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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - La Stampa - La Repubblica - Il Giornale Rassegna Stampa
19.06.2009 Iran: escalation repressiva contro gli oppositori al regime di Ahmadinejad
analisi di Carlo Panella, Giulio Meotti, Tatiana Boutourline, Maurizio Molinari, Igor Man, Lucio Caracciolo. Interviste a Farah Diba e Reza Pahlavi di Tina Brown e Laura Mandeville

Testata:Il Foglio - La Stampa - La Repubblica - Il Giornale
Autore: Carlo Panella - Giulio Meotti - Tatiana Boutourline - Igor Man - Lucio Caracciolo - Neil Macfarquhar - Tina Brown - Laura Mandeville
Titolo: «Un arresto eccellente segna l'inizio della resa dei conti in Iran - La rivoluzione sciita di Zahra - Yazdi, i contatti con Rafsanjani e l’arresto in una stanza d’ospedale a Teheran -»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 19/06/2009, a pag. 1-4, gli articoli di Carlo Panella e Giulio Meotti titolati " Un arresto eccellente segna l'inizio della resa dei conti in Iran " e " La rivoluzione sciita di Zahra  " e, a pag. IV, l'articolo di Tatiana Boutourline dal titolo "  Yazdi, i contatti con Rafsanjani e l’arresto in una stanza d’ospedale a Teheran ". Dalla STAMPA, a pag.10, l'analisi di Maurizio Molinari dal titolo " Hillary e Biden contro Obama: “Sei troppo soft” ", ma pag. 35, l'articolo di Igor Man dal titolo " A Teheran in rivolta  " preceduto dal nostro commento. Dalla REPUBBLICA, a pag. 35, l'articolo di Lucio Caracciolo dal titolo " La pistola sul tavolo  " e, a pag. 11, quello di Neil Macfarquhar dal titolo " Dalle moschee alla città sacra di Qom il clero iraniano vero ago della bilancia  " preceduti dal nostro commento, a pag. 10, l'intervista di Tina Brown a Farah Diba dal titolo " Mio marito lo Scià fece molti errori ma all´Iran ora serve democrazia ", dal GIORNALE, a pag. 17, l'intervista di Laura Mandeville a Reza Pahlavi dal titolo " Ora gli ayatollah sono pronti a tutto  ". Ecco gli articoli:

Il FOGLIO - Carlo Panella : " Un arresto eccellente segna l'inizio della resa dei conti in Iran "

 Ayatollah Khamenei con Ahmadinejad

Roma. Ebrahim Yazdi, autorevole oppositore laico del regime, è stato arrestato ieri a Teheran assieme ad altri esponenti del suo Movimento per la Libertà. Yazdi ha 76 anni, ed è stato messo in manette mentre si sottoponeva a una chemioterapia in un ospedale. Yazdi era parte della più stretta cerchia dei collaboratori di Khomeini quando era in esilio – era il suo traduttore in inglese durante gli incontri con la stampa in Francia –, è stato vicepremier e ministro degli Esteri nel governo di Mehdi Bazargan, ma poi è stato estromesso nel 1981, quando Khomeini affidò il potere a Mir Hossein Moussavi e Hashemi Rafsanjani, per le sue posizioni pluraliste, ed è stato in carcere per anni. Il suo arresto conferma la decisione del regime di dare vita a una escalation repressiva, annunciata da Mahmoud Ahmadinejad conto “i mestatori”. In tutto il paese gli arresti sono a centinaia e lambiscono lo stesso Rafsanjani. L’agenzia ufficiale Fars ha annunciato infatti che le autorità hanno proibito l’espatrio ai suoi figli, Mehdi e Faezeh (ex parlamentare), dopo che gruppi di bassiji avevano manifestato davanti al tribunale per chiedere il loro arresto. L’agenzia Fars ha precisato che “è chiaro il ruolo di Faezeh e Mehdi Rafsanjani nelle provocazioni, nelle manifestazioni illegali e negli incidenti dei giorni scorsi”. Centinaia di arresti sono segnalati anche nelle altre città in cui i “cespugli verdi” sono scesi in piazza in questi giorni. Tutta l’attenzione è ora rivolta al discorso che terrà stamane a Teheran l’ayatollah Khamenei che dirigerà la preghiera del venerdì che i bassiji e i pasdaran hanno deciso di trasformare in una grande adunata di sostenitori di Ahmadinejad. Khamenei non farà alcun passo indietro nel sostegno ad Ahmadinejad, che ha già espresso durante tutta la campagna elettorale, per la semplice ragione che Ahmadinejad è stato scelto nel 2005, proprio quale portavoce delle posizioni del detentore reale del potere, cioè di Khamenei stesso. Mahmoud Ahmadinejad ha saputo svolgere il suo ruolo con rara efficacia, e non soltanto per il fatto che ha costruito un’eccellente rete di alleanze internazionali (con il venezuelano Hugo Chávez, il cubano Fidel Castro, il boliviano Evo Morales e i “non allineati”). La sua retorica populista, l’aspetto dimesso, la sua marcatura messianica hanno infatti fatto vibrare le corde non soltanto della consistente base popolare del regime, ma anche di larghi settori crescenti della umma nel mondo. La negazione dell’Olocausto e gli appelli alla distruzione della “entità sionista” hanno superato i giochi lessicali di Mohammad Khatami – che su Israele ha sempre detto identiche cose, ma con linguaggio volutamente involuto – e i suoi appelli contro la corruzione, hanno fatto vibrare i cuori. Negli ultimi giorni, poi, Ahmadinejad ha suscitato entusiasmi quando ha gridato in televisione: “Rafsanjani è un ladro, suo figlio Mehdi è un ladro”, verità conosciute dagli iraniani. Il discorso che terrà stamane Khamenei permetterà dunque di comprendere come si sono evoluti i rapporti dentro la componente religiosa del regime (nessun dubbio sulla piena tenuta di quella militare, imperniata sul forte apparato militare- economico e repressivi di pasdaran e bassiji). Sinora, a fianco del movimento, tra i grandi ayatollah si è solo schierato l’ayatollah Montazeri, ma non è stata una sorpresa (è uscito da pochi mesi di prigione). Il silenzio defilato degli altri ayatollah è ancora da decifrare, anche perché la repressione non si è ancora scatenata in tutta la sua virulenza. Si sta quindi giocando una guerra di posizionamento tra gli ayatollah che controllano due istituzioni fondamentali. Poche sorprese verranno dal riconteggio dei voti da parte del Consiglio dei Guardiani, presieduto da Ahmad Jannati, che è addirittura suocero di Ahmadinejad, ed è composto da sei religiosi nominati da Khamenei e da sei giuristi espressi dal potere giudiziario (comandato da Khamenei). Più aperti sono i giochi dentro il Consiglio degli Esperti, che ha l’unico ruolo di eleggere (ma anche, almeno in teoria, di mandare via) la Guida della Rivoluzione, cioè Khamenei stesso. E’ infatti presieduto da Rafsanjani, che controlla però soltanto un terzo degli 86 membri, mentre un quarto dei membri è fedele all’oltranzista ayatollah Mezbah Yazdi, ideologo di riferimento di Ahmadinejad, e gli altri sono fedeli a Khamenei. E’ questa l’unica istituzione del regime in cui Rafsanjani può giocare un ruolo e “arroccarsi”, ma il divieto all’espatrio dei figli può essere il segnale della decisione di Khamenei di andare allo scontro finale e forse di “eliminare” politicamente la fronda di Rafsanjani. Esattamente come fu fatto con Montazeri, che pure Khomeini aveva indicato a suo tempo come suo successore nel ruolo di Rahabar, ruolo che invece è stato assegnato a Khamenei.

