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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Tg5-Il Domenicale-Corriere della Sera-Il Giornale Rassegna Stampa
15.06.2009 Dittatura scatenata a Teheran, ma non è una novità. Parlano i dissidenti fuori dall'Iran
Tg5 con il velo, Farian Sabahi conta balle, Paolo Guzzanti sull'America

Testata:Tg5-Il Domenicale-Corriere della Sera-Il Giornale
Autore: Gian Micalessin-Andrea Nicastro-Paolo Guzzanti
Titolo: «L'opposizione eviti lo scontro in piazza: finirebbe nel sangue-Golpe ? E'un serpente che cambia la pelle, Khamenei vuole liberarsi degli altri titani-Dialogo o no ? Ecco che cosa farà l'America»

Mentre le strade di Teheran sono nelle mani dei "pasdaran della rivoluzione", che aggrediscono i manifestanti a colpi di manganello, assestati mentre si muovono su potenti motociclette, Ahmadinejad festeggia la " vittoria ". Riprendiamo alcune affermazioni del " vincitore " dakl CORRIERE della SERA di oggi, 15/06/2009.

I Palestinesi e lo Stato ebraico

«Le lotte nei territori occupati fanno parte di una guerra fatale.

Dopo centinaia d’anni di guerra vi sarà una terra palestinese. Come disse l’Imam (Khomeini,
ndr) Israele dev’essere cancellato dalle carte geografiche» (ottobre 2005)

Non crediamo alla Shoah

Certi governi europei insistono che Hitler abbia ucciso milioni di ebrei innocenti... Non accettiamo questa affermazione, ma supponiamo sia vera... dovrebbero aiutare i sionisti a stabilire uno stato in Europa» (dicembre ’05)

I diritti negati degli omosessuali

«In Iran non abbiamo omosessuali come nel vostro Paese... In Iran non abbiamo questo fenomeno. Non so chi vi abbia detto il contrario»
(settembre 2007, alla Columbia University, New York)

Il nucleare dono di Dio

«Noi crediamo che l’energia atomica sia una benedizione di Dio. Si tratta di una opportunità data a tutte le nazioni.... E’ una forma di energia pulita. E’ una energia sana» (settembre 2005)

Prima di pubblicare interviste e commenti, vogliamo ancora una volta protestare con il malcostume delle nostre televisioni di velare le giornaliste che posano il piede infedele in terra musulmana. Ci faceva pena vedere Mimosa Martini, che sul Tg5 delle 20 di ieri sera, 14 giugno, raccontava ciò che vedeva con il capo velato. A chi obiettasse che non c'è altro modo per ottenere il via libera, allora rispondiamo che è urgente provvedere a stilare  un codice di comportamento nei confronti dei soprusi degli stati islamici. Mai più un servizio Tv da quelle parti, se non c'è libertà dal velo per le giornaliste. Vedremo se il silenzio dei media lo troveranno gradito oppure no. Il DOMENICALE del SOLE 24 ORE di ieri pubblicava un articolo sull'Iran della tristemente famosa Farian Sabah, nota per manipolare il pensiero di chi intervista. Il suo pezzo di ieri era dedicato alle elezioni in Iran, materia poco usuale in un supplemento culturale, argomento  però nascosto sotto la testatina di " Islam e Olocausto", una scusa per far passare un'immagine meno schifosa dell'Iran di Ahmadinejad. Questa è un'altra delle menzogne della Sabahi, far credere che l'Iran sia dalla parte degli ebrei, trasferendo ad oggi, quello che la Persia della dinastia Palavi aveva invece fatto per tutelare gli ebrei persiani dall persecuzione nazista. Ebrei che vivevano bene sotto lo scià , ma che poi subirono le repressioni che sappiamo dopo l'arrivo di Khomeini. L'impudenza della nostra arriva sino al punto da scrivere " ..  le affermazioni di Ahmadinejad hanno avuto una tale risonanza da far conoscere a tutti la tragedia del popolo ebraico..". Incredibile !  invitiamo i nostri lettori a scrivere a Riccardo Chiaberge, direttore del Domenicale domenica@ilsole24ore.com  per protestare contro quanto scrive Farian Sabahi, già licenziata dalla STAMPA per avere manipolato un'intervista a A.B.Yehoshua per mettere l'Iran in una luce positiva. In sostanza ciò che ha fatto ieri sul Domenicale.

