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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
18.06.2009 Grossman e Yehoshua critici con Netanyahu per il suo discorso al BeSa Center
Intellettuali e politica, oy, oy...

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: A. B. Yehoshua - David Grossman
Titolo: «La pretesa inutile di Israele - Israele, con Netanyahu la pace è impossibile»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 18/06/2009, a pag. 1-39, l'articolo di A. B. Yehoshua dal titolo " La pretesa inutile di Israele " e dalla REPUBBLICA, a pag. 1-13, quello di David Grossman dal titolo " Israele, con Netanyahu la pace è impossibile ".

Due articoli  critici in risposta al discorso di Netanyahu al BESA Center di Tel Aviv.La nostra opinione è che il discorso di Netanyahu sia un'ottima proposta per gli arabi e che, ora, stia a loro decidere quale posizione prendere per il futuro. Netanyahu ha fatto delle offerte, ha promesso di impegnarsi per la nascita dello Stato palestinese. Tocca agli arabi decidere se accettare o meno. Se sceglieranno la seconda opzione (il rifiuto), la colpa non sarà da attribuirsi alla linea "dura" di Netanyahu, ma alla volontà degli arabi di distruggere Israele più che di fondare un loro Stato. 
Ecco gli articoli:

La STAMPA - A. B. Yehoshua : " La pretesa inutile di Israele "

 A. B. Yehoshua

Da più di quarantadue anni, a partire dalla Guerra dei Sei Giorni, un esiguo numero di israeliani, e non tutti di sinistra, ha sostenuto l’ideale di due Stati, israeliano e palestinese, come soluzione imprescindibile del conflitto mediorientale.
La maggioranza dei loro concittadini ha rifiutato questa soluzione in passato, così come i palestinesi. Per parecchi anni gli israeliani si sono chiesti innocentemente: chi sono mai questi palestinesi per avere uno Stato? E questi ultimi, di rimando: gli ebrei non sono che una comunità religiosa sparsa per il mondo. Perché mai dovrebbero possederne uno loro?
Molta acqua è passata sotto i ponti prima che questa soluzione cominciasse a filtrare negli ambienti politici e ideologici israeliani e palestinesi, sia su un piano morale che pratico. È vero, riconoscere a parole questo principio non ha ancora portato alla creazione di uno Stato palestinese e spesso gli eventi sono stati d’intralcio nel realizzare questa aspirazione. Ma sia israeliani che palestinesi hanno cominciato ad abituarsi a questa espressione, «Stato palestinese», e chi fra loro ne ha abbracciato l’ideale ha ottenuto sostegno e lustro sul piano internazionale.
Dopo i laburisti Peres, Rabin e Barak, si sono registrati i primi tentativi degli esponenti del Likud - Tzipi Livni, Ehud Olmert e Ariel Sharon - a muoversi in questo senso. Ed ecco che ora, dal baluardo della destra, è il turno di Benjamin Netanyahu. Ci si può quindi congratulare esclamando: meglio tardi che mai.
