono le leve per scalzarlo».
Così, Washington si preparerebbe all´eventualità di una Tiananmen iraniana: «Oggi a Teheran come dieci anni fa a Pechino, probabilmente assisteremo a uno spettacolo devastante. Allora il mondo restò impotente a guardare. È possibile che si ripeta lo stesso». Ma alla fine, dal ragionamento, affiora l´altro interrogativo che impegna la Casa Bianca: «Come si va al tavolo del negoziato con un interlocutore che ha schiacciato il suo popolo?». Su questo punto la diplomazia è divisa. Il fronte dei realisti non vede alternative: «Ci si va tappandosi il naso, come con la Corea del Nord. Se si vuole scongiurare una guerra, né l´America né l´Europa possono mettersi da sé nell´angolo». Insomma, si può scommettere che ancora oggi nelle parole di Obama prevarrà la cautela.

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