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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica - L'Unità - Il Giornale Rassegna Stampa
23.06.2009 Iran: non accetta l'invito al G8. Frattini... ne prende atto
Cronache di Guido Olimpio, Maurizio Molinari, Maurizio Caprara, Giampaolo Cadalanu. Interviste di Gian Micalessin, Gabriel Bertinetto, Francesca Caferri

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica - L'Unità - Il Giornale
Autore: Guido Olimpio - Maurizio Caprara - Maurizio Molinari - Giampaolo Cadalanu - Gabriel Bertinetto - Gian Micalessin - Francesca Caferri
Titolo: «Una fatwa contro i due leader d’opposizione - Tecnologie occidentali per la censura degli ayatollah - Vertice G8 a Trieste, l’Italia rinuncia alla presenza iraniana - Panico fra gli ayatollah. Fuga di soldi all’estero - Vahid, il gay clandestino che risc»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 23/06/2009, a pag. 24, gli articoli di Guido Olimpio titolati " Una fatwa contro i due leader d’opposizione " e " Tecnologie occidentali per la censura degli ayatollah " e, a pag. 25, l'articolo di Maurizio Caprara dal titolo " Vertice G8 a Trieste, l’Italia rinuncia alla presenza iraniana  ". Dalla STAMPA, a pag. 15, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Panico fra gli ayatollah. Fuga di soldi all’estero ". Dalla REPUBBLICA, a pag. 16, l'articolo di Giampaolo Cadalanu dal titolo " Vahid, il gay clandestino che rischia la forca ". Dall'UNITA', a pag. 24, l'intervista di Gabriel Bertinetto a Bani Sadr dal titolo " In Iran rottura tra regime e il popolo. Vincerà la democrazia ", dal GIORNALE, a pag. 16, l'intervista di Gian Micalessin a Ebrahim Nabavi, scrittore satirico iraniano esule, " Il potere è diviso, persino i religiosi lasciano Ahmadinejad "dalla REPUBBLICA, a pag. 15, l'intervista di Francesca Caferri a Shirin Ebadi dal titolo " In Iran censura e violenza chiedo l´aiuto dell´Europa ". Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Una fatwa contro i due leader d’opposizione  "

 Ayatollah Misbah Yazdi

WASHINGTON — Una maledizione sulla testa di quanti contestano l’esito del voto. L’ultraconservatore Misbah Yazdi, padrino spirituale del presidente Ahmadinejad, ha lanciato una fatwa — decreto religioso — che autorizza a eliminare fisicamente i due candidati riformisti, Mir Mousavi e Mehdi Karroubi.
Hanno messo in dubbio l’autorità e per questo sono punibili con la morte. Un atto estremo — rivelato al Corriere da fonti mediorientali — per dare forza ai radicali nella drammatica sfida in atto nel paese e far capire che la repressione sarà feroce. Una mossa che si inserisce in una partita dove non c’è più solo la prova di forza dei riformisti con l’apparato, ma anche il duello tra i gerarchi con il turbante. Yazdi non ha nascosto la sua dura avversione verso chi ha contestato gli esiti del voto.
Persone da spazzare via perché sono viste come un ostacolo alla realizzazione di quella che è una «missione divina», ossia il ritorno del dodicesimo Imam. Una credenza che anima il movimento Hojateh al quale appartengono tanto Yazdi che il suo discepolo Ahmadinejad. L’ayatollah— aggiungono fonti del Golfo — avrebbe emesso un’altra fatwa che permetteva i brogli per favorire il successo del candidato radicale.
La sortita di Yazdi potrebbe inasprire il confronto all’interno del clero dove non mancano le voci di dissenso.
Esponenti religiosi hanno, infatti, espresso dubbi sugli esiti della consultazione e criticato il comportamento del presidente arrivando a mettere in discussione la guida Khamenei. Critiche che l’ayatollah ha respinto: a suo giudizio chi è sceso nelle strade per protestare e ha partecipato ai disordini «sta minando la volontà di Dio».
Persone responsabili di un doppio peccato. Tradiscono la Repubblica islamica e il Corano, la Guida e Allah. Una perfetta rappresentazione di una linea che mescola politica e religione dove più della legge conta una fatwa.

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Tecnologie occidentali per la censura degli ayatollah "

 in soccorso del vincitore !

