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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio - L'Opinione - Libero Rassegna Stampa
16.06.2009 Iran: elezioni truccate. Gli Usa non interferiranno. L'Europa che farà?
Analisi di Bernard-Henri -Lévy, Maurizio Molinari, Roberto Gressi, Carlo Panella, Christian Rocca, Tatiana Boutourline, Dimitri Buffa, Mario Capanna

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio - L'Opinione - Libero
Autore: Bernard-Henri LEvy - Roberto Gressi - Maurizio Molinari - Carlo Panella - Christian Rocca - Tatiana Boutourline - Dimitri Buffa - Mario Capanna
Titolo: «L’Occidente aiuti gli iraniani come fece con i dissidenti dell’Urss - Quelle piazze vuote in Italia: il fascino sottile di Ahmadinejad - Obama: siamo turbati ma non interferiremo - I falchi di Teheran - I falchi di Washington - Tra Twitter, il bazaar e l»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 16/06/2009, a pag. 12, l'articolo di Bernard-Henri Lévy dal titolo " L’Occidente aiuti gli iraniani come fece con i dissidenti dell’Urss " e quello di Roberto Gressi dal titolo " Quelle piazze vuote in Italia: il fascino sottile di Ahmadinejad ". Dalla STAMPA, a pag. 7, l'analisi di Maurizio Molinari dal titolo " Obama: siamo turbati ma non interferiremo  ". Dal FOGLIO, in prima pagina, gli articoli di Carlo Panella, Christian Rocca e Tatiana Boutourline titolati " I falchi di Teheran  ", "  I falchi di Washington  " e " Tra Twitter, il bazaar e lo squalo ". Dall'OPINIONE l'articolo di Dimitri Buffa dal titolo " Iran, i brogli erano premeditati  ". Da LIBERO, a pag. 17, l'articolo di Mario Capanna dal titolo " L’Occidente eviti lo scontro con il regime " preceduto dal nostro commento. Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Bernard - Henri Lévy : " L’Occidente aiuti gli iraniani come fece con i dissidenti dell’Urss "

S iamo di fronte a brogli elettorali su scala massiccia, oppure no? A una nuova forma di colpo di Stato, oppure no? E come interpretare queste strane elezioni, i cui risultati sono stati annunciati dalle agenzie di stampa legate alle milizie filogovernative ancor prima che gli scrutini fossero terminati?
Nell’assenza di osservatori internazionali, dato che gli scrutatori inviati dagli oppositori di Ahmadinejad sono stati cacciati dai seggi a colpi di manganello, e visto il clima di terrore, è difficile pronunciarsi con certezza.
Ma tre punti, in ogni caso, restano fermi. 1) Le elezioni iraniane sono state democratiche solo in apparenza. Mir Hossein Mousavi, il principale antagonista di Ahmadinejad, è comunque anche lui figlio del sistema. A proposito del «diritto» dell’Iran al nucleare, le sue posizioni non differiscono poi tanto da quelle del presidente riconfermato.
Interrogato sulle dichiarazioni negazioniste dell’avversario, Mousavi non ha esitato ad affermare: «Ammettendo che ci sia stato lo sterminio degli ebrei in Germania (notate la sottigliezza di quel 'ammettendo che'...), cosa c’entra l’Olocausto ebraico con il popolo oppresso della Palestina, vittima dell’olocausto di Gaza?» (E già questo dice tutto...). In altre parole, un Gorbaciov iraniano non è ancora sceso in lizza. L’uomo capace di avviare un’autentica perestroika resta inconcepibile, e tuttora inesistente, in una repubblica islamista che oggi appare più blindata che mai. Gli osservatori che commentavano l’«alternativa» proposta da Mousavi per l’appunto, già primo ministro di Khomeini, oltre che direttore onnipotente dell’equivalente iraniano della Pravda, peccavano per ingenuità — un po’ come quelli che, ai tempi dell’Unione Sovietica trionfante, discettavano sulle impercettibili lotte tra fazioni in seno a un apparato abilissimo, anch’esso, nell’inscenare la sua stessa commedia. È un dato di fatto.
2) L’altro fatto incontestabile, peraltro, è il desiderio di cambiamento avvertito da una percentuale non indifferente, e forse addirittura maggioritaria, della società iraniana. Gli elettori esasperati che vediamo, da domenica, pronti a sfidare i paramilitari delle milizie... Le donne che a Teheran, ma anche a Isfahan, Zahedan e Shiraz, reclamano l’uguaglianza dei diritti... I giovani, collegati in permanenza a Internet, che hanno trasformato Facebook, Dailymotion e il sito «I love Iran» nel teatro di una guerriglia ludica ed efficace... I conducenti di taxi, araldi della libertà di espressione... Gli intellettuali... I disoccupati... I mercanti dei bazar, in rotta contro un governo che li manda in rovina... In breve, i ribelli contro gli imbroglioni. I blogger e i burloni contro i sepolcri imbiancati dell’apparato militare islamista. L’autore anonimo della barzelletta che è rimbalzata tramite Sms su milioni di cellulari e che, a quanto pare, fa sghignazzare i manifestanti: «Perché Ahmadinejad porta la riga in mezzo? Per separare i pidocchi maschi dalle
femmine»... Tutti costoro hanno votato per Mousavi. Ma senza farsi illusioni.
Come i polacchi di Solidarnosc, che negli ultimi anni del comunismo tenevano a freno consapevolmente la loro rivoluzione in attesa di vedere il regime autodistruggersi e sparire.
3) La terza certezza, infine, è che l’iniziativa, all’improvviso, torna più che mai nel campo delle democrazie. In realtà, esistono solo due alternative. O vincono i partigiani della realpolitik: ci incliniamo davanti al presunto verdetto delle urne e ci limitiamo a ratificare il peggio, come quel ministro degli Affari esteri francese che, nel 1981, al momento del colpo di Stato contro Solidarnosc pronunciò il suo famoso «Sia chiaro che noi non faremo nulla». Oppure, davanti a un Paese diplomaticamente isolato, davanti a un regime al quale tutti gli Stati confinanti augurano più o meno velatamente la caduta, davanti a un’economia sfibrata e incapace persino di raffinare il suo petrolio, decidiamo di ricorrere ai mezzi che abbiamo a disposizione e che sono molto più numerosi di quanto si pensi.
Eviteremo così la doppia catastrofe che sarebbe, da un lato, l’inasprimento della repressione, forse addirittura un bagno di sangue a Teheran, e dall’altro il rafforzamento inevitabile di uno Stato jihadista che rappresenterebbe un pericolo terribile per il mondo intero, perché dotato di un arsenale nucleare che non esiterebbe a mettere immediatamente al servizio dell’Imam nascosto e della sua apocalittica riapparizione (e di questo non ha mai fatto mistero).
Per riassumere; da queste tre certezze, esaminate congiuntamente, scaturisce un obbligo chiaro: aiutare e rafforzare, con tutti i nostri mezzi, la società civile iraniana in rivolta. L’abbiamo già fatto, in passato, con l’Unione sovietica. Abbiamo finalmente compreso, dopo decenni di vigliaccheria, che il totalitarismo, arrivato a un tale stadio di putrefazione, traeva la sua forza esclusivamente dalle nostre debolezze. Abbiamo saputo organizzare catene di solidarietà verso coloro che venivano definiti dissidenti e che alla fine trionfarono sul sistema. In Iran esiste l’equivalente di quei dissidenti che sono, come apprendiamo oggi, infinitamente più numerosi e potenti. A costoro deve andare oggi il nostro sostegno e il nostro incoraggiamento. La «mano tesa» di Obama? Speriamo che sia tesa anche in direzione di questa gioventù, che fa onore a un popolo che ha dato i natali ad Avicenna, Razi, al-Ghazali, Kasifi e tanti altri. È questa la nostra sfida.