Il FOGLIO - Giulio Meotti : " La rivoluzione sciita di Zahra "

   Zahra Rahnavard

Roma. Della moglie di Mahmoud Ahmadinejad non si conosce né il nome né il volto. Lei è invece l’immagine fiera, progressista, colta ed “emancipata” del khomeinismo. La moglie di Moussavi, Zahra Rahnavard, definita la “Michelle Obama iraniana” da numerosi media occidentali, è la principale teorica del velo islamico in Iran. Ieri il Guardian pubblicava un editoriale con questo titolo: “In praise of… Zahra Rahnavard”. Per molti anni è stata cancelliere della più grande università iraniana per “sole donne”. E’ una matrona sciita che ha forgiato un sinistro femminismo islamista. Sostiene che attraverso il velo, paramento consustanziale e simbolo di sottomissione delle donne nel mondo islamico e in Europa, le ragazze dell’islam possano essere “liberate”. Nel 2000 Zahra portò avanti una campagna perché potessero indossare anche veli fantasiosi, non soltanto neri. “Non è il nero il colore della rivoluzione, ma i colori divini”. “Non sono la Michelle Obama dell’Iran”, ha detto Zahra, unica donna rettore universitario dell’Iran. “Sono una seguace di Fatimah, la figlia del profeta Maometto. Rispetto tutte le donne attive”. Un incoraggiamento alla repressione di tutte le donne che nei paesi musulmani tentano di sfuggire all’obbligo dell’hidjab a rischio della loro stessa vita. Visto che in Iran è il velo o la morte, Zahra vuole che le donne musulmane lo indossino “liberamente”. Due giorni fa, nel pieno della protesta popolare e per difendere il marito dalle accuse di “legami stranieri”, Zahra ha spiegato che “Israele è il più grande eterno nemico dell’Iran”. Ha scritto libri su arte, letteratura, poesia, religione e politica. Ancora oggi parla di guerra al “colonialismo culturale”. Indossa semplici sandali e a chi le fa presente che in Iran le donne sono oppresse, Zahra risponde: “Qui adorano Dio, significa che non adorano gli Stati Uniti, non adorano i cosmetici, non adorano il consumismo. Le donne non sono schiave dei mariti”. E’ diventata famosa prima del marito Hosein e si parla anche di suoi presunti addestramenti al terrorismo di molte donne iraniane. Ha scritto dieci libri, fiera di essere “un esempio di donna islamica rivoluzionaria”. Per Zahra il velo è un simbolo del progresso: “E’ la più grande cosa che la Rivoluzione islamica ha fatto per le donne, le ha liberate dall’essere oggetti sessuali e le ha rese persone intellettualmente e spiritualmente importanti”. Scultrice e già consigliera del presidente Mohammad Khatami, Zahra ha visto esporre le proprie opere in molte piazze di Teheran. Sostiene che “il valore fisico della donna islamica è riservato alla casa e al marito, non ai capitalisti e agli stranieri. Le donne nel mondo islamico sono le più libere del mondo”. Il suo ideale movimentista l’ha appreso dal maestro e ideologo della rivoluzione, Ali Shariati. Costui aveva studiato alla Sorbona di Parigi e diceva che “millequattrocento anni fa alcuni schiavi, venditori di datteri, cammellieri e operai seguivano la religione di Maometto. Oggi debbono essere i lavoratori, i contadini, i mercanti, i burocrati e gli studenti a farla rivivere. I movimenti sorgono sempre tra il popolo, perché le classi dominanti aristocratiche promuovono la conservazione e impediscono il mutamento sociale per difendere la propria posizione…”. Sembra di leggere i discorsi di Zahra, che con Mousavi dice di stare “con il popolo” e “contro i tiranni”. Non a caso anche l’attuale leader supremo dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei, era vicino a Shariati e condivideva molte delle sue idee. Shariati e Zahra, che lei conobbe e seguì quando aveva appena vent’anni e usciva da una famiglia aristocratica, vedono nello sciismo un credo rivoluzionario. I suoi santi erano eroi rivoluzionari. La storia degli sciiti non sarebbe altro che la famosa dialettica della lotta di classe, culminante in una rivoluzione. Come amava ripetere Shariati: “Ogni giorno è Ashura, ogni luogo è Karbala”. Gli sciiti non dovevano accontentarsi di aspettare l’imam in passività, dovevano operare per affrettarne il ritorno. L’Iran avrebbe bisogno di passare per una nuova rivoluzione, lo “sciismo rosso” delle origini. Zahra è fiera di portare il nome di uno dei cinque santi personaggi a cui gli sciiti tributano il massimo onore: il profeta Maometto, sua figlia Fatima al Zahra, il genero e cugino Alì, e i nipoti di questo Hasan e