WASHINGTON — Gli ayatollah han­no il loro «piccolo grande fratello». Un sistema che permette di censurare, con­trollare, sorvegliare il traffico Internet e telefonico. Un apparato realizzato — come ha rivelato ieri il Wall Street Jour­nal — con l’aiuto di due giganti della telecomunicazione occidentale, la tede­sca Siemens e la finlandese Nokia. Un arsenale non letale che il regime ha atti­vato non appena la protesta popolare è dilagata grazie anche al passaparola elettronico.
Ma c’è dell’altro. Per tenere d’occhio i dissidenti le autorità iraniane hanno bussato, negli scorsi anni, alle porte di molti Paesi europei. E — secondo no­stre fonti — hanno ricevuto aiuti «sen­sibili » da parte di Italia e Germania che hanno ceduto materiale per le intercet­tazioni poi finito nelle mani degli 007 della Vevak, la polizia segreta. Altri «giocattoli» sono stati forniti da emis­sari disseminati dagli Stati Uniti al­l’Asia.
Con gli italiani, i mullah sono ricorsi alla classica tattica dello scambio al­l’ombra di minacce velate. Poiché l’Ita­lia ha schierato contingenti militari in regioni dove Teheran ha una certa in­fluenza — Afghanistan occidentale, sud dell’Iraq, Libano meridionale — non è stato difficile stabilire un patto tacito. Noi cerchiamo di mettervi a ripa­ro
da attacchi — è stata la proposta de­gli iraniani — e voi ci fornite il know how per sorvegliare le comunicazioni. Prima dell’11 settembre cercavano, in­vece, dati sui molti oppositori residenti nel nostro Paese.
Nulla di strano, con Teheran va avan­ti così da anni, in nome di affari che fanno dell’Italia il terzo partner degli ayatollah. Rapporti legittimi accompa­gnati da relazioni proibite sempre nega­te.
Storie che forse appartengono al pas­sato ma ben note a chi gestisce il dos­sier. E in alcuni casi la sponda iraniana ha evitato attentati, in altri si è mostra­ta inutile.
Più trasparente, invece, l’accordo del 2008 che ha portato la joint venture Sie­mens- Nokia (Nsn) a mettere a punto un «centro di monitoraggio» all’inter­no della Telecom iraniana. Quando, nel­l’aprile di quest’anno, sono emersi dei
particolari sull’intesa, un portavoce del­la Nsn ha confermato la fornitura della tecnologia riguardante l’installazione di un network di supporto alla telefo­nia mobile. «Se tu vendi la rete — ha precisato un portavoce — cedi anche la capacità di intercettare qualsiasi comu­nicazione ». La Nsn ha venduto il pro­dotto a 150 Paesi, ma non a Cina e Bir­mania, due Paesi spesso denunciati per le dure repressioni. Una remora morale che invece non ha im­pedito di cedere al­­l’Iran un sistema dalle ampie possibilità. Chi lo gestisce è in grado di leggere le email, con­trollare i telefoni, sor­vegliare il traffico elet­tronico. Un gran setac­cio dove sono finite in­formazioni usate per incriminare dissi­denti. Uno di loro, fermato dalla Vevak, ha raccontato che gli agenti gli hanno mostrato copie con gli scambi di mes­saggi e dei colloqui privati. Un «flusso» sufficiente a giustificare lunghi interro­gatori, seguiti da periodi di detenzione in centri speciali.
I servizi di sicurezza — secondo quanto affermano gli esuli — hanno perfezionato il sistema durante gli ulti­mi mesi dopo aver analizzato quanto è accaduto sia in Iran che in altri Paesi
nel corso di proteste popolari. E non da oggi i dissidenti che risiedono all’este­ro impiegano Internet per un’intensa azione di contropropaganda. Diligenti, ben preparati, pasdaran e Vevak hanno capito che la battaglia si sarebbe com­battuta non solo sulle piazze ma anche nello spazio virtuale. E così è stato. Con la censura e la stampa straniera messa fuori gioco, Internet si è tramuta­to nell’unico canale di informazione li­bera che solo a tratti il regime è riuscito a in­terrompere.
Ma se Web e cellula­ri sono le armi miglio­ri per strappare il bava­glio imposto dalla teo­crazia, al tempo stesso possono essere sfrutta­ti dalle autorità per ri­costruire la mappa dei contatti. Un mes­saggio di posta elettronica inviato al­l’estero diventa, agli occhi dei pasda­ran, la «prova della collusione con una potenza straniera». La copia di un docu­mento ha il valore di un «atto di spio­naggio nemico». Un file scaricato da In­ternet o la traccia di un telefono basta­no per rinchiudere un contestatore nel­la sezione 209 del carcere di Evin, il braccio riservato ai dissidenti e gestito
dalla Vevak.