CORRIERE della SERA - Roberto Gressi : " Quelle piazze vuote in Italia: il fascino sottile di Ahmadinejad "

Milizie con tute e caschi neri, che menano colpi di manganello cor­rendo su motociclette nere. Le bastonate sono per i giovani di Teheran, per le ragaz­ze con il chador, per i sostenitori di Mous­savi. Una violenza non nascosta ma rivendi­cata, anche con modi spettacolari. I basiji di Ahmadinejad affermano così la regolari­tà delle elezioni in Iran. Le proteste sono vietate, le tv oscurate, gli sms bloccati, i siti non si aprono, le email non funzionano, chi si ribella o è sospettato di farlo finisce in carcere. Eppure lì le piazze sono piene. Ma in Italia nessuno protesta. I 3714 chilo­metri di volo che separano Milano da Tehe­ran sembrano molti di più. Giusto qualche studente iraniano davanti all’ambasciata di Roma, ben meno dei pochissimi (duecen­to) che hanno manifestato a Londra o dei forse trecento di Bruxelles.
Ovviamente, quasi nulla di nuovo. Basta­va saper contare fino a venti per misurare lo sdegno dell’Italia contro la legge che ha reintrodotto il diritto allo stupro in fami­glia presso le comunità sciite dell’Afghani­stan. Pochi per Aung San Suu Kyi, prigio­niera nel suo Myanmar. L’elenco potrebbe essere lungo. E quindi verrebbe da dire
che vale per l’Iran ciò che si è visto altre volte: una comunità (quella italiana) or­mai disinteressata, un Pd troppo preso dai suoi problemi e comunque incapace di mobilitare «le masse», una sinistra radica­le che prima di scendere in piazza deve confrontarsi in un’assemblea dalla quale immancabilmente scaturiscono almeno due documenti presagi di scissione. Ma ci sono anche i movimenti, quelli che non se­guono i tempi e le alchimie dei partiti, quelli che in un attimo riempiono le stra­de, fermano le università. Certo, il «riflus­so » riguarda anche loro, ma in questo ca­so c’è qualcosa di più.
Mahmud Ahmadinejad, inutile negarlo, esercita su quest’area un fascino sottile e inconfessato. Quando nega l’Olocausto fa orrore, ma è pur sempre una sentinella contro l’imperialismo di Israele. Quando arricchisce l’uranio fa paura, ma tiene a ba­da gli Stati Uniti. Quando traffica armi fa bene, se sono per Hezbollah. Insomma, al­la fine, qualche manganellata agli studenti ci sta pure. Per il vecchio vizio di dare da mangiare al coccodrillo, nell’illusione che ci mangi per ultimi.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Obama: siamo turbati ma non interferiremo "

