Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 22/06/2009, a pag. 10, l'articolo di Philip Gourevitch dal titolo " L’Abu Ghraib che non vedremo mai ".
Il titolo dell'articolo è in contraddizione con l'articolo stesso. Che la linea nel trattare la politica estera del Corriere si sia appiattendo su quella di Repubblica? Ci auguriamo di no e invitiamo i lettori di IC a scrivere alla redazione del Corriere per protestare per la scelta di un titolo inappropriato all'articolo di Gourevitch. Ecco l'articolo:
Philip Gourevitch
Nell’aprile del 2004, quando le fotografie scattate da Sabrina Harman (agente speciale del 372˚reparto di polizia militare) e da Charles Graner (incaricato del turno di notte nel blocco degli interrogatori) furono passate alla stampa, quelle immagini scossero la coscienza del mondo. Ma non solo: resero anche un prezioso servizio pubblico all’America. Grazie a quelle foto abbiamo capito qualcosa di noi stessi che forse sospettavamo, ma senza esserne consapevoli fino in fondo, e cioè che il governo Bush aveva deciso di combattere il terrore con il terrore, e la tortura con la tortura.
Cinque anni più tardi, l’America si è trovata nuovamente alle prese con il dibattito se pubblicare o meno le fotografie che mostrano i nostri soldati mentre utilizzano le «tecniche di interrogatorio» volute dal governo Bush ad Abu Ghraib e altrove. Barack Obama, che come suo primo atto presidenziale ha reintrodotto il reato di tortura, sulle prime era favorevole a rendere pubblica la documentazione fotografica. Ma poi ci ha ripensato. I suoi critici affermano che tale decisione lo mette sullo stesso piano dei suoi predecessori. Ma si sbagliano. Proprio come fu nell’interesse del Paese pubblicare le foto di Abu Ghraib cinque anni fa, Obama ha ragione nell’affermare che oggi non abbiamo alcun bisogno di visionare nuovo materiale. Il presidente sostiene che lanciare in giro per il mondo una nuova sfilza di immagini di maltrattamenti e abusi inflitti ai prigionieri non farebbe altro che infiammare i nemici dell’America e mettere a repentaglio le truppe americane in Afghanistan e in Iraq. Non c’è alcun dubbio che le azioni ritratte abbiano già causato danni incommensurabili alla causa americana.
Emerge tuttavia un’altra considerazione critica. La pubblicazione di ulteriore materiale fotografico non ci direbbe nulla di nuovo, rispetto a quanto già sappiamo. Non abbiamo bisogno di un’immagine per sapere che gli agenti americani hanno fatto uso del waterboarding (l’annegamento simulato) quando l’ex vice presidente Dick Cheney si vanta pubblicamente di aver sottoposto a tale pratica i detenuti.
Obama non mette il bavaglio all’informazione, opponendosi alla pubblicazione di nuove fotografie, e infatti ha appena reso pubblica tutta la documentazione del governo Bush che autorizzava l’impiego di metodi capaci di infliggere umiliazione e sofferenza, come quelli illustrati dalle foto di Abu Ghraib. A chi vogliamo darla a bere, se non a noi stessi, fingendo di aver bisogno di nuove foto per sapere quello che stava accadendo? Le fotografie scattate sulla scena del crimine, malgrado il forte impatto emotivo, possono servire anche da distrazione, persino da depistaggio, e intralciare la chiara comprensione degli eventi. Le fotografie infatti non rivelano da chi partivano ordini e direttive, né fanno riferimento ai processi decisionali di Washington. Le foto non raccontano storie, forniscono soltanto la traccia di storie, e l’evidenza è muta: di qui l’esigenza di indagine e interpretazione. Ho passato oltre un anno in compagnia delle fotografie di Abu Ghraib mentre scrivevo un libro sui soldati che le avevano scattate e vi si erano fatti ritrarre. Ho avuto modo di esaminare un numero assai maggiore di inquadrature rispetto a quelle pubblicate dalla stampa.
Tuttavia, per narrare con maggior efficacia la storia delle foto, ho preferito escluderle completamente dal libro. Avevo a disposizione oltre due milioni di parole di interviste su cui lavorare, e altrettante estratte dai documenti ufficiali, e in questo modo ho potuto dimostrare che le cose peggiori accadute ad Abu Ghraib non sono mai state fotografate. Quello che i soldati-fotografi ci hanno rivelato con le loro fotocamere digitali non è che una minima parte di quanto hanno da dirci, se solo siamo disposti ad ascoltarli. Le foto purtroppo non possono provare che le vere mele marce erano ai vertici della catena di comando a Washington, ed è questo che dobbiamo sapere. Ma già lo sapevamo, e noi tutti abbiamo a lungo avallato quelle scelte: è con questa verità che oggi siamo chiamati a fare i conti
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