Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 17/06/2009, a pag. 17, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo " Gaza, Carter sfugge a un attentato ".
Carter, ex presidente americano, è notoriamente filopalestinese. Per questo è difficile credere che l'attentato fosse rivolto a lui. Impossibile prendere sul serio la tesi di Hamas secondo la quale i tre ordigni non sarebbero stati altro che bombole di gas scivolate da un camion transitato troppo velocemente. Ecco l'articolo:
Jimmy Carter incontra il capataz di Hamas Ismail Haniyeh
GAZA — Presidente, ha avuto paura? «Ho paura quando vedo tanti civili trattati come animali». Tutt’in giro ci sono le tute nere di Hamas, a fare la sicurezza. E una discreta squadra d’armadi americani che si chiamano con gli auricolari. Il trentanovesimo presidente degli Stati Uniti arriva a Gaza in un gran frastuono di sirene. Il corteo dei cinque suv delle Nazioni Unite taglia il traffico di El Rasheed Street. Va al palazzo del governo. Lo trattano da Obama, ma è solo Jimmy Carter. Venuto a incontrare Ismail Haniyeh, il capo di Hamas che per l’occasione sbuca dai sotterranei. Venuto a capire se si può trattare, e come, con un’organizzazione che gli Stati Uniti tengono sulla lista nera degl’intrattabili. Glielo fanno capire subito: il cerimoniale d’accoglienza non è quello che il vecchio Carter s’aspettava e, appena prima che la colonna diplomatica passi per il valico di Erez, gl’israeliani la stoppano. «Presidente — lo informa un ufficiale — dentro Gaza hanno preparato un attentato contro di lei. Le sconsigliamo di proseguire».
Hanno trovato tre bombe. Stavano proprio sulla strada che da Erez porta a Gaza City. Da Hamas negano — «è solo un equivoco, un uomo che trasportava bombole di gas e s'è diretto troppo in fretta su quella strada» — ma diversi testimoni raccontano d’aver visto (e sentito) l’esplosivo fatto brillare dagli artificieri. Lo staff di Carter conferma: «C’è stato un briefing su questo problema, ma s’è deciso di non cambiare programma ». In mano una lettera che l’esausto papà di Gilad Shalit gli ha consegnato domenica nei giardini dell’American Colony di Gerusalemme, l’ex presidente è andato per la sua via: ha dato la busta per il soldato rapito a un portavoce di Hamas e come ricevuta di ritorno s’è accontentato d’una promessa, «la daremo al destinatario ».
A preoccupare non è tanto chi volessero colpire — un simpatico ottantaquattrenne che non conta quasi niente — ma chi volesse colpire: gente vicina ad Al Qaeda, dice una fonte di Hamas, che per avere visibilità è pronta a sacrificare anche un politico che ha da sempre sulle corna la politica israeliana e pure qui, di fronte alle macerie dell’American School, non esita a sentirsi «responsabile per il mio Paese che fabbrica gli F-16 con cui vi bombardano ». Le azioni e gli attentati delle ultime settimane — perfino una squadra di cavalli imbottita d’esplosivo e lanciata contro obbiettivi israeliani — dimostrano che non tutto, a Gaza, si muove sotto l’ombrello di Hamas, almeno in apparenza. I soldati di Allah, l’organizzazione Junur Hansad Allah, circa 500 uomini che s’addestrano indisturbati sulle spiagge della Striscia e rispondono agli ordini d’un siriano, Abu Abdullah, hanno tutte le caratteristiche delle cellule fondamentaliste: barbe lunghe, difficilisimi da avvicinare, il proiettile in canna. Un insieme di pachistani, yemeniti, egiziani che Hamas ufficialmente detesta, perché non rispondono a una direzione strategica centrale, ma di fatto tollera. Perché servono a tenere alta la tensione.
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