Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Iran: il regime non rinnova i visti per i giornalisti e blocca i siti internet analisi di Maurizio Molinari, Carlo Panella, redazione del Foglio, Gennaro Malgieri, Bill Keller. Interviste a Juan Cole, Davoud Bavand e Masoud Dehnamaki
Testata:Corriere della Sera - Libero - Il Foglio - La Stampa - La Repubblica Autore: Maurizio Molinari - Carlo Panella - La redazione del Foglio - Bill Keller - Gennaro Malgieri - Andrea Nicastro - Claudio Gallo - Francesca Caferri Titolo: «I repubblicani contro Obama: 'Esita troppo' - Obama è flaccido, crede che la rivoluzione non avrà successo - Gli iraniani non vogliono più stare nel giardino di 'Mio zio Napoleone '- Così le proteste in Iran intralciano la realpolitik di Obama - Moussavi»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 18/06/2009, a pag. 9, l'analisi di Maurizio Molinari dal titolo " I repubblicani contro Obama: 'Esita troppo' ", dal FOGLIO, a pag. 3, l'analisi di Carlo Panella dal titolo " “Obama è flaccido, crede che la rivoluzione non avrà successo” " e gli articoli titolati " Gli iraniani non vogliono più stare nel giardino di 'Mio zio Napoleone ' ", " Così le proteste in Iran intralciano la realpolitik di Obama ", " Moussavi ha un lato sinistro segnato da morte e fanatismo " e " La rivoluzione dei giovani confida in un ayatollah di 87 anni ", dalla REPUBBLICA, a pag. 11, l'articolo di Bill Keller dal titolo " Il regime non vuole più testimoni presto fuori tutta la stampa estera ", da LIBERO, a pag. 19, l'analisi di Gennaro Malgieri dal titolo " Anche se la spunta Ahmadinejad il processo di libertà è irreversibile ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 17, l'intervista di Andrea Nicastro al regista iraniano Masoud Dehnamaki dal titolo " E il regista più popolare avverte: «Ahmadinejad resta forte e amato» ", dalla REPUBBLICA, a pag. 10, l'intervista di Francesca Caferri a Juan Cole, docente di storia mediorientale all'Università del Michigan, dal titolo " Ma dopo la rivolta il dialogo con gli Usa è molto più difficile ", dalla STAMPA, a pag. 8, l'intervista di Claudio Gallo a Davoud H. Bavand , professore di Scienze Politiche e Diritto Internazionale, dal titolo " Il governo dica qualcosa o sarà querra civile ". Ecco gli articoli:
La STAMPA - Maurizio Molinari : " I repubblicani contro Obama: “Esita troppo” "
John McCain lo accusa di non essere un buon presidente, Charles Krauthammer di tradire gli studenti iraniani e il Wall Street Journal di lasciare nientemento che Parigi a difendere i valori fondanti della Costituzione americana: i conservatori di Washington vanno all’attacco di Barack Obama rimproverandogli di «esitare troppo» di fronte ai moti di piazza a Teheran, avendo scelto una linea di «non interferenza» che considerano in contrasto con «il ruolo della nostra nazione nel mondo». Ieri il regime degli ayatollah ha espresso una protesta formale contro le «intollerabili ingerenze» di Washington nella crisi postelettorale. Il portavoce della Casa Bianca Robert Gibbs ha replicato che il presidente «continuerà a esprimere la sua preoccupazione». Ma a molti non basta. A guidare l’offensiva è il senatore repubblicano dell’Arizona che Obama sconfisse nelle urne dell’Election Day. «Quando dei pacifici dimostranti vengono picchiati e uccisi nelle strade da un regime oppressivo - scrive in un articolo sul quotidiano UsaToday - gli Usa hanno il dovere di farsi sentire, quando i manifestanti vengono fatti tacere noi dobbiamo alzare la nostra voce per loro, quando un’elezione viene rubata gli Usa devono esprimere un’energica condanna». E’ proprio questa che continua a mancare e McCain trascina i leader repubblicani del Congresso che in una raffica di interviste imputano ad Obama di «dimenticare valori che non sono repubblicani o democratici ma di tutti gli americani». Fra gli opinionisti il più duro è Charles Krauthammer, del Washington Post, che dagli schermi di Fox News punta l’indice contro Obama imputandogli di «tradire i giovani di Teheran» con un «silenzio assordante» che «sta facendo cadere in pezzi un momento potenzialente cruciale della nostra storia». «Quando dice che rispetta la sovranità iraniana è musica per le orecchie di Ahmadinejad, dovrebbe invece trovare le parole per incoraggiare moralmente chi si batte per la libertà nelle strade di Teheran». Irridente l’editoriale del Wall Street Journal intitolato «Obama abdica all’Iran» nel quale si mette in contrasto la determinazione del presidente francese Nicolas Sarkozy nel condannare la «brutale risposta degli ayatollah» con la «realpolitik di Obama a cui dispiace che la democrazia possa interferire con il piano preordinato di raggiungere un grande accordo con gli ayatollah sul nucleare». Per il giornale di Rupert Murdoch «la rivolta iraniana, sebbene non sia ancora una rivoluzione, sta dando ragione a Hillary Clinton» che durante la lunga battaglia delle primarie democratiche accusava Obama di «inesperienza e scarsità di istinti da leader» prevedendo in un efficace spot tv che «non sarebbe riuscito a rispondere ad una chiamata alle 3 del mattino dovuta ad una situazione di vera crisi». A rendere più evidente l’assedio di critiche nei confronti della Casa Bianca c’è la scelta della Cnn di unirsi al coro. La tv fondata da Ted Turner, accusata dai conservatori di essere una roccaforte obamiana, ha affidato alla corrispondente Christiane Amanpour appena tornata dall’Iran un commento al vetriolo nei confronti del presidente che ieri aveva detto alla Cnbc: «Non ci sono molte differenze fra Ahmadinejad e Mousavi». «Non ho idea di cosa passi per la testa della Casa Bianca - replica Amanpour, che è di origine persiana - ma per gli iraniani Ahmadinejad e Mousavi sono uguali come il giorno e la notte perché le loro politiche interne non potrebbero essere più differenti, senza contare che sul dossier nucleare Ahmadinejad sfida il mondo mentre Mousavi ha fatto capire che avrebbe un approccio assai più aperto». Il politologo Dan Senor, esperto di Golfo Persico al Council for Foreign Relations di New York, suggerisce una via d’uscita a Obama: «Aiuti l’onda verde in Iran come fece l’Occidente nel 2004 con la rivoluzione arancione in Ucraina quando America ed Europa si unirono non riconoscendo un risultato elettorale chiaramente falso, aprendo così la strada a cambiamenti interni in favore della democrazia».