Hussein. La figura di Zahra è agli antipodi rispetto alla consorte di Ahmadinejad, di cui non si sa quasi nulla e che è apparsa soltanto in un paio di fotografie con il chador completo. Ma Zahra ci consegna un’immagine persino più minacciosa, ammaliante e fascinosa del regime khomeinista. Ancora oggi Zahra ricorda, con orgoglio palpabile, di essere stata la “prima scrittrice islamista a sfidare il regime dei Pahlevi”. Il suo cognome, Rahnavard, significa “colei che è nel sentiero islamico”. Presagio di una rivoluzione ben diversa da quella immaginata da chi ha riempito le piazze a favore degli studenti iraniani. Zahra immagina di essere come Zaynab, la sorella di Hussein che accompagnò a Damasco la testa del fratello. Difese la vita dell’unico membro maschio sopravvissuto, il figlio di Hussein Alì, succeduto al padre come quarto imam, assicurando la continuità sciita. Si tratta pur sempre di una storia che deve la propria esistenza a una donna.

Il FOGLIO -Tatiana Boutourline : " Yazdi, i contatti con Rafsanjani e l’arresto in una stanza d’ospedale a Teheran"

 Ebrahim Yazdi

Roma. “Un’altra rivoluzione in Iran è impossibile”, ha detto un anno fa Ebrahim Yazdi intervistato dal quotidiano Asharq al Awsat , convinto che la democrazia sia “un processo in divenire” e che “quello che serve all’Iran è un cambiamento graduale”. All’opposizione da vent’anni, Yazdi è abituato ad analizzare gli eventi da una distanza spassionata. Continuerà probabilmente a seguirli da una cella. L’ex collaboratore di Khomeini, vice primo ministro per gli Affari rivoluzionari e ministro degli Esteri del governo Bazargan è l’ultima vittima illustre dell’ondata di arresti che sta colpendo in queste ore i nemici di Ahmadinejad. “Lo hanno cercato a casa e non lo hanno trovato. Ci hanno chiesto dove fosse e abbiamo capito che le cose si sarebbero messe male”, racconta la nipote di Yazdi prelevato dalla sua stanza di ospedale “senza motivo” da un gruppo di bassiji. Ma in queste ore di passione per i potenti della Repubblica islamica, non servono motivi, bastano i sospetti. Capo del Nehzat-e-Azadi-e-Iran, un partito di ispirazione religioso-nazionalista, Yazdi da vent’anni è ai margini della vita pubblica iraniana. Critico nei confronti dell’ayatollah Ali Khamenei, Yazdi è stato accusato di essere filo americano, “liberale” e di essersi dedicato al traffico d’armi in mancanza di una vita politica di primo piano. Scettico sulla teoria del “velayat-e-faghih”, non ha mai rinnegato la Rivoluzione e il magistero di Khomeini che continua a definire “un leader illuminato e un vero democratico”. Non ha mai pensato di dissociarsi dagli episodi più sanguinari della stagione post rivoluzionaria. Dice semplicemente “ci sono momenti e momenti”. Nonostante i contrasti con la leadership della Repubblica islamica, Yazdi non è mai stato annoverato come un sovversivo pure se questa non è la sua prima esperienza nelle celle iraniane. Nemico di qualsiasi ipotesi di “regime change”, Yazdi non pensa nemmeno che sia necessario cambiare la Costituzione. “La democrazia è come un bimbo nel grembo di sua madre, prima o poi uscirà”. Nell’attesa Yazdi si è riciclato come commentatore. Viene definito un “dissidente liberale” e offre compiaciuto opinioni pragmatiche sulla politica e l’economia.“Non esiste alcun concetto di amicizia o inimicizia nelle relazioni internazionali, perché questi rapporti sono in continuo divenire. Quindi ogni stato deve identificare i suoi interessi nazionali in linea con i cambiamenti internazionali”, sostiene Yazdi che a proposito del discorso di Ahmadinejad a Ginevra sostiene “l’unica cosa importante è capire se abbia influenzato gli interessi iraniani positivamente o negativamente”. Parole che riecheggiano la diplomazia flessibile di Hashemi Rafsanjani. Freddo nei confronti dei riformisti e di Khatami, Yazdi negli ultimi anni ha rivalutato Rafsanjani. Voci non confermate attribuiscono il suo arresto a questa simpatia e a ipotetici contatti con Moussavi. Dipinto da Time trent’anni fa come il ponte tra l’élite occidentalizzata e il clero rivoluzionario, Yazdi mirava secondo alcuni a riprendersi il suo posto nella storia. Dovrà aspettare ancora. Per i pasdaran di Ahmadinejad desiderosi di creare fratture nel caleidoscopico fronte della piazza, il dubbio è stato un motivo sufficiente per toglierlo di mezzo.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Hillary e Biden contro Obama: “Sei troppo soft”"