CORRIERE della SERA - Maurizio Caprara : " Vertice G8 a Trieste, l’Italia rinuncia alla presenza iraniana  "

 Il "no" dell'Iran al G8 toglie le castagne dal fuoco a Frattini. Ecco l'articolo:

ROMA — Franco Frattini si è trovato costretto a ricreder­si. Ieri sera, il ministro degli Esteri ha rinunciato ad aspet­tare ulteriormente che da Teheran si sciogliesse la riser­va sul suo invito al collega ira­niano Manoucher Mottaki af­finché partecipasse alla confe­renza sull'Afghanistan in pro­gramma per dopodomani a Trieste. «Non ho ancora una risposta: debbo ritenere che l’Iran abbia declinato l’invi­to », ha annunciato al Tg5 Frattini dopo aver sollecitato una decisione entro la giorna­ta. Più specifico, con la sua te­si, il ministro è stato al Tg1: «Era un invito che avrebbe dovuto essere considerato per loro irripetibile, è un’occa­sione che purtroppo hanno perduto. Avevo creduto nella possibilità di un coinvolgi­mento serio dell’Iran, ma i fat­ti di queste ore, i morti per le strade, la violenza hanno im­posto un cambiamento di idea».
La repressione a Teheran, in verità, va avanti da giorni, non da ieri. Il titolare della Farnesina, che aveva indiriz­zato l’invito a Mottaki alme­no dal 25 febbraio scorso, ha incontrato ieri altre difficoltà nel tentativo di risultare agli Stati Uniti un utile tramite con la Repubblica islamica presieduta da Mahmoud Ah­madinejad. È successo prima che il segretario di Stato ame­ricano Hillary Clinton annul­lasse la sua partenza per Trie­ste a causa dell’operazione di domenica al gomito e quan­do non si aveva ancora noti­zia che Barack Obama, da Washington, avrebbe fatto sa­pere
di sentirsi «turbato» dal­le immagini dei cortei attacca­ti dalle guardie, delle donne in piazza, delle «ingiustizie» in Iran.
È stato un aumento della pressione esterna ed interna sul suo tentativo di fare da ponte tra Teheran e l’Occiden­te a convincere Frattini a im­boccare la strada per la quale aveva fatto da apripista il mi­nistro per le Politiche comu­nitarie Andrea Ronchi, il pri­mo nel governo a rimettere in discussione quell’offerta a Mottaki di partecipare a una
conferenza allargata del G8 su Kabul. Spinta da Gran Bre­tagna, Francia e Germania — accusati da Teheran di «ver­gognose » reazioni ai contro­versi risultati delle elezioni iraniane — la presidenza ce­ca dell’Unione europea ieri ha respinto come «inaccettabili» gli strali del regime degli ayatollah. Praga ha invitato i Paesi membri a convocare l’ambasciatore iraniano per protestare e ha aggiunto: «Tutti gli Stati dell’Unione so­no ovviamente uniti contro le accuse rivolte a singoli Sta­ti dell’Ue».
Non è che dome­nica il governo ita­liano fosse in trin­cea a difesa dei tre alleati. Anzi, Fratti­ni aveva ribadito l’invito a Mottaki. E’ ieri che il titola­re della Farnesina ha affermato: «I Pa­esi europei non hanno manovrato niente». Dalla stes­sa maggioranza di governo, però, ve­nivano giudizi più duri. «Non posso tacere su quanto succe­de in Iran, anche se noi siamo un
partner economico», ha detto Gianfranco Fini. Del re­gime iraniano il presidente della Camera ha dato una defi­nizione: «Brutale dittatura di stampo teocratico». Non è troppo diversa da quella che potrebbe impiegare oggi a Ro­ma Benjamin Netanyahu, il premier israeliano che sarà a colazione con Berlusconi e Frattini, a pranzo da Fini e do­mani da Giorgio Napolitano.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Panico fra gli ayatollah. Fuga di soldi all’estero  "