Il FOGLIO - Carlo Panella : " “Obama è flaccido, crede che la rivoluzione non avrà successo” "
Michael Ledeen
Roma. “Più in fretta, per favore”. Michael Ledeen è noto tra gli esperti di Iran per questo suo continuo auspicio di un contrasto al “clerico-fascismo” del regime fondato da Khomeini. Oggi è euforico per gli avvenimenti di Teheran e soltanto la sua carica di simpatia umana gli fa sopportare le perplessità di chi gli fa questa intervista. Innanzitutto la valutazione controcorrente – che condivido – avanzata da Meir Dagan, capo del Mossad, durante un’audizione alla Knesset, in cui ha invitato a non farsi illusioni sui possibili sviluppi delle manifestazioni in Iran: “Non dureranno a lungo, sia perché sono circoscritte a Teheran e a un’altra provincia, sia perché quello che conta in Iran è la posizione della Guida Suprema Ali Khamenei, e il suo appoggio ad Ahmadinejad non è cambiato. Quella in corso è in realtà una disputa tra le élite iraniane”. Un poco sconcertato nei suoi entusiasmi che pensava condivisi, Ledeen è tranciante: “Nella mia lunga esperienza ho sempre visto che i governi e gli uomini delle istituzioni dicono sempre che non è possibile che le rivoluzioni abbiano successo. Mi pare che il Mossad faccia come i nostri bravi consiglieri della Casa Bianca che sono tutti lì a dire ‘stia tranquillo, Mr President, lasci perdere, Ahmadinejad resterà in sella, non faccia cose folli’. Non sono affatto sicuro che il Mossad sia in grado di monitorare la piazza iraniana”. Quanto alla consistenza del blocco sociale che esprime ancora consenso ad Ahmadinejad, Ledeen dà un giudizio liquidatorio e non la considera rilevante. Nuovo sconcerto a fronte delle perplessità sulla leadership di un Moussavi che dal 1981 al 1988 come premier ha contribuito ha imprigionare – e a impiccare – centinaia di dioppositori che avanzavano proprio il suo programma di oggi: “Il movimento cova sotto la cenere da 25 anni, non da ieri e ora ha scelto Moussavi e sua moglie come leader. E’ il movimento che li ha creati, non loro il movimento. D’altronde non è il primo caso di rivoluzionari diventati controrivoluzionari, basti pensare al Termidoro, attuato da amici di Saint Just, non certo da monarchici. In più, la vera leadership eversiva per Khamenei e Ahmadinejad è sottotraccia, ma è fondamentale, ed è costituita da quei trenta grandi ayatollah che fanno una prudente fronda, il cui portavoce è l’ayatollah Montazeri”. Ledeen è a tal punto sicuro ed entusiasta della radicalità della crisi del regime che non ritiene neanche abbia spazi di manovra – al di là della repressione dura, che paventa – per “ricompattare” consenso attizzando una crisi con un nemico esterno: “Ormai tutte le sue energie sono spese, si trova come nell’ultima scena del ‘Libro degli Anelli’, là dove il Malvagio coglie il pericolo mortale della minaccia interna, ma ormai tutta la sua energia è calata. Il regime non ha tempo per organizzare una risposta politica ‘alta’. Sono sicuro che ormai impieghi anche tutti i terroristi arabi cui ha dato asilo per la repressione più efferata, per le squadracce che uccidono gli studenti”. Quanto all’effetto del discorso del Cairo sulla scena iraniana, Ledeen ritiene che sia stato opposto a quello che Obama si era prefissato: “Ha dato l’ultima spinta, ha convinto i dissidenti iraniani che si dovevano liberare da sé, che era ora di smettere di attendere quell’aiuto degli Stati Uniti che inutilmente hanno atteso dall’Amministrazione Bush. La reazione di Obama – il suo definire Moussavi uguale ad Ahmadinejad – è difficilmente definibile, mi viene in mente soltanto un termine: flaccidume.”