«Sono profondamente turbato dalle violenze in Iran». Il presidente americano, Barack Obama, parla per la prima volta delle elezioni a Teheran al termine dell’incontro nello Studio Ovale con il premier italiano, Silvio Berlusconi. L’intento è di esprimere «rispetto per la sovranità dell’Iran» al fine di «evitare che il ruolo degli Stati Uniti venga strumentalizzano». Da qui la frase: «Spetta agli iraniani eleggere i loro leader». A scriverla sono stati i suoi sherpa al fine di recapitare un duplice messaggio: da un lato Washington non si intromette ma dall’altro auspica che il volere degli elettori venga rispettato. Subito dopo Obama, tradendo forte tensione, si dice «molto preoccupato per le violenze che abbiamo visto in tv» ovvero tanto le aggressioni delle milizie islamiche in motocicletta contro i manifestanti quanto i colpi sparati che hanno ucciso un sostenitore di Mousavi. «Democrazia, libertà di parola e di espressione sono valori universali ai quali gli americani sono profondamente legati - sottolinea Obama - e dunque siamo inquieti, preoccupati quando vengono volati». Riguardo alla decisione dell’ayatollah Alì Khamenei di dare vita ad un’inchiesta sui presunti brogli, Obama parla di «irregolarità» sottolineando che «in assenza di osservatori internazionali l’America non può avere idea di cosa è avvenuto» ma auspica un chiarimento perché «è evidente che molti degli elettori si sentono traditi». Ben venga dunque «l’inchiesta che è stata decisa» ma Obama auspica che «non vi siano spargimenti di sangue» simili a quanto avvenuto ieri. L’apprensione del presidente per quanto sta avvenendo nulla toglie però alla determinazione di continuare un «dialogo duro e senza precondizioni» con la Repubblica Islamica perché «il nostro interesse è evitare che un Iran nucleare possa dar vita ad una corsa agli armamenti nella regione» come anche «scongiurare il rischio che Teheran esporti il terrorismo». Gli sforzi negoziali continueranno, a prescindere da chi sarà il presidente, ma Obama avverte: «Sarebbe sbagliato stare in silenzio di fronte a quanto abbiamo visto in tv, il mondo guarda ai giovani iraniani e trae inspirazione da cosa stanno facendo». Le ultime parole sono rivolte proprio ai «giovani di Teheran»: «Le vostre voci devono essere ascoltate e rispettate». Viene dunque confermata la doppia linea di condotta della Casa Bianca: attenzione alta per le proteste di massa contro i brogli che avrebbero favorito Ahmadinejad e determinazione a perseguire il dialogo anche perché se questo venisse interrotto si potrebbe dare modo al regime degli ayatollah di accusare l’America di intromissione negli affari interni iraniani. Dietro la scelta del presidente di intervenire di persona, secondo fonti diplomatiche a Washington, vi sarebbero alcune valutazioni sul voto che rafforzato il sospetto di brogli: Mousavi ha perso anche nella propria città e Ahmadinejad avrebbe preso ben 7 milioni in più rispetto a quattro anni fa, nonostante tutte le difficoltà attraversate dal Paese.
Obama ha commentato anche il recente discorso con cui il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha accettato la prospettiva della nascita di uno Stato palestinese condizionandola al fatto che sia disarmato: «E’ stato un fatto positivo, ora ci sono le condizioni per far ripartire il negoziato fra israeliani e palestinesi».

Il FOGLIO - Carlo Panella : " I falchi di Teheran "