Gli ayatollah spostano capitali fuori dall’Iran, tradendo il timore di una resa dei conti nella teocrazia. Negli ultimi giorni dozzine di leader dell’establishment conservatore della Repubblica Islamica hanno dato ordine alle banche dove hanno depositi di spostarli all’estero in tempi rapidi. I trasferimenti sono cresciuti nelle ultime 48 ore. I movimenti avvenuti riguardano cifre tese a non sollevare eccessiva attenzione - sempre inferiori ai dieci milioni di dollari - ma il numero delle transazioni è significativo. Provengono dalle maggiori banche della Repubblica Islamica - Melli, Melat, Sepah e Saderat - e si dirigono verso istituzioni finanziarie di Paesi musulmani che da tempo Teheran considera casseforti sicure in Turchia, Malaysia, Pakistan, Dubai, Algeria e Indonesia.
I trasferimenti di denaro sono stati notati perché i servizi di intelligence tengono sotto controllo da tempo queste banche, nel timore che possano servire per acquistare armi proibite. Ciò che dà la dimensione di quanto sta avvenendo è che importanti leader del clero stanno spostando anche il denaro delle Fondazioni parastatali che sin dal 1979 hanno consentito agli ayatollah di accumulare proprietà al di fuori delle istituzioni. Alcuni dei conti dai quali il denaro si sta muovendo sono intestati alla Fondazione degli oppressi e dei disabili di guerra, un mini-impero industriale con oltre 200 mila dipendenti, alla Fondazione dei martiri, nota per finanziare le attività degli Hezbollah all’estero, alla Fondazione Imam Khomeini, roccaforte delle raccolte di beneficenza islamica, e alla Fondazione 15 Khordad, che ha il quartier generale nella città santa di Qom ed è nota per aver messo la taglia da 2,5 milioni di dollari sullo scrittore indiano Salman Rushdie.
Queste Fondazioni gestiscono gran parte delle risorse della teocrazia e nel momento in cui l’invio all’estero di danaro è stato deciso, la scelta è stata di affidarsi al network finanziario grazie al quale negli ultimi due anni gli ayatollah sono spesso riusciti a evadere le sanzioni votate dall’Onu. Ad esempio una delle banche che hanno ricevuto fondi è la turca Asya Katilim Bankasi - meglio conosciuta come Bank Asya - alla quale nel 2007 la filiale londinese della Melli Bank chiese di continuare a garantire i servizi finanziari nonostante le rigide misure adottate dall’Unione Europea. Dalla Sepah Bank un altro versamento di sette milioni di dollari è stato recapitato alla Exim Bank della Malaysia, ovvero la stessa istituzione finanziaria che nel 2007 accettò di continuare a operare con Teheran dopo il passaggio da parte del Consiglio di Sicurezza Onu della risoluzione 1747. Sebbene non sia ancora quantificabile l’ammontare totale delle risorse spostate, il fenomeno è in crescita come dimostra il fatto che un gruppo di alti esponenti del clero sta trattando accordi con banche dell’Estremo Oriente, in Cina e Hong Kong.
«Quanto sta avvenendo tradisce una resa dei conti nell’establishment - commenta Patrick Clawson, esperto di affari iraniani al Washington Institute - perché le Fondazioni sono le casseforti del clero islamico khomeinista che si sente minacciato da un possibile colpo di mano dei Guardiani della Rivoluzione veterani della guerra contro l’Iraq, fedeli a Ali Khamenei». Proprio i Guardiani della Rivoluzione «gestiscono un network di società concorrenti con le Fondazioni» e condividono con Khamenei «l’insofferenza per l’autonomia di enti creati da Khomeini per rendere il clero indipendente». A voler esportare i fondi sarebbero dunque, conclude Clawson, «gli ayatollah che hanno visto arrestare la figlia dell’ex presidente Rafsanjani e temono di fare presto la stessa fine». Ilan Berman, vicepresidente dell’«American Foreign Policy Council», aggiunge: «Ora lo scontro non è più fra Khamenei e i manifestanti pro-Mousavi ma passa all’interno degli ayatollah. Chi ha potere prevede instabilità e si prepara al peggio, spostando all’estero il proprio denaro». Come riassume un rapporto del «Center for American Progress» sui disordini: «Vi sono evidenti crepe nel regime».