Il FOGLIO - " Gli iraniani non vogliono più stare nel giardino di "Mio zio Napoleone ""
scontri a Teheran
Roma. Al suo quinto giorno di passione l’Iran in rivolta contro Mahmoud Ahmadinejad si è ritrovato in Piazza Haft-e-Tir. La mattina la polizia è passata di quartiere in quartiere per abbattere le paraboliche. Si moltiplicano gli arresti. Le comunicazioni sono più difficili, i giornalisti banditi, eppure il passaparola vola lo stesso da un quartiere all’altro di Teheran e dalla capitale verso Isfahan, Shiraz, Ahvaz, Ardakan, Tabriz, dove si moltiplicano i focolai di protesta. La Bbc intervista il capo dell’Agenzia atomica, Mohammed ElBaradei, che ammette: “E’ vero, l’Iran vuole l’atomica” e poi trasmette la foto sfocata di un lunghissimo corteo. “Sono tanti, tantissimi almeno 100 mila, ma i testimoni dicono anche mezzo milione”, dice il corrispondente. A Ginevra, Parigi, Los Angeles, gli iraniani della diaspora fanno da cassa di risonanza ai racconti di amici e familiari. Spiegano che stavolta il genio è uscito dalla lampada. Dicono “siamo tantissimi e non ci fermeremo” e, per una volta e chissà per quanto, parlano al plurale, si sentono un corpo unico accantonando trent’anni di diffidenze. Dormono con la Cnn accesa, guardano i filmati clandestini su YouTube. Chi non ha confidenza con la tecnologia ha scoperto in una manciata di giorni che cosa siano Twitter, Facebook e Skype. Non c’è posto per il cinismo. Nessuno sottovaluta le incognite rappresentate dalla ferocia dell’apparato repressivo del regime, ma la vertigine della speranza è più potente. Perché il protagonista della protesta non è una persona, il personaggio del giorno Mir Hossein Moussavi, ma una sensazione, un sentimento. Il senso che la misura è colma e che a dire basta sono un po’ tutti. E l’auspicio che gli iraniani escano finalmente dal giardino di “Dai Jan Napoleon” non è mai stato tanto tangibile. “Mio zio Napoleone” è il titolo di un romanzo satirico scritto da Iraj Pezeshkzad negli anni Settanta, un libro-culto che ha fatto ridere e riflettere due generazioni di iraniani. La storia ruota attorno alla figura di un uomo insoddisfatto che non trova balsamo migliore per curare le sue frustrazioni del dominio sulle vite degli altri. Sconfitto dalla vita, supplisce ai fallimenti rifugiandosi in un mondo parallelo in cui lui è un novello Napoleone che ostenta la sua potenza e denuncia cospirazioni. Zio Napoleone è un archetipo, ogni iraniano ne conosce uno. Il sospetto è una malattia nazionale. Per il complottismo gli iraniani hanno un debole che per mezzo secolo ha coinvolto gli inglesi. “Tira giù la barba di un mullah e vedrai la scritta ‘made in Britain’”, dice un detto. Zio Napoleone vede macchinazioni britanniche ovunque e trascina nel suo delirio domestici e familiari che vivono affacciati sul suo giardino. Come lo zio Napoleone, il regime ha imprigionato gli iraniani in un recinto con confini determinati da antiche paranoie. Le tante anime (contraddittorie) del corteo Per la prima volta gli iraniani sentono che è possibile spezzare l’incantesimo. Vogliono uscire dal giardino di mullah e pasdaran. Non ne possono più di sentir parlare di palestinesi. Sono stanchi di pagare un obolo alle cause degli altri quando faticano ad arrivare alla fine del mese, sfiancati dalle filippiche di dirigenti che guardano soltanto al loro ombelico e ricollegano tutti i mali del mondo, compresi il traffico e il terremoto, a un piano segreto sionista o americano. Chiedono una politica ispirata a un minimo di raziocinio per vivere vite vivibili se non felici, con cose normali come permettersi un mutuo o fare una vacanza lontano dallo sguardo indagatore di uno zio Napoleone. L’entusiasmo che in questi giorni ha colto di soprassalto l’ayatollah Ali Khamenei e il suo Consiglio dei Guardiani ha svegliato da un lungo sonno milioni di persone. Forse la lunga traversata è finita, forse – si dicono gli iraniani – diventeremo grandi senza più avere bisogno della protezione di un monarca assoluto o la tutela di una Guida Suprema. Il popolo che manifesta ha tante anime. Sfila chi vorrebbe la restaurazione della monarchia, chi difende la Repubblica ispirata a valori islamici e chi auspica uno stato laico. Torneranno a dividersi probabilmente, ma in questi giorni marciano compatti. E persino chi detesta il sistema non teme di contaminarsi spalla a spalla con una compagnia di giro che comprende insider come Moussavi e decani in odore di malaffare come Hashemi Rafsanjani. Non importa se la piazza ha trovato protettori nei palazzi del potere. Non importa che i cospiratori stiano macchinando vendette per riconquistarsi il loro posto al sole. Si può anche fare un patto con il diavolo per scavalcare il giardino di zio Napoleone.
Il FOGLIO - " Così le proteste in Iran intralciano la realpolitik di Obama"
Robert Kagan
New York. Il presidente, ha scritto ieri il Wall Street Journal nel suo primo editoriale, ha denunciato “la portata dei brogli” e la risposta “scioccante”, “brutale” e “violenta” del regime iraniano alle manifestazioni di piazza di Teheran. “Queste elezioni sono un’atrocità”, ha detto. Purtroppo, ha scritto il Journal, il presidente che ha pronunciato queste parole non è americano, ma francese, Nicolas Sarkozy. Barack Obama, invece, continua a monitorare la crisi iraniana evitando di condannare la reazione degli ayatollah o di abbracciare le ragioni della rivolta. Nei primi due giorni non ha detto una parola, poi ha cominciato a esprimere “profonda preoccupazione” per la situazione, senza mai mostrare particolare vicinanza ai manifestanti. Anzi ha lodato l’intervento del leader supremo iraniano, l’ayatollah Ali Khamenei, per aver deciso di verificare eventuali irregolarità. Tra i due contendenti, ha detto correttamente Obama, in realtà non c’è grande differenza programmatica e, in ogni caso, l’America avrà a che fare con un regime nemico. Eppure, fino alla vigilia del voto, i suoi uomini puntavano decisamente su una vittoria di Moussavi e credevano di poter accreditare la sconfitta di Ahmadinejad alla nuova strategia del dialogo impostata dalla Casa Bianca. Il paradosso è che Obama ora ha bisogno che la protesta rientri al più presto e che a Teheran torni la calma istituzionale anche se la propaganda del regime lo accusa di fomentare la rivolta, ipotesi smentita da Obama due giorni fa e ieri dal Dipartimento di Stato. Il punto centrale della strategia obamiana e la grande innovazione rispetto agli anni di Bush, ha scritto ieri sulWashington Post l’analista neoconservatore Robert Kagan, anzi è la legittimazione del regime degli ayatollah. Al contrario di Bush che parlava direttamente al popolo iraniano e mediorientale scavalcando i loro leader, Obama si rivolge a chi è al potere, alle