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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
22.06.2009 Un titolo che non rispecchia il contenuto del suo articolo
Corriere a lezione da Repubblica?

Testata: Corriere della Sera
Data: 22 giugno 2009
Pagina: 10
Autore: Philip Gourevitch
Titolo: «L’Abu Ghraib che non vedremo mai»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 22/06/2009, a pag. 10, l'articolo di Philip Gourevitch dal titolo " L’Abu Ghraib che non vedremo mai ".

Il titolo dell'articolo è in contraddizione con l'articolo stesso. Che la linea nel trattare la politica estera del Corriere si sia appiattendo su quella di Repubblica? Ci auguriamo di no e invitiamo i lettori di IC a scrivere alla redazione del Corriere per protestare per la scelta di un titolo inappropriato all'articolo di Gourevitch. Ecco l'articolo:

 Philip Gourevitch

Nell’aprile del 2004, quando le fotografie scattate da Sabrina Harman (agente speciale del 372˚reparto di polizia milita­re) e da Charles Graner (incari­cato del turno di notte nel blocco degli in­terrogatori) furono passate alla stampa, quelle immagini scossero la coscienza del mondo. Ma non solo: resero anche un pre­zioso servizio pubblico all’America. Grazie a quelle foto abbiamo capito qualcosa di noi stessi che forse sospettavamo, ma sen­za esserne consapevoli fino in fondo, e cioè che il governo Bush aveva deciso di combat­tere il terrore con il terrore, e la tortura con la tortura.
Cinque anni più tardi, l’America si è tro­vata nuovamente alle prese con il dibattito se pubblicare o meno le fotografie che mo­strano i nostri soldati mentre utilizzano le «tecniche di interrogatorio» volute dal go­verno Bush ad Abu Ghraib e altrove. Barack Obama, che come suo primo atto presiden­ziale ha reintrodotto il reato di tortura, sul­le prime era favorevole a rendere pubblica la documentazione fotografica. Ma poi ci ha ripensato. I suoi critici affermano che ta­le decisione lo mette sullo stesso piano dei suoi predecessori. Ma si sbagliano. Proprio come fu nell’interesse del Paese pubblicare le foto di Abu Ghraib cinque anni fa, Oba­ma ha ragione nell’affermare che oggi non abbiamo alcun bisogno di visionare nuovo materiale. Il presidente sostiene che lancia­re in giro per il mondo una nuova sfilza di immagini di maltrattamenti e abusi inflitti ai prigionieri non farebbe altro che infiam­mare i nemici dell’America e mettere a re­pentaglio le truppe americane in Afghani­stan e in Iraq. Non c’è alcun dubbio che le azioni ritratte abbiano già causato danni in­commensurabili alla causa americana.

Emerge tuttavia un’altra considerazione critica. La pubblicazione di ulteriore mate­riale fotografico non ci direbbe nulla di nuovo, rispetto a quanto già sappiamo. Non abbiamo bisogno di un’immagine per sapere che gli agenti americani hanno fatto uso del
waterboarding (l’annegamento si­mulato) quando l’ex vice presidente Dick Cheney si vanta pubblicamente di aver sot­toposto a tale pratica i detenuti.

Obama non mette il bavaglio all’informa­zione, opponendosi alla pubblicazione di nuove fotografie, e infatti ha appena reso pubblica tutta la documentazione del gover­no Bush che autorizzava l’impiego di meto­di capaci di infliggere umiliazione e soffe­renza, come quelli illustrati dalle foto di Abu Ghraib. A chi vogliamo darla a bere, se non a noi stessi, fingendo di aver bisogno di nuove foto per sapere quello che stava accadendo? Le fotografie scattate sulla sce­na del crimine, malgrado il forte impatto emotivo, possono servire anche da distra­zione, persino da depistaggio, e intralciare la chiara comprensione degli eventi. Le fo­tografie infatti non rivelano da chi partiva­no
ordini e direttive, né fanno riferimento ai processi decisionali di Washington. Le fo­to non raccontano storie, forniscono soltan­to la traccia di storie, e l’evidenza è muta: di qui l’esigenza di indagine e interpretazio­ne. Ho passato oltre un anno in compagnia delle fotografie di Abu Ghraib mentre scri­vevo un libro sui soldati che le avevano scat­tate e vi si erano fatti ritrarre. Ho avuto mo­do di esaminare un numero assai maggiore di inquadrature rispetto a quelle pubblicate dalla stampa.
Tuttavia, per narrare con maggior effica­cia la storia delle foto, ho preferito escluder­le completamente dal libro. Avevo a disposi­zione oltre due milioni di parole di intervi­ste su cui lavorare, e altrettante estratte dai documenti ufficiali, e in questo modo ho potuto dimostrare che le cose peggiori acca­dute ad Abu Ghraib non sono mai state fo­tografate. Quello che i soldati-fotografi ci hanno rivelato con le loro fotocamere digi­tali non è che una minima parte di quanto hanno da dirci, se solo siamo disposti ad ascoltarli. Le foto purtroppo non possono provare che le vere mele marce erano ai ver­tici della catena di comando a Washington, ed è questo che dobbiamo sapere. Ma già lo sapevamo, e noi tutti abbiamo a lungo aval­lato quelle scelte: è con questa verità che og­gi siamo chiamati a fare i conti

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