La REPUBBLICA - Giampaolo Cadalanu : " Vahid, il gay clandestino che rischia la forca  "

 

Quando è sceso dal barcone sulle coste italiane, stremato per la traversata, Vahid Kian Motlagh ha tirato un sospiro profondo. Era nella liberale Europa ormai, lontano da Abadan, lontano dalla repubblica degli ayatollah, dove l´omosessualità porta alla pena capitale. A 32 anni, senza soldi in tasca, doveva ricominciare daccapo, ma era una sua scelta. Non immaginava che le leggi europee sull´immigrazione alla fine lo avrebbero portato in un centro per clandestini, vicino all´aeroporto Saint Exupery di Lione, a poche ore di volo dalla gru su cui i mullah impiccano quelli come lui.
Vahid aveva avuto la certezza di essere omosessuale il giorno del suo 23esimo compleanno, dopo una sera al cinema Taj, ad Abadan. Dietro il locale, c´era un giardinetto. Lì, racconta Vahid, «si riunivano oppositori e diversi». Lì un coetaneo parlava apertamente della sua omosessualità con altri ragazzi. «Pensai che forse, dopo tutto, era possibile ammettere la propria identità. In famiglia non ne avevamo mai accennato, di sesso non si parlava mai». Tornando a casa, però, un gruppo di giovinastri l´aveva assalito, tirandolo per la giacca: «Non ti vergogni a passare il tempo con i finocchi?». Forse proprio l´aggressione lo aveva spinto a riconoscere, a se stesso prima di tutti, che le sue scelte non erano come quelle degli altri.
Quando aveva preso coraggio, aveva cominciato a frequentare il parco Jamshidieh, dove aveva fatto nuove amicizie. Fino al giorno in cui aveva osservato «persone ben vestite» scrutare lui e un ragazzo che si tenevano per mano. Nei paesi islamici è abbastanza comune, fra amici, e non è certo un segno di omosessualità. Però qualcuno aveva sussurrato qualcosa alla polizia. E pochi giorni dopo, Vahid aveva ricevuto una telefonata da casa: «Mamma, che succede?». «È venuta la polizia, ti cercano. Figlio mio, scappa!».
Il resto è la storia di una fuga a piedi, di un passaggio in Turchia, di una traversata sul barcone dei clandestini. Poi l´arrivo a Roma, le amicizie. L´incontro con il giovane belga Philippe, al Coming Out di via San Giovanni in Laterano, uno dei locali simbolo della comunità gay romana. La decisione di andare a vivere insieme, la scelta di partire per il Belgio, per sposarsi. E poi quel maledetto controllo dei documenti. Philippe che va libero, Vahid che resta dietro i reticolati del centro clandestini, il giudice che respinge la richiesta di libertà provvisoria, i documenti per l´asilo politico, l´aiuto dei gruppi per i diritti umani, come l´EveryOne. E l´incubo: i Pasdaran, la giustizia islamica. L´accusa di lavat, sodomia, e di essere mohareb, cioè "nemico di Dio". La gru.
Mahmoud Ahmadinejad lo aveva proclamato con fierezza a Roma, durante il vertice Fao: in Iran non ci sono gay. Nei giorni scorsi però il presidente iraniano ha accusato gli avversari politici di «voler riconoscere ufficialmente ladri, omosessuali e sacchi di letame». Come dire che i gay ci sono, ma clandestini. Quella parola che segna tutta la vita di Vahid: ieri omosessuale clandestino in Iran, oggi immigrato clandestino in Europa. La dignità di chiamarsi essere umano, forse, domani.