élite e all’establishment con cui crede possa riuscire a trovare un accordo. La prima urgenza obamiana, quindi, è far capire agli ayatollah che gli Stati Uniti non sono intenzionati ad abbattere il loro regime, né a sostenere l’opposizione né a cacciarli dal potere, tutte precondizioni necessarie per convincerli a sedersi al tavolo delle trattative per il “Grande accordo” sul nucleare e sul terrorismo. E’ questa l’essenza della strategia di Obama, ispirata ai principi della scuola di politica estera “realista” e decisamente opposta all’ingenuo idealismo democratico di Bush. Obama non parla come Sarkozy e non si rivolge direttamente al popolo iraniano perché segue la sua strategia. Non perché preferisca Ahmadinejad a Moussavi, e nemmeno perché teme che il sostegno americano possa diventare il bacio della morte per l’opposizione, ma perché se aiutasse anche soltanto a parole i manifestanti apparirebbe ostile al regime con cui vuole tentare un accordo. “Se lo trovate inquietante – ha scritto Kagan – fate bene. Anche perché la cosa peggiore è che questo approccio probabilmente non impedirà agli iraniani di dotarsi dell’arma nucleare. Ma questo è il ‘realismo’. E’ la linea che ha convinto Brent Scowcroft a brindare a champagne con i leader cinesi alla vigilia di Tienanmen. Ed è il motivo per cui Gerald Ford non ha incontrato Alexander Solzenicyn durante la stagione della distensione”. I sostenitori di Obama che in tutti questi anni hanno criticato la “freedom agenda” di Bush e invocato un nuovo realismo in politica estera, ha scritto Kagan, di fronte alle proteste di Teheran si sono trovati improvvisamente a tifare per la libertà e la democrazia in Iran. Non solo. Credono che il fermento iraniano di questa settimana sia la conseguenza diretta delle parole di Obama al Cairo, quando invece è evidente che per la strategia presidenziale tutta questa incertezza è “una complicazione sgradita”. Ma, ha scritto su Slate l’analista di scuola realista Fred Kaplan, “è arrivato il momento in cui Obama ripensi la sua politica di dialogo con l’Iran”. Non si può fare finta che non sia successo nulla. Ora, ha scritto Kaplan, l’idea che Hillary Clinton possa andare a Teheran e stringere la mano ad Ahmadinejad non sta più in piedi. Non è più una strategia realistica.
Il FOGLIO - " Moussavi ha un lato sinistro segnato da morte e fanatismo"
Salman Rushdie, costretto a vivere blindato per la fatwa lanciatagli dall'ayatollah Khomeini con l'appoggio dell'allora presidente "riformista" Moussavi
Roma. Ai primi di maggio agenti in borghese del regime iraniano hanno cercato di distruggere le prove del massacro di 30 mila prigionieri politici. Hanno smosso il terreno di parte del cimitero di Khavaran, a sud-est di Teheran, trasferendo i resti delle vittime. Hanno utilizzato scavatori e camion per sollevare il terreno dove si trovano enormi fosse comuni. Hanno cominciato a sostituirle con terreno fresco. I familiari delle vittime hanno scoperto resti di scheletri lasciati in superficie. I mullah sono stati costretti però ad abbandonare il progetto di fronte alle proteste dei familiari. Nel 2006 il presidente Ahmadinejad aveva ordinato la demolizione delle lapidi appartenenti ad alcuni dei prigionieri politici uccisi. I resti risalgono al luglio 1988, quando l’Iran conobbe il più spaventoso massacro nella storia della Repubblica islamica. Trentamila morti, erano riformatori, dissidenti, apostati, ribelli, oppositori politici. I loro nomi, ricostruiti dopo molti anni, sono oggi reperibili in rete. All’epoca il primo ministro con diretta responsabilità su quelle esecuzioni era Hossein Moussavi, il principale avversario di Ahmadinejad alla guida della Repubblica islamica. Moussavi, che reclama anche una discendenza dal settimo imam sciita, si è messo alla testa di un movimento politico di cui non conosciamo effetti e conseguenze. Dietro alla sua figura incensata di “riformatore” si cela un curriculum sinistro come è ben spiegato in un articolo di Kenneth Timmerman, direttore della Foundation for democracy in Iran. Moussavi è stato uno degli architetti del ministero dell’Informazione creato nel 1984, il responsabile della scomparsa, dell’uccisione e della persecuzione di migliaia di dissidenti. Il Mois, questo il nome della gestapo iraniana, fu costruita modellandola sul Kgb con l’aiuto di consulenti sovietici. Moussavi reclutava spie e informatori, autorizzava torture e arresti politici. In un’intervista al magazine Payane Enghelab del 1981, poco prima che diventasse primo ministro, Moussavi spiegò l’importanza di una milizia sciita libanese contro i “sionisti”. “Siamo pronti a combattere Israele con una forza armata”, disse Moussavi. Due anni dopo creò Hezbollah, oggi in prima fila nell’uccisione di ebrei in tutto il mondo, da Buenos Aires a Tel Aviv. Il 10 luglio 1981 il New York Times riferiva che Moussavi, da ministro degli Esteri iraniano, promosse una “purga” di diplomatici avversi al regime o fedeli del deposto Abolhassan Bani-Sadr. Il 26 ottobre di quell’anno la Reuters diffuse la notizia che Moussavi era contrario a ogni tipo di contatto fra Iran e Stati Uniti, “se non c’è un cambiamento radicale negli Stati Uniti”. Quattro giorni dopo l’Associated Press spiegava che la scelta di Moussavi come nuovo premier era “il segno che Teheran vuole esportare la rivoluzione islamica”. Su mandato di Khomeini, Moussavi prese in mano il principale quotidiano del regime, Jomhuri-e-islami, opponendosi al rilascio dei prigionieri americani e promuovendo l’ideologia talebana sciita, tra cui la messa al bando del gioco degli scacchi. Dopo la fatwa di morte contro lo scrittore Salman Rushdie, Moussavi annunciò che i fedeli della Rivoluzione avrebbero preso “misure necessarie” per portarla a termine. Nel 1991 la fatwa e i dettami di Moussavi diedero i primi frutti: a Tokyo venne ucciso a pugnalate il traduttore giapponese dei “Versetti satanici”, Hitoshi Igarashi. Trentasette ospiti di un albergo a Sivas, in Turchia, vengono uccisi nei tentativi di linciaggio del traduttore turco di Rushdie, Aziz Nesin. Anche il traduttore italiano di Rushdie stava per essere ucciso. Moussavi indisse un giorno di lutto nazionale per protestare contro “la cospirazione sporca e sinistra del Grande Satana nel pubblicare materiale velenoso che insulta l’islam, il Corano e il benedetto Profeta”. Durante il lungo premierato di Mousavi, iraniani hanno anche messo a segno alcuni degli attentati più eclatanti: trecento morti a Beirut contro gli americani, le uccisioni del cittadino statunitense William Buckley e del bibliotecario all’American University di Beirut Peter Kilburn, l’esecuzione del sociologo francese Michel Seurat e la sommossa alla Mecca del 1987 che costò la vita a quattrocento pellegrini.