 Carlo Panella

Roma. La più grande manifestazione dal 1979, forte di centinaia di migliaia di persone per le strade di Teheran, ha segnato ieri una svolta radicale sulla scena iraniana. La straordinaria mobilitazione popolare ha ridicolizzato la decisione del regime di proibire il corteo, durante il quale vi sono state varie sparatorie che avevano fatto nella prima serata un morto (durante l’assalto a una caserma dei bassiji). Il presidente francese, Nicolas Sarkozy, ha condannato con durezza le violenze contro i manifestanti. “Deve essere fatta piena luce sui risultati”. Per la prima volta da 30 anni il regime degli ayatollah si trova a fronteggiare non una radicale spaccatura del gruppo dirigente del regime (come è stato con la prima elezione di Ahamadinejad nel 2005), ma il trauma di una fronda di alcuni tra i suoi massimi dirigenti, sotto la leadership del trasformista ed ex oltranzista Rafsanjani, forte di una mobilitazione popolare imponente, anche se per ora limitata alla capitale. Non giungono infatti notizie di quella mobilitazione capillare estesa a tutte le città iraniane che aveva caratterizzato la sollevazione del 1979. Alla testa del corteo si sono sentiti ripetuti slogan “Morte al dittatore”, “Gli iraniani preferiscono la morte all’umiliazione”, mentre la coda del corteo (che occupava ancora la piazza Hossein mentre la testa era già arrivata a piazza Azadi, chilometri più a ovest) sfilava in un irreale silenzio. Mir Hussein Moussavi ha tenuto un comizio in cui ha chiesto non il solo riconteggio dei voti, ma anche immediate nuove elezioni presidenziali non truccate a cui si è di nuovo candidato. La prima reazione alla sfida della Guida della Rivoluzione – aperto sponsor di Ahmadinejad – è stata rigida e ambigua: l’ayatollah Khamenei ha infatti disposto un’indagine sui brogli da lui denunciati e ha intimato ai manifestanti di “rispettare la legalità islamica”; ma oltre a qualche aggiustamento parziale, sul terreno della verifica dei voti non sono prevedibili novità clamorose. Khamenei ha infatti affidato l’indagine è al Consiglio dei Guardiani, la cui metà dei membri è nominata da Khamenei stesso e l’altra rispetta gli equilibri tra le varie fazioni, quindi Ahmadinejad non ha da temere verdetti infausti. Questo perché, se è indubitabile e straordinaria la mobilitazione popolare di ieri, altrettanto certa è la consistenza, più che probabilmente maggioritaria, del grande blocco sociale che ha appoggiato il regime e ha dato il suo voto ad Ahmadinejad. Così come è certo che tutte le principali istituzioni rivoluzionarie capillarmente presenti nel paese – pasdaran, bassiji, moschee e tribunali islamici – si sono mobilitati e hanno fatto muro per definire quel 62 per cento di voti per Ahmadinejad, raccolto capillarmente sin nel più piccolo paese. Un 62 per cento che è frutto di brogli, che però non potrebbero essere stati sufficienti a modificare i rapporti di forza del consenso per i due blocchi, con un Ahmadinejad forse non in grado di riscuotere la maggioranza assoluta, ma capace di arrivare nelle urne a una maggioranza relativa reale, dal peso doppio di quella dei riformisti. Il nucleo politico – preoccupante – della situazione iraniana è dunque nella capacità di Ahmadinejad di trovare un consenso popolare maggioritario, al di là delle cifre, al suo programma basato su antisemitismo, bomba nucleare, revanscismo, repressione dei diritti umani, negazione dell’Olocausto e sulla prospettiva apocalittica della distruzione di Israele. Si deve dunque prendere atto che con spregiudicato uso di una consultazione elettorale, la dittatura degli ayatollah ha finora saputo comunque confermare la sua legittimità rivoluzionaria. La novità di ieri è che contro questa grande base popolare di appoggio del regime si è sollevata una straordinaria forza di mobilitazione di chi chiede il cambiamento e la fine del regime. Un muro contro muro che non attraversa più solo il gruppo dirigente, ma che coinvolge due blocchi sociali l’un contro l’altro schierato. Un quadro che eccita sicuramente la tentazione di una risposta dura di un apparato militare rivoluzionario forte di milioni di guardie rivoluzionarie – tra pasdaran e bassiji – fortemente motivate ideologicamente. L’opposizione che ieri ha mobilitato per la prima volta una sua straordinaria massa d’urto – sia pure in settori urbani minoritari – è però impacciata da un suo vizio capitale: si schiera dietro una leadership poco credibile. Il programma di riforme di un islam pluralista che oggi Moussavi e Rafsanjani dicono di difendere era esattamente quello di Banisadr, dell’ayatollah Shariat Madari, di Ghotbzadeh Sadegh, di Yazdi – che diressero la rivoluzione nel paese mentre Khomeini era in esilio e formarono il primo governo rivoluzionario – ma che furono fatti fuori anche fisicamente da Khomeini nel 1981, che nominò proprio Moussavi premier e Rafsanjani presidente del Parlamento, per dirigere le purghe e far funzionare le forche. Il blocco sociale dell’opposizione, dunque, non è riuscito sinora (anche a causa di una repressione feroce) a esprimere una leadership autonoma, una o più forti personalità trainanti, ed è sempre costretto a schierarsi dietro a leader poco attendibili, decisi dallo stesso regime (attraverso il Consiglio dei Guardiani, che decima le candidature). Infatti in questi giorni è emerso un altro elemento di grande novità. A pochi giorni dal voto, Ahmadinejad ha detto forte in televisione, quel che tutti sanno: “Rafsanjani e suo figlio sono dei ladri”. Accusa vera, Rafsanjani ha accumulato un enorme impero economico e a livello popolare è il volto stesso della corruzione del regime. Lo sponsor dei “riformisti”, dunque, si è visto per la prima volta messo apertamente sul banco degli imputati e Ali Khamenei, da lui sollecitato, si è rifiutato di sconfessare Ahmadinejad. Evidenti segnali di una esplicita volontà da parte del blocco oltranzista del regime di occupare tutte le posizioni di potere e di emarginare – e forse “purgare” – il blocco antagonista che fa capo a Rafsanjani. A meno che l’incendio che per ora è circoscritto al centro di Teheran non si moltiplichi in altri focolai e che la repressione dura non prepari un nuovo bagno di sangue, come nel 1999, contro la rivolta degli studenti (complice Khatami).