L'UNITA' - Gabriel Bertinetto : " In Iran rottura tra regime e il popolo. Vincerà la democrazia "

 Bani Sadr, in una foto giovanile

Al telefono da Parigi, Bani Sadr, primo presidente dell’Iran khomeinista. Ruppe quasi subito con la Republica islamica e fu costretto all’esilio.
«Come interpreta ciò che accade in Iran, presidente?
«Ormai è chiaro che il movimento punta direttamente contro Khamenei. È rottura fra regime e popolo. Qualunque cosa accada, il regime è condannato a sparire ed essere rimpiazzato dalla democrazia».
Diversamente dal passato questo movimento vuole cambiare il sistema anziché limitarsi a riforme interne?
«Anche in passato abbiamo avuto mobilitazioni di questo tipo, ma non di questa ampiezza. La protesta del 1999, circoscritta a Teheran e altre città universitarie, ebbe per protagonisti gli studenti. Oggi in lotta è l’insieme della nazione, donne, uomini, giovani, operai, insegnanti, e persino parte del clero. Non solo in alcuni grandi centri urbani, ma ovunque. In ogni città la notte ormai appartiene al popolo. Dai tetti delle case si alza il grido: «Allah è grande, abbasso Khamenei». Nessuno può spegnere quelle invocazioni. Non hanno abbastanza uomini e mezzi per entrare in ogni casa».
Non teme la forza e la fedeltà al governo degli apparati repressivi, Pasdaran e Basiji in particolare?
«Non sono così potenti come appare. I Pasdaran stessi sono divisi in fazioni, ognuna delle quali fa capo a un diverso leader. Persino Mousavi ha i suoi partigiani fra loro. Ecco perchè nessuno potrà usare i Pasdaran per una repressione vasta e diffusa. Inoltre, benché il regime sia poco sensibile all’opinione pubblica occidentale, lo è molto di più in ambito regionale e musulmano. Scatenare una repressione che ricordi i tempi dello Shah, danneggerebbe l’immagine del regime nel mondo islamico. Ecco perché non possono spingere la violenza oltre ogni limite. E poi la rivolta è troppo estesa, per essere affrontata con interventi quotidiani e prolungati».
Che giudizio dà su Mousavi?
«Fu primo ministro 8 anni ai tempi della guerra e della grande repressione lanciata da Khomeini. Il suo passato è indifendibile. Oggi qualcuno minaccia di fargli fare la fine mia, cioè esiliarlo. Altri gli preannunciano una condanna a morte. Nonostante tutto resiste. Spero continui. Ma anche se cedesse, il movimento non dipende da lui. Era già iniziato prima che lui contestasse l’esito del voto».
È credibile una frode elettorale di dimensioni così enormi?
«Sì, è avvenuta. Consideri che in Iran la macchina elettorale dispone di 32mila urne fisse e 14mila mobili. A parte il fatto che 15mila di queste urne erano sotto il pieno controllo dei Pasdaran, se calcoliamo che ogni elettore impieghi almeno un minuto per votare, nelle 13 tredici ore d’apertura dei seggi, al massimo riuscirebbero a andare in cabina 26-27 milioni di persone. Risulta che nelle urne siano state inserite 39 milioni di schede. Quei 12 milioni di differenza corrispondono alle schede precompilate e aggiunte per favorire l’exploit di Ahmadinejad. L’organizzatore dell’imbroglio è Khamenei».
Cosa deve fare la comunità internazionale in questa fase?
«Khamenei, Ahmadinejad, i Pasdaran accusano l’Occidente di ingerenza. Tenendo conto di ciò è meglio che i governi restino neutrali. Opposto il discorso per i media. Il sostegno dell’opinione pubblica internazionale è essenziale. Ai tempi della rivoluzione, i Paesi stranieri appoggiavano lo shah, oggi sono al contrario critici verso il potere. Ma l’interesse del popolo iraniano esige che si astengano dall’intervenire. Quando un giovane iraniano scende in piazza,deve sentirsi sicuro di lottare per i suoi diritti e non a vantaggio d’altri».
Per Obama, su alcuni temi, come la questione nucleare, c’è poca differenza fra Ahmadinejad e Mousavi. Lei che ne pensa?
«Immaginiamo che crolli il regime. Si torna alle urne e Mousavi prevale. Quel presidente Mousavi non sarà lo stesso presidente Mousavi che avrebbe potuto essere eletto dieci giorni fa. Perché la situazione sarà completamente diversa. E nel nuovo contesto creato dalla vittoria del movimento popolare, cambieranno le linee di politica interna ed estera. Anche in rapporto al nucleare».
Se lei fosse in Iran, che consigli darebbe agli oppositori?
«In primo luogo l’iniziativa dever restare in mano al movimento, che non deve lasciarsi usare in una lotta interna al regime. Oggi si combattono due guerre. Una fra due blocchi di potere, l’altra fra regime e popolo».
Secondo lei Mousavi sta tentando di inserirsi nei contrasti interni all’establishment?
«Si confrontano un blocco militare-finanziario che fa capo a Khamenei e Ahmadinejad, ed un blocco religioso-finanziario, al quale sono aggregate componenti eterogenee: riformatori, tradizionalisti, pragmatici. Ne fanno parte personalità come Rafsanjani, Khatami, lo stesso Mousavi. Se tutto si riduce allo scontro tra i due blocchi, la vittoria di uno o dell’altro significherà comunque un indebolimento del regime. Khamenei potrebbe anche battere i nemici interni all’establishment, ma resterebbe solo contro tutto il popolo».
Il popolo può vincere senza violenza?
«Certo. Se la protesta si estende e si generalizza, come sta accadendo, la violenza sarebbe addirittura controproducente. Quando lottavamo per rovesciare lo shah, invitavamo la gente ad offrire fiori ai militari».
Se le cose cambiassero radicalmente in Iran, tornerà in patria e svolgerà ancora un ruolo politico?
«Sono 28 anni che lavoro per organizzare la rivoluzione. Nessuno ci credeva, mi dicevano che la storia non si ripete. Ma sta accadendo. Sì, quando l’Iran sarà libero, tornerò. Attendo quel giorno da tanto tempo».