Il FOGLIO - " La rivoluzione dei giovani confida in un ayatollah di 87 anni"
Ayatollah Montazeri
Roma. Si capisce che il movimento anti- Ahmadinejad – perché questo è il grande motivo unificatore delle proteste, più che il sostegno a Mir Hossein Moussavi – è nei guai dal campione che si è scelto: il grande ayatollah Hossein Ali Montazeri. Il leader religioso in Iran ha uno status quasi leggendario, ma ormai ha raggiunto la veneranda età di 87 anni. Due giorni fa – con un manifestino fatto circolare da tutti gli attivisti in giro per il paese – il movimento dei riformatori ha chiesto che Montazeri rimpiazzasse Ali Khamenei nel ruolo di Guida Suprema. Si tratta di una proposta velleitaria, perché l’onda delle proteste avrebbe piuttosto bisogno di un capopopolo instancabile fino all’irruenza, e sta avanzando come nel 1999 e nel 2003 sulle gambe dei giovani e degli studenti. Ma l’appello con il nome di Montazeri ha un significato simbolico fortissimo. Il grande ayatollah fu designato come proprio successore dallo stesso Ruhollah Khomeini. Quando il padre della Rivoluzione era in esilio, Montazeri rimase nel paese, a sfidare i servizi di sicurezza dello Scià, come capo del network di religiosi che preparava l’avvento della teocrazia. Per questo finì in prigione, ma fu scarcerato nel 1979, in tempo per vedere il disegno khomeinista compiersi e il paese intero spalancarsi per inghiottire la monarchia al grido di “Allahu Akhbar”, Dio è grande. Lo stesso grido scandito nelle piazze in questi giorni, per ricordare al paese che è tempo di cambiare leadership senza però incorrere nelle bastonate delle milizie filogovernative: nemmeno il più zelante custode dello status quo potrebbe punire l’invocazione islamica. Anche se vice di Khomeini, al punto da condividere parte dei suoi poteri – negli uffici pubblici la sua foto in formato ridotto era appesa accanto a quella del Grande Ayatollah –, Montazeri appartiene al campo riformatore, più aperto sulla giustizia sociale, sui diritti civili e su quelli delle donne (beninteso, tutto questo in accordo agli standard cupi dello sciismo più ardente a cui lui appartiene, quel ramo che crede nell’avvento del Dodicesimo Imam). Fu lui a prendere le distanze da Khomeini dopo l’ondata di esecuzioni politiche del 1988: “L’ingiustizia, la negazione dei diritti della gente e il disprezzo dei veri valori della Rivoluzione stanno sferrando i colpi più duri contro la Rivoluzione stessa”. E fu lui aa opporsi all’ascesa al potere dell’attuale Guida Suprema Khamenei, mettendo pubblicamente in dubbio la sua legittimità a essere Marja e Taqlid, “Fonte di emulazione”, il titolo di ayatollah. Per questo nel 1989 subì la rappresaglia delle Guardie rivoluzionarie: costretto agli arresti domiciliari e a indossare per umiliazione un berretto da notte al posto del turbante bianco, simbolo riverito del suo rango religioso. Fu liberato soltanto sei anni dopo, per il timore che morisse in prigionia e scatenasse l’ira dei suoi sostenitori. Non soltanto Montazeri è l’arcinemico di Khamenei, è l’unico in grado di reggere il confronto dal punto di vista del carisma religioso: è anche diventato il rivale della creatura politica di Khamenei, il presidente Mahmoud Ahmadinejad. Nel gennaio 2007, nel deserto del dissenso pubblico, si alzò la sua voce, vecchia e severissima: “L’inflazione nel prezzo delle case è al cinquanta per cento, questo paese non può essere governato a colpi di slogan. E provocare i nostri nemici ci crea soltanto nuovi problemi”. Per ora, però il suo unico appello invita i giovani a una cauta moderazione: “Non cedete alla violenza”.