Il FOGLIO - Christian Rocca : "  I falchi di Washington "

 Christian Rocca

New York. Il risultato elettorale iraniano ha colto di sorpresa la Casa Bianca, convinta che l’offerta di dialogo lanciata dal presidente Barack Obama – prima col discorso di insediamento della presidenza, poi con il messaggio via YouTube e, infine, con le parole pronunciate al Cairo – potesse sortire effetti positivi sul regime degli ayatollah. E’ successo l’opposto, ammesso che fosse realistico riporre speranze e basare una strategia politica su un processo elettorale non democratico e gestito dal clero teocratico. Obama sembra intenzionato a non cambiare linea e ieri si è occupato principalmente di sanità pubblica, oltre a ricevere il premier italiano Silvio Berlusconi. Anzi, secondo un’indiscrezione colta dal quotidiano Haaretz, subito confermata a Washington dai blogger più influenti, starebbe pensando di licenziare il “consigliere speciale” di Hillary Clinton Dennis Ross, considerato troppo falco e probabilmente non gradito agli iraniani perché ebreo. Le voci parlano di un trasferimento di Ross, un veterano delle trattative di pace mediorientali, al Consiglio di sicurezza nazionale, ma anche di una certa insoddisfazione dei suoi boss per il contenuto di un suo libro uscito la settimana scorsa dal titolo “Myths, Illusions & Peace”, che sostiene di puntare sulla diplomazia per essere più credibili – nel probabile caso di fallimento – nell’invocare misure decisamente più toste. Le timide reazioni di Washington alle proteste popolari e alle accuse di brogli, affidate a due innocui comunicati stampa e a una battuta del vicepresidente Joe Biden in tv, sono un segnale che la Casa Bianca è già sintonizzata sulla necessità di dover avere a che fare con Ahmadinejad e gli ayatollah, più che sulle recriminazioni degli elettori iraniani che in queste ore gridano in piazza “morte al dittatore” e chiedono nuove elezioni. La rivolta di Teheran e i primi segnali di cedimento del grande ayatollah Ali Khamenei sono seguiti con attenzione a Washinton e gli sviluppi, ovviamente, potrebbero far cambiare atteggiamento. I critici della linea di Obama, come Bill Kristol, direttore del settimanale Weekly Standard, scrivono che il presidente dovrebbe proprio in questo momento usare le armi del “soft power” e parlare direttamente al popolo iraniano di diritti, democrazia e libertà, invece che continuare a dare fiducia a un regime che non la merita e spara sui cittadini. Michael Ledeen, esperto di Iran e Freedom scholar alla Foundation for Defense of Democracies, sostiene da tempo la tesi che il popolo iraniano detesta i mullah e che sarebbe bastato aiutarlo per scatenarlo contro il regime. Al Foglio Ledeen dice che la rivolta popolare di queste ore nasce dal fatto che gli iraniani prima si illudevano che Bush li avrebbe aiutati, mentre ora, con Obama al potere, hanno capito che da lui non riceveranno aiuto e che dovranno fare da soli. La strategia della Casa Bianca è di arrivare a un “grande accordo” con Teheran che preveda la rinuncia ai programmi militari, in cambio del pieno diritto di dotarsi di tecnologia nucleare a scopo civile. Il piano B non è l’intervento militare per sradicare le centrali, ma l’idea che Israele possa convivere con gli ayatollah dotati di bomba e che la deterrenza – “se la usate, risponderemo” – possa funzionare. Qualche giorno fa è stata Hillary Clinton a dire a un giornale israeliano che “non c’è dubbio che se Israele subisse un attacco nucleare dall’Iran, ci sarebbe una rappresaglia”. Il direttore di New Republic, Martin Peretz, obamiano della prima ora, ha giudicato questa frase, ma anche il discorso del Cairo, come la conferma che l’Amministrazione ha accettato l’Iran nucleare Non c’è soltanto Dennis Ross, tra i non rassegnati all’Iran nucleare. Un altro è Richard Holbrooke. Formalmente, l’ex ambasciatore Onu di Bill Clinton non dice nulla, ma poco prima di entrare al governo ha costituito un’associazione bipartisan, “United Against Nuclear Iran”, che sta facendo enormi pressioni sull’opinione pubblica, anche con incessanti spot televisivi, per convincere Obama a non illudersi sulla trattativa con l’Iran: “Il presidente ha offerto al popolo iraniano la mano della diplomazia, ma Teheran ha rifiutato di stringerla – ha detto il capo del gruppo, Mark Wallace – L’America e la comunità internazionale devono aumentare l’isolamento economico dell’Iran”. Ma è Dennis Ross, incaricato di coordinare per conto di Hillary Clinton la politica sull’Iran, ad avere delineato una strategia che fino alle voci sul suo licenziamento, né confermate né smentite ieri al dipartimento di stato, sembrava dare una spiegazione alle mosse obamiane. “Myths, Illusions & Peace”, scritto assieme a David Makovsky, smonta tutti i miti di destra e di sinistra, neoconservatori e realisti, sul medio oriente, a cominciare da quello che lega tutti i problemi della regione alla soluzione del conflitto israelo- palestinese fino all’affrettata conclusione che la promozione della democrazia sia uno strumento da mettere da parte soltanto perché faceva parte della dottrina Bush. Ross consiglia, inoltre, di non dialogare né con Hamas né con Hezbollah, entità terroristiche che non rappresentano uno stato. Ma con l’Iran, spiega Ross, bisogna dialogare “senza illusioni”, anche se “non è una panacea per la pace o per prevenire che l’Iran si doti del nucleare”. Ross sostiene che parlare con i nemici “crea possibilità di successo e produce un contesto per politiche molto più dure nel caso dovesse fallire”. Tendere la mano, hanno scritto Ross e Makovsky, “non vuol dire escludere l’uso della forza, ma metterci in una posizione migliore per usarla se avremo mostrato di aver esaurito prima tutte le opzioni alternative”. La frase chiave del libro è questa: “Le politiche più dure – sia militari sia di contenimento intelligente – saranno più facili da vendere internazionalmente e internamente se avremo provato di risolvere diplomaticamente le nostre differenze con l’Iran in un modo serio e credibile”.