Noi tutti siamo consapevoli che il cammino verso la realizzazione di questo sogno è irto di difficoltà e ostacoli, sia da parte palestinese che israeliana. Ritengo che alcune delle condizioni poste dal primo ministro nel suo discorso tenuto all’università di Bar Ilan siano necessarie, altre invece sono inutili e complicano ancora di più una situazione già di per sé problematica e complessa. La pretesa di una smilitarizzazione del futuro Stato palestinese è necessaria, ragionevole e indispensabile e chiunque dia un’occhiata a una mappa geografica della regione può capirla e giustificarla. Anche l’Egitto, nazione grande e indipendente, accettò a suo tempo la smilitarizzazione del Sinai. Smilitarizzazione che rappresenta uno degli elementi fondamentali alla stabilità della pace con Israele. E paesi grandi e importanti quali il Giappone, la Germania e l’Austria sono soggetti da decenni a limitazioni nell’acquisto di armamenti ed equipaggiamento militare.
E pure la negazione del ritorno dei profughi palestinesi entro i confini di Israele è comprensibile, logica e giusta. Che senso avrebbe infatti riportare milioni di palestinesi in uno Stato il cui carattere e i cui simboli sono a loro estranei? Dove la maggior parte dei cittadini appartiene a un’etnia diversa dalla loro? A case e a terre che di fatto non esistono più? Quei profughi potrebbero viceversa stabilirsi in Palestina, loro madrepatria, tra loro concittadini, sotto la bandiera e l’autorità palestinese e a una distanza di soli trenta o trentacinque chilometri dalle case e dalle terre che abbandonarono, o da cui furono cacciati, più di sessant’anni fa.
Ma la condizione posta da Netanyahu che i palestinesi riconoscano il diritto del popolo ebraico di possedere uno Stato, o l’esistenza della nazionalità ebraica, è del tutto arbitraria. A mio parere è infatti superfluo chiedere ai palestinesi di riconoscere la nazionalità di un popolo che vanta una storia millenaria e il cui Stato mantiene rapporti diplomatici con più di centocinquanta paesi. Una simile pretesa non fu avanzata né verso l’Egitto né verso la Giordania e costituisce un ostacolo del tutto inutile. Sarebbe più che sufficiente chiedere ai palestinesi di riconoscere la legittimità di Israele, uno Stato la cui identità territoriale e politica è nota a tutti. Anche noi, da parte nostra, riconosceremo non tanto il popolo palestinese, che un domani potrebbe fondersi con quello giordano, quanto uno Stato palestinese sovrano e indipendente entro i confini del 1967.
La questione della nazionalità ebraica è infatti complessa anche per gli ebrei stessi, giacché molti di loro si considerano tali esclusivamente da un punto di vista religioso, e il rifiuto dei palestinesi di riconoscere Israele come Stato ebraico è motivato altresì dalla presenza di una minoranza palestinese all’interno dei suoi confini. Ecco, dunque, un altro buon motivo per accantonare questa pretesa. I rapporti tra la maggioranza ebraica e la minoranza palestinese sono una questione interna, delicata, nella quale non ritengo sia il caso di coinvolgere i palestinesi al di fuori di Israele. Per più di sessant’anni la maggioranza ebraica e la minoranza araba sono riuscite a convivere in maniera accettabile affrontando con relativa dignità l’inferno del terrorismo e dell’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Con l’avvento della pace noi tutti speriamo che questo legame si rinsaldi intorno alla comune cittadinanza israeliana.
In conclusione: nel negoziato per la creazione di uno Stato palestinese non mancheranno problemi e ostacoli. Concentriamoci quindi nel risolvere quelli principali - smilitarizzazione, insediamenti, confini e profughi - e lasciamo che la realtà della pace metta in ombra, o rimandi a un futuro più lontano, la soluzione di quesiti di natura teologica e storica.