La REPUBBLICA - Bill Keller : " Il regime non vuole più testimoni presto fuori tutta la stampa estera "
Bill Keller
In un locale con le immagini di Shakespeare e Samuel Beckett alle pareti, in luogo del molto più consueto volto austero del fu ayatollah Khomeini, con un sottofondo di musica jazz americana. «Di che disco si tratta?» ha chiesto un nuovo arrivato al proprietario del locale. Quest´ultimo ha mostrato la custodia di un Cd del grande bluesman John Lee Hooker. Davvero? Il cantante noto come Boogie Man ha suonato jazz? "Sì, Hoooooker" ha ripetuto. Be´, non si sa mai, meglio dare una controllatina. In albergo, però, dopo aver cercato su Google il nome che mi interessava è apparso un triangolo giallo con la scritta: "Accesso negato". Gli iraniani in linea generale sono d´accordo nel considerare la rielezione di Ahmadinejad un miracolo. Alcuni hanno creduto al senso letterale del commento dello stesso leader supremo, Ali Khamenei, allorché egli ha detto che nel processo elettorale era intervenuta la "mano miracolosa di Dio". Altri ci credono nel senso che in caso contrario non vi è alcuna spiegazione possibile che giustifichi la rielezione con un margine di oltre sette milioni di voti in più rispetto alla sua prima vittoria di un presidente che ha ridotto il suo paese nelle condizioni nelle quali versa al momento, tra le quali ci limitiamo a citare inflazione e disoccupazione alle stelle e isolamento internazionale. Gli iraniani più cosmopoliti hanno tutta una sfilza di teorie in grado di spiegare perché così tanti dei loro compatrioti sopportino – anzi, accolgano a braccia aperte – il paternalismo della loro semiteocrazia. «Gli iraniani sono monarchici»: questo è il commento di in ingegnere elettrotecnico che sostiene che la Rivoluzione Islamica del 1979 non espulse dal paese lo scià, ma si limitò a sostituirlo con un leader supremo, nella fattispecie un ayatollah le cui parole divennero metodicamente legge e che di rado sono state messe in discussione ufficialmente. Perfino i manifestanti che per le strade urlano "Morte al dittatore", non gridano niente nei confronti dell´uomo che è la guida spirituale del Paese da oltre 20 anni, l´ayatollah Khamenei. Le teorie cospiratorie tendono a fiorire nei governi autoritari dove predomina la segretezza, forse perché questi sistemi in fondo in fondo e forse anche nella sostanza sono cospiratori anch´essi. In Iran ciò è vero per l´opinione pubblica nel suo insieme: basti pensare al numero di persone che si sono portate al seggio da casa la loro penna venerdì scorso, per paura che quelle fornite dal governo contenessero "inchiostro simpatico". Altrettanto dicasi delle fisse dei suoi leader: l´elenco di Ahmadinejad di coloro che vogliono conquistare l´Iran comprende la maggior parte dell´ordine planetario post Seconda guerra mondiale, anche se al momento si concentra soprattutto sui media occidentali, senza i quali il popolo iraniano sarebbe coeso, felice e compiacente. Ieri il Ministro Guida – nome molto appropriato – ha annunciato che le credenziali di lavoro per i giornalisti non residenti sono state revocate e che le autorità non "si riterranno responsabili" qualora accadesse qualcosa ai giornalisti che volessero continuare a occuparsi della resistenza al risultato delle elezioni. I visti stanno per scadere e non saranno rinnovati. Per farsi un´idea di ciò che aspetta gli insoddisfatti iraniani quando in giro non ci sarà più nessun giornalista a riferire come vanno le cose, è sufficiente considerare quanto è accaduto lunedì notte a Isfahan, la terza città dell´Iran per importanza, a cinque ore di macchina dalla più vicina cinepresa tv straniera. Come a Teheran, vaste aree della città sono state teatro di incendi, lancio di lacrimogeni, sassaiole, teste sanguinanti. Ma a Isfahan la risposta della polizia è stata di gran lunga più violenta. Alcune bande di Basiji, i vigilantes autorizzati a circolare in abiti civili a bordo di motociclette sono stati lasciati liberi di scorrazzare a centinaia per seminare paura anche in zone molto lontane rispetto a quelle delle rivolte di piazza. Molti indossavano fasce verdi in testa, come i manifestanti dell´opposizione, forse per mimetizzarsi, forse per confondersi meglio tra la folla.
LIBERO - Gennaro Malgieri : " Anche se la spunta Ahmadinejad il processo di libertà è irreversibile "
Gennaro Malgieri
È possibile che un flebile vento di libertà cominci a soffiare sul vasto mondo islamico. Quanto sta accadendo in alcuni Paesi, fino a poco tempo fa ritenuti impermeabili alla democrazia ed alla tutela dei diritti umani, fa ben sperare, ma non consente, tuttavia, di coltivare eccessive illusioni. È però un fatto che a Teheran la popolazione si sia ribellata, pagando anche un pesante tributo di sangue, al regime che ha truccato le elezioni e che la campagna elettorale sia stata infiammata come non mai, caratterizzata dal coraggio di Mir Hossein Mussavi, il candidato truffato da Ahmadinejad e dalla Guida Suprema Alì Khamenei, il quale ha accusato in televisione il suo competitore di aver danneggiato la reputazione dell’Iran. In altri tempi non sarebbe stato immaginabile. Così come sarebbe stato fantascientifico ipotizzare la saldatura tra il vecchio mondo khomeinista, quello più lungimirante ed attento ai mutamenti interni ed internazionali, rappresentato in particolare dai due ex-presidenti della Repubblica islamica Alì Akbar Hashemi Rafsanjani e Mohammad Khatami e quello dei giovani dell’“onda verde”, delle donne, della borghesia che chiede una nuova rivoluzione a trent’anni da quella che spezzò i sogni della generazione che aveva defenestrato lo Scià. Comunque andranno le cose, in Iran niente sarà più come prima dopo gli avvenimenti recenti. Mussavi non soffia sul fuoco della rivolta, ma della ragionevolezza. È, per ora, “intoccabile” poiché tutti lo ricordano primo ministro di Khomeini per nove anni e suo pupillo. Khamenei, per poter ancora tiranneggiare, ha bisogno di un figuro come il presidente-fantoccio che si è scelto e dell’apparato repressivo costituito da pasdaran, basiji, esercito, magistratura. La novità è che di fronte a questo spiegamento di forze a Teheran nessuno ha più paura e le ragazze sognano di gettare al vento il velo che ha coperto i loro sogni.Anche in Libano, si temeva il peggio, in vista delle elezioni vinte dal fronte che si oppone all’asse siriano-iraniano, sostenuto dalle milizie di Hezbollah. Lo scontro politico che poteva trasformarsi in scontro militare non c’è stato. Ha prevalso il buon senso. E probabilmente a Beirut si respira un’aria nuova, come del resto a Damasco dove la polizia politica di Hafez Assad è molto meno presente tra i cittadini, s’intromette poco nella loro vita e un clima più “mite” sembra si vada affermando. La vicinanza con la Giordania, molto più avanti nel processo di liberalizzazione della società, ha il suo peso naturalmente. Come lo ha l’Egitto dove pure non mancano focolai di tensione, ma l’aver debellato i Fratelli musulmani, costituzionalizzando