Il FOGLIO - Tatiana Boutourline : "  Tra Twitter, il bazaar e lo squalo"

 Khamenei è nel manifesto

La sfida ad Ahmadinejad andava in scena a piazza Azadi mentre alla protesta pubblica convocata dal passaparola via web si univa una battaglia feroce ma più privata. La reazione al responso delle urne è la sintesi potente di una frustrazione che cova da decenni sotto le ceneri della Rivoluzione, ma anche una resa dei conti tra due volti del regime: Hashemi Rafsanjani e Ali Khamenei. Se dietro alla “dolce vittoria” di Ahmadinejad c’è la mano di Khamenei, dietro all’insubordinazione di Mir Hossein Moussavi c’è la regia di Rafsanjani. Sono i suoi emissari che agitano gli umori del bazaar, diffondono la protesta del popolo verde aiutandolo ad aggirare la censura, ed è sempre Rafsanjani a spendersi tra febbrili consulti con gli ayatollah di Qom e i consiglieri all’interno del Consiglio degli esperti. Se l’obiettivo visibile è quello di tornare alle urne e liberarsi di Ahmadinejad, sottotraccia c’è un disegno ben più ambizioso: eliminare l’ayatollah Khamenei. Nel 2005, alla vigilia delle elezioni, il figlio di Hashemi Rafsanjani “confidò” a un reporter americano: “Se vince mio padre cambierà la Costituzione e limiterà i poteri di Khamenei, trasformando il ruolo della Guida Suprema in una carica di rappresentanza simile a quella della regina d’Inghilterra”. Quattro anni fa il “kuseh”, lo squalo, come viene soprannominato Rafsanjani, era annoverato come il volto pragmatico del regime, colui che avrebbe importato in Iran il modello cinese e riallacciato i fili della comunicazione con gli Stati Uniti. Poi è arrivato il colpo di reni dell’ayatollah Khamenei: Rafsanjani ha subito la sconfitta più pesante della sua carriera e i pasdaran hanno scalato le vette del potere insieme con Ahmadinejad. Ma Rafsanjani non si è arreso. Consapevole di esercitare un ascendente politico-economico all’interno dell’establishment, ha consolidato il suo potere nelle istituzioni presiedendo il Consiglio per il discernimento dell’interesse del regime e scalando l’Assemblea degli esperti. Forte di queste cariche, Rafsanjani sta provando a riequilibrare i rapporti di forza tra i turbanti e i fucili. Per trasformare il sistema, ha provato a trasformare la sua immagine. Si è calato nei panni del teologo riformatore. E a dispetto dei critici che faticano a immaginare il re degli affari (e del malaffare) della Repubblica islamica come un novello Lutero, i consiglieri raccontano che la sua è una battaglia seria per “portare lo sciismo nell’era moderna”.La prima occasione per esibirsi in questa veste si è presentata nel giugno 2008 durante l’incontro dell’Associazione dei professori dei seminari di Qom. Nel corso della riunione lo squalo ha ipotizzato la creazione di un nuovo capitolo di dottrina religiosa denominata “Teologia di stato” o “Teologia politica”. Un gruppo di religiosi di alto rango – ha detto – potrebbe stabilire le linee guida entro le quali sviluppare le politiche dello stato. Rafsanjani ha anche invocato la revisione dei curricula nei seminari e sollecitato maggiore controllo nella formulazione degli editti religiosi “che – ha spiegato – dovrebbero essere ad appannaggio di specialisti”. Alla fine di dicembre durante una conferenza sullo sciismo all’Università di Teheran è arrivata un’altra proposta: la creazione di un “Consiglio della Fatwa” composto da grandi ayatollah. Rafsanjani ha illustrato le virtù dello sciismo sottolineandone la natura innovativa, la capacità di evolvere attraverso l’“ijtihad”, l’interpretazione. “Esiste un consenso generalizzato tra i ‘religiosi modernizzatori’ – ha commentato un suo collaboratore – che ci troviamo