 Joe Biden

Joe Biden e Hillary Clinton premono su Barack Obama affinché assuma una posizione più energica a sostegno dei manifestanti in Iran mentre John Kerry e Howard Dean sostengono l’attuale scelta della Casa Bianca di non intromettersi nei fatti di Teheran.
Il dibattito nell’amministrazione Obama esce allo scoperto per effetto di quanto sta avvenendo: in Iran si succedono dimostrazioni con centinaia di migliaia di persone che suscitano emozione in America ridando fiato all’opposizione repubblicana a Capitol Hill, che per la prima volta dalla sconfitta presidenziale riesce a mettere in difficoltà la Casa Bianca rimproverandole «scarso impegno per difendere i diritti umani». A premere su Obama sono Hillary (che ieri si è fratturata il gomito scivolando nel parcheggio sotterraneo del Dipartimento di Stato) e Biden: il Segretario di Stato è sensibile a quanto sta avvenendo in Europa e teme di vedersi strappare dalla Francia la palma di leader nella difesa della democrazia, mentre il vicepresidente è attento agli umori del Senato, dove molti democratici condividono le critiche di McCain. Essere sulla difensiva significa per Obama esporsi al rischio di una leadership indebolita: da qui le indiscrezioni del «New York Times» sulle richieste a Obama di «avere toni più duri» sull’Iran.
A conferma del confronto in corso, scendono in campo anche i sostenitori dell’attuale linea dell’amministrazione, favorevole a «non intromettersi». John Kerry, capo della commissione Esteri al Senato, scrive in un editoriale sul New York Times che «interferire in Iran sarebbe un grave errore» perché non produrrebbe altro che l’indebolimento delle manifestazioni anti-regime e Howard Dean, ex presidente del partito democratico, aggiunge: «La mano leggera in questo momento è la scelta più giusta». D’accordo anche David Makovsky, analista del Washington Institute, secondo cui «visto che gli iraniani ancora incolpano l’America per il golpe del 1953 contro Mossadeq è comprensibile il basso profilo di Obama».
Il duello di opinioni nell’amministrazione ha già causato qualche cortocircuito. Due giorni fa il neanche trentenne diplomatico americano Jared Cohen - autore del best seller «Figli della Jihad» - ha chiesto a Twitter di sospendere la manutenzione del sito per evitare di bloccare il sistema di comunicazione online più adoperato dai giovani iraniani pro-Mousavi. L’amministrazione ha fatto però una brusca marcia indietro incaricando l’ambasciatore svizzero a Teheran - che rappresenta gli interessi americani - di far sapere ad Ali Khamenei che «non abbiamo fatto richieste formali a Twitter». Ciò non ha impedito a Teheran di accusare il Dipartimento di Stato di «strumentalizzare la protesta».
A suggerire l’ipotesi di un possibile rafforzamento dei falchi è la decisione presa da Obama di portare alla Casa Bianca dal Dipartimento di Stato Dennis Ross, titolare del portafoglio dei rapporti con l’Iran e noto per le sue posizioni rigide contro il nucleare. Ad aumentare la pressione su Obama vi sono tanto i sondaggi che danno la sua popolarità in calo - dal 61 al 56 - che la massiccia mobilitazione degli esuli persiani negli Usa, con sit-in, veglie e manifestazioni da Los Angeles a Washington e New York.