Il GIORNALE - Gian Micalessin : " Il potere è diviso, persino i religiosi lasciano Ahmadinejad "

 Ebrahim Nabavi

«Sei mesi fa non mi aspettavo più nulla, gli iraniani erano in preda all’apatia ora invece si ribellano... mi sembra una magia, anche se non posso dimenticare morti ed arrestati». A 50anni Ebrahim Nabavi rincomincia a sperare. Lo scrittore satirico più amato dagli iraniani, autore di «Iran, gnomi e giganti. Paradossi e malintesi» (Spirali Editore), sente più vicina l’ora del ritorno. Lasciò il suo paese dopo esser finito in carcere nel 1998 e nel 2000. Da allora vive in Belgio e da lì ha appena indirizzato una lettera aperta alla Suprema Guida in cui spiega ad Alì Khamenei il suo errore fatale: «Khamenei per salvare un ometto senza valore come Ahmadinejad ha perso il rispetto di popolo e politici. Il suo peggior difetto è che sa di essere un mediocre e per questo sogna di far fuori ex presidenti come Khatami o Rafsanjani».
È vero che anche conservatori e religiosi lo stanno abbandonando?
«È sempre più isolato, più della metà dei suoi l’hanno mollato. Pensava di usare un baciapiedi come Ahmadinejad per governare, ma gli iraniani rispettano Khatami e Mousavi».
Rafsanjani sta cercando di riunire il Consiglio degli Esperti. Khamenei rischia di venir messo da parte?
«Può succedere, Khamenei ha annunciato la vittoria di Ahmadinejad senza neppure attendere il verdetto del Consiglio dei Guardiani. Ha disatteso il principio fondamentale di un’autorità basata su rettitudine e correttezza e ha offerto un grossa occasione a chi vuole la sua fine».
Far fuori Khamenei significa minare alla base la Repubblica Islamica. Rafsanjani metterà a repentaglio soldi e potere? «Rafsanjani è ricco di suo, non è un ayatollah corrotto, è semplicemente un esponente di ampie vedute capace di governare politica e finanza. Dopo la morte di Khomeini facilitò l’ascesa di Khamenei che considerava poco intelligente e poco pericoloso per governare da dietro le quinte. Questo ha innescato le gelosie della Suprema Guida che vorrebbe liberarsi di lui».
Gli ayatollah con chi stanno?
«Con se stessi. Non riconoscono mai la superiorità di uno di loro. Succedeva solo con Khomeini, non certo con uno come Khamenei. Ora potrebbero appoggiare Rafsanjani.»
Lei conosce Moussavi da 25 anni. È in grado di guidare la nuova rivoluzione?
«È un uomo determinato, ma anche istruito, religioso e al tempo stesso moderno, attento ai problemi dei poveri. Per questo è amato e rispettato. Quando dice di non temere la morte e di non voler fare passi indietro ci crede davvero».
È sceso in piazza dopo 20 anni di silenzio. Cosa lo muove?
«La follia di Ahmadinejad. Vuole impedirgli di distruggere il paese».
Lo arresteranno?
«Moussavi è solo, tutti i suoi amici sono già in carcere. Se non lo arrestano è perchè temono la reazione della gente».
I Pasdaran salveranno il regime?
«Metà di loro sta con Moussavi come metà dei ministri e del Paese. Se le proteste continuano il problema di Ahmadinejad non sarà più Moussavi ma i Pasdaran che rifiuteranno di sparare sulla gente.