a un punto di svolta ed è necessario essere teologicamente al passo con i tempi, altrimenti corriamo il rischio di perdere fedeli, a vantaggio della secolarizzazione che attraversa la società”. Secondo il settimanale Shahrvand Emruz, le posizioni di Rafsanjani riguardo all’“interpretazione innovativa” e al “Consiglio della fatwa” sono motivate dall’esigenza di “razionalizzare il rapporto tra il seminario e la società” e dal bisogno di “aggiornare alcuni aspetti antiquati che rimontano al medio evo, come per esempio il rifiuto di alcuni ayatollah di usare il telescopio e la confusione derivante per stabilire l’inizio dell’eid ul fitr”. Ma sottotraccia è evidente che una riforma dottrinale indebolirebbe i falchi e l’ayatollah Khamenei. Lo stesso Shahrvand Emruz ha pubblicato una serie di dichiarazioni in cui Rafsanjani critica il Consiglio dei guardiani e sostiene che “i sistemi democratici sono generalmente preferibili agli stati islamici dittatoriali”. Lo squalo torna a flirtare con l’occidente dando l’impressione che un’evoluzione del regime khomeinista sia possibile, prefigura un Iran ancora clericale ma addomesticato nei suoi eccessi e dunque più presentabile agli occhi degli investitori internazionali. Ma il suo è anche un tentativo di riaffermare gli antichi rapporti di forza tra clero e pasdaran. L’ansia di rinnovamento teologico dell’inquieta nomenklatura khomeinista è un effetto collaterale dell’alleanza tra l’ayatollah Khamenei e Ahmadinejad. “I tradizionalisti non staranno ad aspettare di essere fatti fuori”, ha chiarito il cognato di Rafsanjani, Hussein Marashi, intervistato dal quotidiano Kargozaran. Il “lato teologico” di Rafsanjani non è passato inosservato. Gholam Reza Elham, portavoce di Ahmadinejad, ha qualificato le proposte come “un tentativo per indebolire la Guida Suprema”. Il giornale dei falchi Parto è stato altrettanto negativo, ma un rappresentante dell’autorevole Istituto di ricerca imam Khomeini ha definito “sagge” le sue idee in un’intervista al quotidiano Etemaad. Nessun elogio è però stato più gradito di quello del Grande ayatollah Ali Sistani. Secondo Ayandenews, nel corso di un incontro con Rafsanjani Sistani ha manifestato apprezzamento per gli scritti del “kuseh” e auspicato che la sua visione non venga emarginata nell’Iran di oggi, un commento che ai più è apparso come una critica velata all’Amministrazione Ahmadinejad. L’avallo del primus inter pares della comunità sciita non soltanto nobilita le posizioni di Rafsanjani, ma rafforza il suo status agli occhi dell’establishment clericale. Forte di quella che i suoi estimatori presentano, fin troppo ambiziosamente, come un’investitura il Richelieu della nomenklatura iraniana è tornato a lanciare sassi nello stagno come la prospettiva di sostituire la Guida Suprema con un consiglio costituito da 3-5 leader religiosi. L’ipotesi tutt’altro che inedita – la possibilità fu avanzata dopo la morte di Khomeini e lo stesso Khamenei per un momento la caldeggiò – comporterebbe una riforma costituzionale (la legge infatti prevede che sia un individuo a ricoprire l’incarico). Ma non sarà certo la Costituzione a fermare Rafsanjani, del resto è stato proprio un aggiustamento costituzionale a consentire a Khamenei di diventare il leader supremo della Repubblica islamica anche senza il titolo di ayatollah. Per i protagonisti della scena politica iraniana il fantapolitico valzer delle possibilità intorno alla successione a Khamenei ruota intorno a sei nomi. I riformisti caldeggiano un triumvirato formato da Rafsanjani, Mohammed Khatami e Mehdi Karroubi, i falchi puntano sugli ayatollah Mesbah Yazdi, Mahmoud Hashemi Shahroudi e Ahmad Jannati.