La STAMPA - Igor Man : " A Teheran in rivolta "

 Igor Man(zella)

Igor Man scrive, riferendosi alla cacciata dello Scià dalla Persia: " L'immenso rifiuto corale della della Corte del Pavone aveva, giustappunto, un bersaglio preciso : Reza Pahlevi, colpevole di stravolgere i connotati culturali dell'Iran ". In verità Reza Pahlevi è stato cacciato perchè voleva modernizzare la Persia togliendo potere ai latifondi dei mullah. Non ha nulla a che vedere con i "connotati culturali" iraniani.
Poi Man(zella) scrive : "
I ragazzi che inondano le piazze sono cresciuti col mito di Khomeini che in molti ritengono vittima di un tradimento ideologico ". In Iran tutto il sistema politico ed economico, la discriminazione della donna e degli omosessuali, deriva proprio dall'ideologia khomeinista. Altro che tradimento!
Man(zella) definisce Khamenei come il " pensoso ". Pensoso? E che significa? Semmai fondamentalista islamico. E Ahmadinejad? Man(zella) lo definisce "ascetico". Ascetico non ci sembra l'aggettivo approppriato  per descrivere un fondamentalista islamico intenzionato a distruggere Israele con la bomba atomica.
Secondo Man(zella) "
non è dunque una "sommossa" quella che agita l'Iran ma qualcosa di più tremendamente serio. Questo ci dice la "disponibilità a ricontare i voti" espressa dalla presidenza della teocrazia ". Presidenza della teocrazia, come se fosse un'istituzione normale e democratica. Per quanto riguarda la "disponibilità a ricontare i voti" è fasulla. Un trucco maldestro per tenere a bada la folla inferocita. Khamenei ha decretato il vincitore delle elezioni prima ancora che queste avvenissero, altro che contare i voti.
L'articolo si conclude con un elogio del corano "
Chiedemmo a uno degli sconosciuti che ci avevano coperti di slancio coi loro corpi perchè mai lo avessero fatto. Risposta: "Siamo tutti fratelli, lo dice il Corano " ". Con questa frase finale Man(zella) può aspirare alla carica di Presidente di Eurabia.

La REPUBBLICA - Lucio Caracciolo : " La pistola sul tavolo "

 Lucio Caracciolo

Ecco un perfetto articolo in stile Caracciolo: l'ambiguità regna sovrana nei suoi pezzi. Il programma nucleare iraniano non solo a scopi civili, ma secondo Caracciolo l'Iran non sgancerà mai una bomba su Israele (perchè darsi tanto da fare per costruirla, allora?). Secondo Caracciolo Moussavi non è diverso da Ahmadinejad, ma almeno era una faccia nuova "non sporcata dalle contumelie antisemite del presidente attuale ". A dire il vero nemmeno Moussavi è amico di Israele e degli ebrei che ci abitano. Per non dire delle cariche che ha ricoperto subito dopo l'arrivo di Khomeini, e le conseguenti responsabilità nelle esecuzioni di massa ordinate dall'ayatollah.
Ciò che conta, per Caracciolo, è confondere le idee, più che esporre un'opinione chiara e limpida. Ecco l'articolo:

Barack Obama vuole passare alla storia come il leader americano della mano tesa alla galassia islamica. Ora sappiamo che la mano da stringere, sul decisivo fronte iraniano, sarà quella di Mahmud Ahmadinejad.
Salvo che la crisi conseguente alla vittoria più o meno rubata dello "spazzino del popolo" porti, come oggi non pare, al collasso del regime. Sapremo dunque presto di che pasta è fatto Obama: un Jimmy Carter al quadrato, ingenuotto e figlio dei fiori, come pensano molti dirigenti israeliani? Oppure un realista alla Kissinger, che non si perde in fumisterie e bada all´interesse nazionale, pur con un debole per la magniloquenza?
Perché se la Guida Suprema ha blindato il risultato elettorale, imponendo il trionfo di Ahmadinejad al primo turno, lo ha fatto perché conscio che il 12 giugno non si eleggeva solo il presidente dell´Iran, ma l´uomo che dovrà trattare con Obama. Khamenei voleva che a questo scopo fosse deputato il leader da lui inventato, piuttosto che l´odiato Mussavi, o chiunque altro dietro cui si stagliasse l´ombra dell´ancora più detestato Rafsanjani. Naturalmente riservando a se stesso l´ultima parola.
In gioco, nella partita con l´America, non è solo la bomba atomica, la stabilità dell´Iraq e dell´Afghanistan, la rilegittimazione dell´Iran come potenza regionale. Molto più, in questione è la sopravvivenza del regime. Khamenei non si fida delle garanzie di Obama. Pensa che l´America non si darà pace finché non avrà abbattuto la Repubblica Islamica. Lo scopo ultimo della trattativa con Washington che quasi tutti i leader iraniani vogliono – con toni e in modi diversi – è la piena accettazione dell´Iran come grande potenza islamica nella regione e nel mondo. Dunque, se Teheran apre il tavolo del negoziato vero, a 360 gradi, la parola d´ordine è: vietato fallire.
Lo stesso vale per Obama. Per questo evita di impelagarsi nella partita iraniana, contando che la protesta si sgonfi abbastanza in fretta. Non è uomo da "rivoluzioni colorate". Crede che il cambiamento sia necessario e possibile, ma non attraverso interventi militari o complotti dell´intelligence – in Iran nessuno ha dimenticato la defenestrazione di Mossadeq per mano della Cia, più di mezzo secolo fa. è il dialogo che mina i regimi. Non lo scontro frontale che spesso li cementa.
è chiaro che per Obama trattare con Ahmadinejad significa rischiare l´osso del collo. Moussavi, che nella sostanza non è così diverso dal suo eversore, ci avrebbe almeno messo una faccia nuova, non sporcata dalle contumelie antisemite del presidente attuale. Ma alla Casa Bianca prevale l´idea che non vi sia alternativa al dialogo con l´Iran se si vuole disincagliare la corazzata americana, finita nelle secche mediorientali negli otto anni di Bush.
D´altronde, gli interessi americani e iraniani sono compatibili in Iraq e quasi identici in Afghanistan. Il vero scoglio sembra il nucleare, anche per la sua potenza evocativa. Obama non può permettersi che alla fine del negoziato l´Iran esibisca la bomba atomica.
Ma Khamenei e associati vogliono davvero l´arma definitiva? E vogliono usarla contro Israele? Si può dubitarne. A meno di non attribuire una vocazione suicida al regime. Il che è certamente lecito, visto che la politica non sempre obbedisce alla ragione, o a ciò che noi qualifichiamo tale. Ma se è vero che pasdaran, basiji, autorità religiose e altre corporazioni consociate sono vocate al primum vivere, l´Iran si fermerà a un passo dalla Bomba. Si accontenterà di poter allestire in pochi mesi un arsenale atomico, in caso di emergenza, piuttosto che sventolarlo sotto il naso di arabi e israeliani. I primi non impiegherebbero molto per dotarsi di un deterrente analogo. Gli altri, che l´hanno ma non lo ammettono, dovrebbero scegliere fra attacco preventivo (secondo il capo del Mossad ci sono cinque anni di tempo) e deterrenza stile guerra fredda. Israele ha già oggi in canna il secondo colpo distruttivo, disponendo di testate atomiche montate su sottomarini (di fabbricazione tedesca – nemesi storica), che scamperebbero quindi a un attacco nucleare contro il suo territorio.
Obama non può dirlo, e forse non lo dirà mai, ma sembra aver accettato la "soluzione giapponese". Pare rassegnato a che l´Iran si doti di tutto ciò che serve per costruire l´arma atomica, ma non di essa. Una distinzione sottile. Forse capziosa, se non ipocrita. Perché nucleare civile e bomba atomica non sono poli opposti, ma tappe lungo l´identico percorso.
Alla fine la decisione iraniana e americana sarà politica, non tecnica. Purché prima non ci pensi Israele, sempre più preoccupato dall´inclinazione di Obama al dialogo con il suo nemico esistenziale, a sparigliare i giochi attaccando l´Iran. La pistola forse non sarà mai usata, ma resta sul tavolo. In bella vista.

La REPUBBLICA - Neil Macfarquhar : " Dalle moschee alla città sacra di Qom il clero iraniano vero ago della bilancia "

 Qom, la città santa del terrore islamico

Gli esponenti più influenti del clero non sono l'ago della bilancia fra Ahmadinejad e Moussavi. La loro posizione conservatrice è nota. E' facile immaginare con chi si schiereranno. Ecco l'articolo:

Con l´establishment iraniano impegnato in una lotta intestina, un interrogativo che aleggia sopra la rivolta di questi giorni è da quale parte si schiereranno gli esponenti più influenti del clero. Fino a questo momento i mullah - forza in grado di spostare gli equilibri dello scontro - sono rimasti in silenzio, con la significativa eccezione di alcuni grandi ayatollah: uno ha attaccato lo spoglio dei voti definendolo «una grossolana ingiustizia», mentre alcuni leader religiosi si sono uniti alla protesta popolare. Gli esponenti del clero, concentrati nella città santa di Qom, sono un gruppo tendenzialmente conservatore. «Alcuni si sono messi in mostra, ma nessuno con un ruolo di leadership», dice Mohsen Sazegara, ex collaboratore dell´ayatollah Khomeini, che ora vive in esilio.
Uno dei misteri che stanno dietro alle grandi manifestazioni di questa settimana è da chi siano coordinate. Qualcuno sospetta che dietro ci sia la mano dell´ex presidente Rafsanjani. Tra i più potenti religiosi del Paese, è rimasto in silenzio dal momento in cui Ahmadinejad è stato proclamato vincitore, ma gira voce che si trovi proprio a Qom per tentare di convincere il clero a schierarsi con l´opposizione. Presiede l´Assemblea degli esperti, organo di 86 membri che ha tra i suoi compiti quello di approvare il comportamento della Guida suprema. In teoria, l´Assemblea ha il potere di rimuovere Khamenei, ma sarebbe un caso senza precedenti e qualunque tentativo in questo senso infiammerebbe ancora di più la situazione. Secondo gli analisti, un terzo dei membri dell´Assemblea è fedele a Rafsanjani, un quarto all´ayatollah Yazdi, mentore di Ahmadinejad.
Ahmadinejad, che alle elezioni del 2005 sconfisse Rafsanjani, in campagna elettorale ha accusato il suo "clan" e un altro esponente del clero di essere dei corrotti. Dichiarazione che ha spinto 36 religiosi a scrivere una lettera aperta in cui il presidente uscente veniva criticato per i suoi attacchi contro illustri mullah. L´approccio che sceglierà il governo di fronte alla rabbia della gente potrebbe ulteriormente alienargli le simpatie del clero. «Se il clero diventa nemico di Khamenei, immaginatevi le conseguenze», dice Shahram Kholdi, docente a Manchester. «Lo Scià si inimicò Qom e i religiosi non smisero di complottare fino a quando non fu rovesciato».
Ma le poche voci che si sono fatte sentire finora sono di esponenti già saldamente schierati col campo riformista. Secondo alcuni analisti, il rischio per la Guida suprema e per Ahmadinejad, se i mullah rompono i ponti con loro, è di vedere sbugiardata l´idea che il governo goda dell´approvazione dei vertici del clero. «Perderebbe consensi e la sua tesi secondo cui accettare i risultati del voto è un dovere religioso sarebbe smontata», dice Abbas Milani, autore di Eminent Persians. Inoltre, eventuali critiche da parte dei mullah renderebbero impossibile additare le manifestazioni come un complotto straniero. «Se il clero comincia a usare un linguaggio forte, l´idea che queste manifestazioni siano una rivoluzione creata da un mucchio di prostitute progressiste che vogliono andarsene in giro mezze nude, beh, non reggerebbe».