le loro frange moderate al punto di farle presentare alle elezioni e dargli la possibilità di sedere tra i banchi dell’Assemblea del Popolo, è un segno di forza e di realismo politico che non mancherà di “contaminare” i Paesi vicini anche se, di tanto in tanto, questioni inerenti la tutela dei diritti umani si affacciano anche al Cairo dove, però, una classe dirigente incline ad avere buoni rapporti con l’Occidente ed in particolare a recitare un ruolo di primo piano nel Mediterraneo è consapevole che sul terreno dell’ampliamento della democrazia si giocherà il suo futuro.Futuro che è già cominciato in Afghanistan dove il 17 agosto si terranno le prime “vere” elezioni presidenziali che vedranno in lizza ben 41 candidati. La fissazione della data e la massiccia partecipazione alla competizione sembra che abbia spiazzato i talebani, fattisi più minacciosi, e ridotto al lumicino le speranze di rinascita di Al Qaeda. È presto per cantare vittoria. Ma se dovesse passare anche da quelle parti il vento della libertà, la speranza di un nuovo rapporto con il mondo islamico non sarebbe peregrina. I segni di un cambiamento, comunque, ci sono. L’Unione per il Mediterraneo, che vive una fase di stanca, come prosieguo del defunto Processo di Barcellona, può svolgere un ruolo di grande importanza in vista di un dialogo più fattivo e costruttivo tra l’Europa ed i Paesi della sponda Sud dove le minacce integraliste sono state in misura significativa contenute: Marocco, Tunisia, la stessa Algeria che negli anni passati è stata sconvolta dal terrorismo fondamentalista, oggi vivono una stagione di effervescenza civile e culturale.Se il vento di Teheran dovesse soffiare sempre più forte, inevitabilmente “sconvolgerebbe” le vecchie nomenclature islamiche. Anche per questo l’Occidente non può restare a guardare
CORRIERE della SERA - Andrea Nicastro : " E il regista più popolare avverte: «Ahmadinejad resta forte e amato» "
Masoud Dehnamaki, regista di regime
TEHERAN — Brogli o non brogli, il presidente Mahmoud Ahmadinejad è di sicuro immensamente popolare in Iran. Non solo giovani miliziani prezzolati, ma tassisti, giardinieri, donne di servizio, operai ammettono con il sorriso sulle labbra di aver votato per lui. Una realtà che esce a fatica parlando con analisti e politologi di uno o dell’altro campo della scena iraniana, qui o all’estero. Il presidente è di solito ridotto a due stereotipi: pupazzo nelle mani della Guida Suprema Ali Khamenei, o caudillo islamico, maschera populista delle forze paramilitari pasdaran e basiji. Ahmadinejad può essere tutto questo, ma anche qualcos’altro. La sua ricetta politica è un originale mix di ineleganza, veemenza, orgoglio, generosità e messianesimo. L’affermazione del suo rapporto diretto con l’«Imam nascosto» della religiosità sciita qui è senza precedenti (al limite della blasfemia). È laico ma pio, presidente ma povero. Potente ma umile. Incarna gli ideali rivoluzionari della prima ora. Ideali pervasivi e assoluti, da «Islam rosso» (Allah e Marx), che convinsero lui a diventare pasdaran e centinaia di migliaia di adolescenti a entrare nelle milizie dei basiji. Sulla scena pubblica iraniana l’unico a poter vantare una storia simile a quella del presidente, altrettanto originale, controcorrente e popolare, si chiama Masoud Dehnamaki. È un uomo piccolo e secco, un ex basiji che veste roba cinese da 5 euro, si infila i calzini durante l’intervista, guadagna milioni di dollari e fa morire da ridere tutti gli iraniani. È regista. I suoi film sono unici. Potrebbero essere commedie brillanti, ma hanno una marcia in più e piacciono a tutti. In un anno il suo ultimo film,Esclusi, atto II ha incassato 8,5 milioni di dollari, quanto tutti gli altri messi assieme. È la pellicola di maggior successo dell’intera cinematografia nazionale. I quattro aspiranti presidenti hanno «rubato » la locandina del film per fotomontaggi contro i rivali. Nei dibattiti tv e nei discorsi della gente sono entrate le battute dei suoi personaggi, un contagio linguistico simile a quello che ebbe da noi Fantozzi. Eppure i lavori di Dehnamaki sono oltraggiosi per l’iconografia del regime. Teheran è cosparsa di murales alti interi palazzi di martiri giovanissimi che si sono immolati per la Fede e la Patria, circondati da fiori in paesaggi paradisiaci. Invece i «martiri » diEsclusi, atto II sono burini di periferia, ladri, drogati. Che però combattono, resistono e vincono. Ma in modo umano, vero. Paradossalmente più credibile, Dehnamaki li ha tolti dalle scolorite mura di Teheran e gli ha ridato vita. «In piccolo, io sono nel cinema quello che Ahmadinejad è nella politica — spiega il regista in un’intervista concessa alCorriere prima che le autorità togliessero il permesso di lavoro agli inviati stranieri —. I miei film non sono premiati nei festival. Dicono che non rientrano nei loro criteri estetici. I soloni di destra e sinistra sono contro di me. Furibondi perché i miei documentari e film sono i più visti della storia dell’Iran. All’estero non mando neppure un fotogramma: i premi agli iraniani sono sempre politici ». Sembra di sentir parlare il presidente. Stesso linguaggio ruvido ma diretto, senza sudditanze verso l’Europa. La sua è una cultura iranocentrica estranea alla classe dirigente globalizzata che è sempre stata il fiore all’occhiello dell’Iran. Ahmadinejad e Denhamaki non hanno studiato all’estero, la loro università è stata la guerra contro l’Iraq finanziato dagli Usa, l’uno nei pasdaran, l’altro nei basiji. «L’Iran — spiega il regista — è in una fase di cambiamento. Mantiene l’entusiasmo rivoluzionario, ma si muove verso il progresso. Stiamo crescendo in tecnologia, scienza, cultura e politica. Il nostro modello di governo è inedito. Del tutto differente da ogni altro prima. Per questo la nostra democrazia non è la vostra di occidentali e il nostro Islam non è saudita. Non saremo mai simili a voi o ai talebani ». Denhamaki non è andato in piazza in questi giorni, nè a manifestare nè a filmare la Storia che si sta sviluppando perché, secondo lui, non ci sarà nessuna rivoluzione. «La mafia economica che tenta di scalzare Ahmadinejad è disposta a tutto per riconquistare il potere, ma non a perdere se stessa». Non c’è dubbio: per l’ex basiji, Ahmadinejad è il presidente legittimo. «Gli altri politici non considerano i poveri. Hanno i paraocchi, vedono solo le università, gli abitanti dei quartieri bene che profumano di deodorante, i caroselli di auto lussuose, gente che ha come problema nella vita divertirsi, non mangiare. I poveri si possono riconoscere in Ahmadinejad perché nemmeno loro sopportano più questa classe di privilegiati, corrotti. Ahmadinejad ha gridato loro fede di giustizia sociale e semplicità, in linea con la Rivoluzione Islamica. Ogni giorno penso che possa succedergli qualcosa. Alla sua prima elezione, quattro anni fa, avevo fatto un poster: 'Autostrada Martire Ahmadinejad, in costruzione'. Quest’anno, chissà? Potrei andare a fotografare quel cartello dal vero».