La REPUBBLICA - David Grossman : " Israele, con Netanyahu la pace è impossibile "

 David Grossman

Il discorso di Benyamin Netanyahu è stato, come talvolta si suol dire, il discorso di una vita. Della nostra vita arenata, priva di speranze.
Ancora una volta la maggior parte degli israeliani può raccogliersi intorno a quella che sembra essere una proposta audace, generosa, ma che, al solito, è un compromesso tra i timori, il lassismo, e la magnanimità ipocrita del centro che sta "un po´ a destra e un po´ a sinistra". Ma quanto è grande la distanza tra tutto questo e la dura realtà, tra tutto questo e le legittime necessità, le giuste pretese dei palestinesi, accolte oggi dalla maggior parte del mondo, Stati Uniti compresi.
Ora, dopo che ogni parola del discorso è stata analizzata e soppesata, vale la pena di fare un passo indietro e osservare l´intera rappresentazione, l´intero quadro. Ciò che il discorso di Netanyahu ha rivelato, al di là di funambolismi ed equilibrismi, è la nostra impotenza, l´inanità di noi israeliani dinanzi a una realtà che esige flessibilità, audacia e lungimiranza. Se distogliamo lo sguardo da quella abile allocuzione e lo rivolgiamo agli ascoltatori, vedremo con quale entusiasmo costoro si barricano nelle proprie paure, avvertiremo il dolce deliquio provocato in loro dai palpiti di nazionalismo, di militarismo, di vittimismo: cuore vivo dell´intera concione.
All´infuori dell´accettazione del principio di due stati, spremuta a Netanyahu dopo grandi pressioni ed espressa in tono acido, in questo discorso non è stato compiuto alcun passo concreto verso un vero cambiamento di coscienza. Netanyahu non ha parlato «con onestà e coraggio», come promesso, di quanto siano rovinosi gli insediamenti e ostacolo alla pace. Non ha guardato i coloni negli occhi dicendo loro ciò che lui ben sa: che la topografia degli insediamenti è in contraddizione con quella della pace, che molti di loro saranno costretti a lasciare le loro case. Netanyahu era tenuto a dirlo. Non avrebbe per questo perso punti in un futuro negoziato con i palestinesi: ne avrebbe permesso l´avvio. Era tenuto a parlare a noi israeliani come a degli adulti, non avvolgerci in strati di coibente per proteggerci da fatti noti a tutti. Doveva parlare apertamente e dettagliatamente dell´iniziativa araba, indicare i punti che Israele è disposto ad approvare e quelli che non può accettare. Doveva rivolgere un appello agli arabi, lanciare loro una sfida che avrebbero potuto raccogliere, e avviare così un processo vitale per Israele. Per lunghi minuti si è invece dilungato sulle promesse e sulle garanzie che Israele deve ottenere dai palestinesi, ancor prima di iniziare un negoziato. Non ha accennato ai rischi che lo stato ebraico deve correre se vuole ottenere la pace. Non ha convinto di essere veramente intenzionato a lottare per la pace. Non si è posto a capo di Israele per guidarlo verso un nuovo futuro. Si è limitato a echeggiare noti timori.
Ho visto Netanyahu e l´impressionante percentuale di consensi da lui ottenuti dopo il discorso e ho capito quanto siamo lontani dalla pace. Quanto l´abilità, il talento, la saggezza di concludere la pace si siano allontanati da noi (e forse si siano atrofizzati in noi) così come lo stimolo salutare di salvarci dalla guerra. Ho visto il mio primo ministro impegnato in uno spettacolo acrobatico a labbra strette, in un´esibizione raffinata di rifiuto, di voluta cecità. Ho visto come funziona in lui quel meccanismo automatico che trasforma "un tentativo balbettato di parlare di pace" in un ben articolato auto-convincimento di essere condannati a finire per l´eternità trafitti da una spada. Ho visto e ho capito che da tutto ciò non avremo la pace.
Ho notato anche come gli esponenti palestinesi hanno reagito al discorso di Netanyahu e ho riflettuto che pure loro sono nostri partner fedeli in questo percorso di annichilimento e di fallimento. La loro reazione avrebbe potuto essere più saggia e avveduta del discorso stesso; avrebbero potuto persino aggrapparsi alla disdegnosa concessione fatta loro, controvoglia, da Netanyahu e sfidarlo ad avviare un negoziato, come da lui proposto all´inizio del discorso. Un negoziato durante il quale esiste una qual certa possibilità che le due parti discendano dall´alto dei loro vacui proclami e tocchino il terreno della realtà. E forse anche la terra promessa.
Ma i palestinesi, intrappolati come noi in un meccanismo di reazione belligerante e antagonista, hanno preferito parlare dei mille anni che trascorreranno prima che accettino le condizioni poste da Netanyahu.
Questo è il discorso di Netanyahu e questo è ciò che hanno rivelato le sue parole: anche se la maggior parte degli israeliani vuole la pace, probabilmente non è più in grado di raggiungerla.
Ci possiamo persino chiedere se noi, israeliani e palestinesi, comprendiamo veramente e profondamente il significato della pace, come potrebbe essere una vita pacifica. E subito sorge la domanda se una speranza di vera pace ancora esiste nella nostra coscienza.
Perché se questo non è il caso (e il discorso di Netanyahu l´ha chiarito in modo quasi imbarazzante) non avremo modo di concludere un accordo e, per quanto ciò suoni strano, non siamo nemmeno incentivati a farlo.
Il discorso di Netanyahu, che doveva elevarsi verso il nuovo spirito diffuso nel mondo dal presidente Obama, ci dice, tra le sue righe tortuose, che questa regione conoscerà la pace solo se questa ci verrà imposta. Non è facile ammetterlo, ma si ha sempre più l´impressione che sia questa la scelta davanti alla quale si troveranno israeliani e palestinesi: una pace giusta e sicura imposta alle parti da un fermo intervento internazionale, capitanato dagli Stati Uniti; oppure la guerra, che potrebbe rivelarsi più cruenta e amara delle precedenti.

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