La REPUBBLICA - Tina Brown : " Mio marito lo Scià fece molti errori ma all´Iran ora serve democrazia "

 Farah Diba

PARIGI - Farah Diba Pahlevi, ex imperatrice persiana ricorda benissimo l´ultima volta che i giovani iraniani si sono riversati nelle strade di Teheran, scandendo slogan, lanciando pietre e chiedendo il cambiamento: fu l´inizio della rivoluzione contro suo marito, lo scià di Persia, che costrinse infine la coppia reale all´esilio nel 1979 e sconvolse la sua vita.
Durante il suo regno da imperatrice di Persia la Pahlevi, che ora vive a Parigi, era la Jackie O. iraniana - una donna graziosa, affascinante, nota per il suo impegno appassionato a favore delle arti. E persino quando il marito perse il consenso popolare a seguito del suo dominio autocratico e del duro trattamento riservato ai nemici politici, Farah Diba era ancora ammirata da molti per il suo fascino e per il suo calore umano.
Ovviamente guardando le dimostrazioni in tv e la repressione contro chi manifesta per la libertà qualcuno si chiederà che differenza c´è rispetto al regime di suo marito.
«Può essere, ma non ha senso fare paragoni. La cosa più importante oggi è sostenere gli iraniani all´interno del paese e la gente sa che non c´è paragone tra quello che ha fatto questo regime negli ultimi 30 anni e com´era lo scià».
Ripensando oggi al trattamento riservato al dissenso all´epoca si chiede mai se si sarebbe potuto avere un atteggiamento diverso?
«E´ sempre la stessa storia. Da trent´anni ci poniamo questa domanda, con tutti i vari se. I se sono tanti sia per noi che rivestivamo posizioni di responsabilità che per chi ha partecipato alla rivoluzione. Non ha senso fare paragoni o pensare al passato. Oggi dobbiamo davvero pensare al presente. Oggi tanti che sono stati contro il regime hanno il coraggio di dire che si rammaricano di aver fatto quello che hanno fatto».
Suo marito si è poi rammaricato per come aveva governato l´Iran?
«Di nuovo, bisogna tornare indietro di trent´anni, alla guerra fredda e ai problemi che avevamo laggiù. La speranza di mio marito era che suo figlio in futuro regnasse in maniera diversa… ma non possiamo diventare una democrazia dal giorno alla notte».
Cosa prova guardando queste incredibili immagini scorrere sullo schermo tv?
«Un senso di speranza. Mi sento vicina a questi giovani, ragazzi e ragazze, e a tutte le persone che sono in strada e subiscono la repressione. Ovviamente ho inviato un messaggio agli iraniani dicendo che sono con loro e ho esortato la polizia a considerare i dimostranti fratelli e sorelle e a non avere un atteggiamento repressivo».
Tutto questo non le ricorda altri momenti meno carichi di speranza?
«No, francamente non vivo nel passato, anche se alcune immagini vengono dal passato. Ma si vede che la gente in strada oggi a Teheran è diversa, nell´aspetto, nelle cose che vuole. E ho grande speranza che questo sia l´inizio della fine della teocrazia».
Suo figlio Reza da anni si esprime contro il regime e si dice addirittura che faccia parte di gruppi di esuli che auspicano un cambio di regime. E´ vero? Suo figlio ha forse in programma di tornare ora in Iran?
«Come la maggioranza degli esuli iraniani mio figlio ha espresso sostegno al popolo iraniano, per la disobbedienza civile, ed ha incoraggiato l´esercito e i guardiani della rivoluzione a non creare problemi, a non sparare ed imprigionare i manifestanti».
Secondo lei in che rapporti è ormai Ahmadinejad con la guida suprema? Si dice che sia molto ambizioso e voglia spingersi oltre, dopo tutto a quanto pare l´esercito è la base del suo potere.
«Sentiamo che esistono molte crepe anche all´interno dei gruppi più potenti in Iran. Non viene da fuori, viene da dentro, e non sono solo i giovani o la classe media - non esiste più la classe media. La maggioranza degli iraniani sono poveri e vivono in condizioni di povertà. Molti sono infelici in Iran, perché nonostante la ricchezza del paese - non solo le risorse naturali ma anche quelle umane - guardi quanti problemi abbiamo: povertà, tossicodipendenza, e, sfortunatamente, prostituzione, bimbi che chiedono l´elemosina in strada. E´ sconfortante».
Come pensa che l´Iran possa diventare una democrazia? Sarebbe opportuno un intervento esterno o la spinta deve venire dall´interno?
«Avrà luogo all´interno, non verrà da fuori, ma giudico importantissimo che il mondo libero capisca che deve dare appoggio al popolo iraniano».