La STAMPA - Claudio Gallo : " Il governo dica qualcosa o sarà querra civile "
Davoud Hermidas Bavand
Davoud Hermidas Bavand ci riceve nella sua casa di Teheran Nord, ai piedi dei monti Alborz, non lontano dall'ambasciata italiana. Professore emerito di Scienze politiche e Diritto internazionale, ex diplomatico al tempo dello Shah, è uno dei più fini analisti iraniani. Professore, come valuta la decisione del Consiglio dei guardiani di autorizzare un riconteggio parziale dei voti? «Non credo che sia una soluzione soddisfacente. L'unica via efficace sarebbe stata l'abolizione delle elezioni e un nuovo voto. Comunque si potrebbe arrivare allo stesso risultato anche attraverso questa strada stretta. Dipende dalla percezione che il Consiglio, solitamente molto conservatore, ha della gravità della crisi in corso». Che cosa rischia la società iraniana? «Senza una risposta chiara, la protesta potrebbe ingrossarsi come una valanga. Senza un atto di riparazione, il Paese si avvierà verso un conflitto interno che potrebbe costare molti morti». Secondo lei, il risultato del voto è stato falsificato? «Sembra evidente che i risultati sono stati manipolati in favore di un certo candidato, devo dire in modo abbastanza grossolano». Lei è pessimista? «No, sono ottimista. Se chi decide agirà razionalmente potrà disinnescare un imprevedibile conflitto». È vero che sul voto ci sono divisioni anche all’interno degli apparati dello Stato? «Apparentemente esiste una diversità di valutazione tra la vecchia guardia, la cui lunga partecipazione al potere si è trasformata in vantaggi economici, e le giovani leve. Se la società si spacca, anche i Pasdaran potrebbero spaccarsi. Ma fino al momento drammatico è difficile capire che cosa accade sotto la superficie». Che forza hanno i conservatori? «Si è visto al tempo di Khatami: possono bloccare la società. Contano sul Consiglio dei guardiani, sul potere giudiziario, sulla radio e sulla televisione. Soprattutto, in questi anni, la Guida suprema Ali Khamenei ha dimostrato di essere più vicina a loro che non ai riformisti».
La REPUBBLICA - Francesca Caferri : " Ma dopo la rivolta il dialogo con gli Usa è molto più difficile "
Juan Cole
IL suo ultimo libro, "Engaging the muslim world" è uno dei grandi successi letti e citati dai membri dell´amministrazione Obama. Juan Cole, docente di storia mediorientale presso l´Università del Michigan e presidente del Global American Institute, commentatore della Cnn, di Newsweek e dei principali quotidiani Usa, è una delle voci più ascoltate fra gli esperti di politica estera americana. Professor Cole, il risultato delle elezioni iraniane è stato molto deludente per chi sperava in un´apertura nel paese. Le manifestazioni e i morti degli ultimi giorni non lasciano sperare in nulla di buono per i prossimi mesi: crede che questo porterà il presidente Obama a un passo indietro nell´offerta di dialogo con Teheran? «No, non lo penso. Ovviamente sarà molto più difficile discutere con Ahmadinejad di quanto non lo sarebbe stato con Moussavi. Ma dobbiamo ricordare che il potere vero in Iran è nelle mani del leader supremo e che questo non è cambiato: prima e dopo le elezioni. Non ci sarà un approccio muscolare a queste questioni: Obama ha capito di non poter imporre la democrazia nel mondo arabo-musulmano con la forza. Sa che, come diceva Kissinger, la diplomazia si fa con i pezzi che sono sulla scacchiera: Ahmadinejad è uno di questi pezzi e difficilmente questo potrà cambiare». Che speranze ha un dialogo impostato su queste basi? «Non molte suppongo. Ma almeno non assisteremo a un tentativo di imposizione delle posizioni americane con la forza. Ci saranno forse incontri fra ufficiali americani e iraniani, ma non vedo un possibile cambio rapido all´orizzonte». È per lasciare aperto uno spiraglio che l´amministrazione Obama non ha condannato in modo duro quello che sta accadendo a Teheran? «Dobbiamo ricordare che gli Stati Uniti hanno una storia, quando si parla di Iran. Una storia lunga e sanguinosa, con la loro difesa del regime dello Scià. Il rischio in questo momento è che i conservatori iraniani dipingano il movimento riformista come un prodotto dei servizi segreti americani. Questo indebolirebbe i riformisti stessi. Credo che una presa di posizione forte da parte degli Stati Uniti ora potrebbe solo avere conseguenze negative e favorire Ahmadinejad". Se Ahmadinejad uscirà vincitore da questo braccio di ferro con la piazza e con i riformisti, come pare, crede che potrebbe ammorbidirsi? «No, non credo che Ahmadinejad cambierà. In nessun modo. Ci sono due questioni fondamentali sul tavolo, fra lui e gli americani. L´arricchimento di uranio per il programma nucleare e il sostegno di Teheran a Hezbollah e Hamas. Per Ahmadinejad sono due punti non negoziabili. E devo dire che anche Moussavi avrebbe avuto difficoltà a cambiare rapidamente prospettiva su questi due temi».
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