La REPUBBLICA - Francesca Caferri : " In Iran censura e violenza chiedo l´aiuto dell´Europa "

Nell'intervista di Repubblica, Shirin Ebadi dichiara le stesse cose scritte nell'articolo pubblicato sul Corriere della Sera di ieri e riportato nella rassegna di IC. Ecco l'intervista:

 Shirin Ebadi

Avrebbe voluto tornare in Iran, ma i suoi amici l´hanno fermata. Da dieci giorni Shirin Ebadi è in Europa. Gli occhi sono fissi a Teheran, dove la premio Nobel si ripromette di rientrare fra pochi giorni, ma la scelta, per ora, è quella di rimanere lontana da casa, dove rischia l´arresto, per far sentire al mondo la voce dei riformisti iraniani. «Sono più utile fuori dal Paese che all´interno, dove regna la censura», spiega. La settimana scorsa la Ebadi è andata alle Nazioni Unite di Ginevra per chiedere che le elezioni siano annullate. Ieri ha ripetuto questo messaggio all´Alto rappresentante per la politica estera della Ue Javier Solana: nelle prossime ore lo ribadirà al Parlamento europeo.
Signora Ebadi, la tensione nel suo Paese è altissima. Si aspettava quello che è successo quando è partita, il giorno delle elezioni?
«No. Tutti si aspettavano che avrebbe vinto Moussavi. Era un´opinione condivisa. Poi ci sono stati quei risultati e le persone hanno cominciato a chiedersi dove fossero finiti i loro voti. Ed è esplosa la rabbia: non sono stati solo gli annunci sui falsi risultati che hanno fatto infuriare la gente. Ma soprattutto le premature congratulazioni della Guida suprema Khamenei ad Ahmadinejad. Nessuno poteva aspettarsi che le leggi venissero violate in questa maniera. Né tantomeno questo comportamento verso il popolo».
Quindi lei pensa che ci siano stati brogli nei risultati...
«Gli oppositori di Ahmadinejad e le persone che dimostrano in piazza lo pensano. Giustamente, ritengo. I raid dei poliziotti dopo il voto, quando sono stati attaccati i dormitori degli studenti universitari e molte persone sono state arrestate, rende questa ipotesi più credibile. Ma a questo punto il fatto più importante non sono più i brogli ma la maniera in cui sono state trattate le persone che partecipavano alle proteste. La gente che manifesta pacificamente non merita di ricevere pallottole come risposta. Nessuno immaginava che il governo fosse così crudele e violento. Sono state aggredite persone indifese: la Costituzione iraniana dice che le manifestazioni e i raduni pacifici devono essere consentiti. Questo non è stato rispettato. Tutto il mondo ha visto quanto pacifiche fossero le manifestazioni del popolo iraniano e quanto violenta la risposta».
Da fuori questa appare soprattutto come una rivolta di giovani e di donne: la sorprende?
«No. Sia i giovani che le donne negli ultimi anni hanno sofferto per la diseguaglianza, che comunque ha toccato tutta la popolazione. Volevano più libertà, non erano soddisfatti, volevano cambiare. Pensavano, come tanta gente, che i riformisti avrebbero vinto. Sarebbe andata così se non ci fossero stati i brogli che hanno portato alla vittoria di Ahmadinejad. Di fronte a questo il popolo iraniano ha chiesto di annullare le elezioni: e non si fermerà fino quando questo non succederà».
Anche se questo significherà più violenza?
«Le persone che sono a favore delle riforme non ricorrono alla violenza. Non è nel loro modo di comportarsi. La violenza è venuta dalla parte della polizia e del governo. Le proteste continueranno, la gente non userà la violenza, così come non l´ha usata fino a questo momento: in questa maniera otterrà i risultati che vuole».   

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