Il GIORNALE - Laure Mandeville : " Ora gli ayatollah sono pronti a tutto "

 intervista a Reza Pahlavi

In un libro scritto con il giornalista Michel Taubmann («Iran l’ora della scelta») lei aveva già anticipato un sommovimento radicale della società iraniana. Ci siamo?
«È l’ora della verità. Dietro la mobilitazione a favore di Moussavi la realtà è quella di un referendum contro il regime. La situazione è quasi rivoluzionaria. Il paese è in rivolta. E personalmente ho sempre pensato che prima o poi sarebbe successo. I miei concittadini reclamano i loro diritti ben al di là di quello che il regime sembra disposto a concedere».
Che cosa tiene insieme il regime?
«In primo luogo naturalmente la repressione. Ma il regime mostra segni sempre più evidenti di frammentazione. E la guida suprema Khamenei è di fronte a un dilemma: se cede perde la faccia a favore degli iraniani. Se reprime la protesta perde ogni legittimità».
In ogni confronto tra un potere e una società civile viene il momento in cui il ruolo delle forze di sicurezza diventa decisivo. Nel suo libro lei spiega che queste forze non sono affatto monolitiche.
«Grazie ai miei contatti nel Paese mi sforzo di parlare alle forze dell’ordine per esortarle a non usare la violenza. La verità è che sono divise. Perfino tra i pasdaran e i basiji molti sono scontenti. Del loro livello di vita, della loro situazione. C’è anche un problema di coscienza. Finiranno per interrogarsi sul loro ruolo in questo tipo di situazione, sia che restino neutrali, sia che prendano le parti della popolazione e rifiutino l’ordine di sparare».
Lo scenario della repressione violenta resta comunque un’ipotesi. Alcuni analisti evocano sviluppi di tipo bonapartista, voluto da Ahmadinejad con una parte dell’esercito, che minaccerebbe il potere di un Khamenei ormai indebolito.
«Una Tienanmen iraniana resta un’ipotesi. La minaccia di una fazione pronta a dare vita a una nuova forma di dittatura, mettendo insieme elementi religiosi e militari contro Khamenei, non è da escludere. La dittatura iraniana è complessa e si fonda su un amalgama di forze che fanno appello a un interesse comune. Noi temiamo che il regime scelga la fuga in avanti e arrivi fino alla proclamazione della legge marziale per portare a termine una definitiva repressione contro gli oppositori. Sarebbe il sacrificio di intere generazioni e il regime finirebbe per accelerare il suo programma nucleare. Il che potrebbe scatenare un attacco preventivo israeliano. Uno scenario catastrofico. Per impedirlo bisogna sostenere il movimento di disobbedienza civile. Dobbiamo preparare sin da oggi un processo di transizione che permetta di orientare una parte del regime a favore del cambiamento, assicurando ai moderati un’amnistia e la possibilità di far parte di un sistema politico laico e democratico».
Lei parla come se questo cambiamento possa essere imminente...
«Ma il cambiamento c’è già: lei sa che il concetto di laicità oggi è più discusso nelle moschee di Qom che ad Harvard o a Londra?».
L’Occidente è secondo lei troppo prudente di fronte al regime?
«Essere prudenti è normale, ma il mondo non potrà lasciare soli milioni di iraniani senza reagire. E questo è il messaggio centrale che gli oppositori oggi in Iran mi chiedono di trasmettere. Io non dico che l’Occidente non debba avere un dialogo con il potere. Ma deve mantenere legami con l’opposizione iraniana, se vuole uscire dall’impasse geopolitico nel quale l’Iran mantiene l’intera regione. Il regime se ne frega delle sanzioni. La sola cosa che lo spaventa è che il popolo si ribelli. E questa paura deve essere utilizzata come una leva per fare pressione su Teheran. Il presidente Obama ha teso la mano all’Iran, ma il regime gli ha risposto organizzando delle manifestazioni in cui si urla “morte all’America”. Oggi sono contento di constatare che alla fine, in Europa come negli Stati Uniti, i responsabili politici hanno preso coscienza della vera natura del regime e mostrano il loro sostegno alle rivendicazioni democratiche dei miei concittadini».

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