L'OPINIONE - Dimitri Buffa : " Iran, i brogli erano premeditati "

 Dimitri Buffa

I brogli in Iran erano premeditati. Addirittura da settimane se non da mesi. Il giornalista Hossein Bastani, che cura il websit Rooz, che sponsorizzava sia la candidatura di Mousavi sia quella di Karroubi, aveva scritto da tempo, e poi resa pubblica su internet, una lettera al segretario del consiglio dei guardiani della rivoluzione, l’ayatollah Ahmad Jannati, facendogli presente una serie di irregolarità quasi grottesche. Ad esempio che erano state stampate 2 milioni e seicentomila schede in più di quelle necessaie a coprire gli aventi diritto al voto. Inoltre erano state ovunque distribuite schede pari al doppio di quelle necessarie a votare nei principali centri iraniani. Poi si vociferava di carte di identità sequestrate ai soldati e radunate in luoghi segreti. Perchè tutto ciò se non per usare in maniera indebita schede e documenti? Inoltre i due candidati sconfitti avevano anche lamentato un incontro segreto al ministero degli interni iraniano in vista delle elezioni cui avrebbe preso parte anche un ministro delegato da Ahmadinejad. Infine era già stato deprecato il fatto che un terzo delle urne non sarebbe stato supervisionato dalla polizia come stabilito dalla legge elettorale ma dall ‘Irgc, cioè l’esercito dei guardiani della rivoluzione. Poi c’era addirittura un report dei servizi iraniani che metteva in guardia, sulla base delle confidenze di alcuni alti ufficiali del ministero dell’Interno, addirittura messe nero su bianco, da possibili manipolazioni nel voto. Fra l’altro la cosa era il segreto di Pulcinella dato che addirittura l’ayatollah più vicino a Ahmedinejad, Mesbah eh Yazdi, aveva persino pronunciato una fatwa in cui si invitavano gli scrutatori a truccare le schede ed ad attribuirle ad Ahmadinejad. Un clima da farsa quindi più che da elezioni regolari. E spiace che Francia e Gran Bretagna si siano affrettate a riconoscere la legittimità del voto mentre oltretutto era in atto una sanguinosa repressione. A tutto ciò si aggiunga una lettera scritta dal candidato presidenziale Mehdi Karroubi indirizzata tanto al ministro dell’interno Mohseni Ejeii quanto al commissario capo di polizia Ismail Ahmadi Moghaddam quanto al capo del Basij Hossein Taeb nella quale era contenuta una denuncia per possibili colpi di mano e manipolazioni da parte del corpo Basij. Se qualcuno ricorda i moti degli studenti di Teheran del 1999 saprà bene chi sono i famigerati Basij, soprannominati “gli occhi e le orecchi” della rivoluzione khomeinista. All'Università di Teheran i Basij hanno una fama sinistra: sono tra i miliziani usati per attaccare il movimento degli studenti che nel '99 sostenevano le riforme dell'allora presidente Khatami e perciò picchiati e arrestati. In genere poi, in ogni occasione di assemblee o proteste spesso finite in tafferugli (anche se le “squadracce” non sono della cellula universitaria ma vengono dai sobborghi), si sono resi responsabili di pestaggi o omicidi. Del resto sono state proprio le squadre dei Basij ad avere attaccato a manganellate e bastonate anche i lavoratori che manifestavano il primo maggio di qualche anno fa a Teheran. Le cose nella democrazia iraniana, come la definisce Sergio Romano, funzionano così. Bisognerà farsene una ragione piuttosto che cercare impossibili dialoghi.

LIBERO - Mario Capanna : " L’Occidente eviti lo scontro con il regime "

 Mario Capanna quando nel '68 faceva il picchiatore alla Statale di Milano

Capanna scrive : " La riconferma del presidente Ahmadinejad, dopo una elezione contrastata e le violente tensioni che ne sono seguite...". Non è stata un'elezione "contrastata", ma "truccata".
La strategia del "nuovo inizio" di Obama tanto decantata da Capanna ha portato ad un unico risultato (negativo) : il regime teocratico antisemita iraniano è ad un passo dalla bomba atomica.
Capanna scrive che : "
Si è aperta, probabilmente, una fase di transizione, sebbene incerta e travagliata. Sarebbe davvero miope far finta di niente, andando avanti con l’intransigenza alla Netanyahu.Il premier israeliano non intende deflettere dalla linea dello scontro frontale, fino alla eventualità di arrivare a bombardare i siti elettronucleari iraniani. Si tratterebbe di una mossa catastrofica". La linea "intransigente" di Netanyahu è tale perchè la posta in gioco è alta: l'esistenza di Israele. Anche per l'occidente la posta è alta ma, purtroppo, Obama non vuole prenderne atto. L'Iran degli ayatollah non ama l'occidente e Israele. Il programma nucleare iraniano non è pacifico, ma bellico e volto a distruggere Israele prima, l'occidente poi.
Mario Capanna, che collabora con Libero, ci ricorda molto Tariq Ramadan, che collabora col Riformista. Che ne pensano i lettori del quotidiano diretto da Vittorio Feltri?
Ecco l'articolo:

La riconferma del presidente Ahmadinejad, dopo una elezione contrastata e le violente tensioni che ne sono seguite, può porre su un piano diverso il rapporto fra l’Occidente e Teheran. Diversi commentatori hanno tratto la conclusione che, in realtà, lo sconfitto non è Mussavi, ma Barack Obama. Sarebbe vero solo se il presidente Usa venisse meno alla sua strategia del “nuovo inizio” di confronto rispetto al mondo islamico e, in particolare, al Medioriente. In primo luogo è importante cogliere che le elezioni hanno evidenziato l’emergere di una dialettica profonda nella società iraniana, cosa non scontata fino a tempi recenti. Il dato più rilevante è che quella dialettica riguarda proprio l’atteggiamento che, secondo i suoi cittadini, l’Iran deve assumere sia nella regione sia rispetto a Europa e Stati Uniti. Si è aperta, probabilmente, una fase di transizione, sebbene incerta e travagliata. Sarebbe davvero miope far finta di niente, andando avanti con l’intransigenza alla Netanyahu.Il premier israeliano non intende deflettere dalla linea dello scontro frontale, fino alla eventualità di arrivare a bombardare i siti elettronucleari iraniani. Si tratterebbe di una mossa catastrofica: il risultato sarebbe quello di radicalizzare a dismisura estremismi e fondamentalismi in tutto il Medioriente. Precisamente l’opposto di quanto è necessario.Proprio perché si tratta di un passaggio cruciale, occorre molta lungimiranza da parte dell’Occidente. Una nuova guerra in quella parte del mondo, con ancora tragicamente irrisolta la questione palestinese, potrebbe determinare sviluppi incontrollabili. In una situazione così complessa e delicata non c’è alternativa alla diplomazia. È il momento della caparbietà del confronto. L’amministrazione americana sembra, finalmente, averlo capito. E l’Europa? E l’Italia?

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