Dal GIORNALE e dal CORRIERE della SERA, due interviste con due esuli iraniani, Marina Nemat, intervistata da Gian Micalessin. Akbar Ganji, da Andrea Nicastro.

Il Giornale- Gian Micalessin: " L'opposizione eviti lo scontro in piazza: finirebbe nel sangue "

 Marina Nemat

«Sono veramente scioccata: a furia di seguire il voto mi ero illusa che Moussavi ce la potesse fare... mi ero persino dimenticata che negli anni ’80 quand’ero in prigione condannata a morte e migliaia di detenuti finivano al patibolo lui era il primo ministro. Se è riuscito a convincermi ha veramente carisma. Per questo gli iraniani s’illudevano potesse garantire un pizzico di libertà e qualche cambiamento. Per questo sono arrabbiati. Per questo incominciano a pensare di farla finita con il regime». Marina Nemat parla dal Canada, ma ha nella voce la stessa rabbia dei dimostranti di Teheran. Le sue critiche al regime nel 1982, quando aveva appena 16 anni, le costarono una condanna a morte. Si salvò rinunciando al cristianesimo, abbracciando l’Islam, sposando un carceriere e riuscendo ad abbandonare il paese. Autrice di “Prigioniera a Teheran” bestseller tradotto in 13 lingue, Marina Nemat non s’illude però che l’attuale ondata di proteste possa cambiare la situazione nel paese.
«Non aspettatevi una rivoluzione dall’oggi al domani. Le elezioni sono state manipolate e il verdetto finale è un’autentica frode, ma Moussavi non ha con sé il 90 per cento degli iraniani. I due schieramenti sono alla pari, ma il regime controlla le forze di sicurezza mentre gli altri sono abbandonati a se stessi. La loro unica forza erano internet, i telefonini e gli sms. Senza più quelli sono allo sbando».
La protesta però continua
«Quelli al potere torturano e riempiono galere da 30 anni, in 24 ore hanno già arrestato un centinaio di persone e messo praticamente agli arresti domiciliari lo stesso Moussavi, la rivolta non può durare più di qualche giorno. Inoltre Moussavi resta un uomo della Rivoluzione islamica e non ha voglia di distruggere l’infrastruttura di potere da cui arriva. È pronto a concedere cambiamenti e libertà sociali, non certo a cambiare l’essenza del regime. Da domani probabilmente cercherà una ricomposizione con i suoi vecchi amici».
Quindi la sua elezione non avrebbe cambiato nulla
«Il vero e unico capo nella struttura di potere iraniana è la Suprema guida, dunque il vero boss è sempre l’ayatollah Alì Khamenei. Se anche avesse spianato la strada all’elezione di Moussavi avremmo semplicemente assistito alla riedizione delle presidenze di Khatami. La rabbia di queste ore può però diventare un buon punto di partenza».
In che senso?
«Il broglio è stato troppo brutale e plateale. L’unico dato vero è quello sull’affluenza superiore all’85%. Le gente è andata a votare in massa e ora si sente defraudata. Questa disillusione potrebbe dar vita a un movimento nuovo capace nei prossimi quattro anni di trasformarsi in un’alternativa reale. In fondo è meglio aspettare. Oggi uno scontro di piazza si concluderebbe in un bagno di sangue e i vincitori alla fine sarebbero sempre quelli che hanno le armi e il potere. Meglio dar tempo all’opposizione di organizzarsi, tanto il regime può solo continuare a perdere credibilità».

Corriere della Sera-Andrea Nicastro: " Golpe ? E'un serpente che cambia la pelle, Khamenei vuole liberarsi degli altri titani "

 Akbar Ganji

TEHERAN — Il mondo guarda a Teheran e legge negli scontri di piaz­za, nelle proteste e nella repressione di polizia, la lotta per la poltrona pre­sidenziale tra Ahmadinejad e lo sfi­dante Mousavi. Il più famoso dissi­dente iraniano, Akbar Ganji, no.
Ganji punta il dito più in alto, ol­tre i due contendenti, direttamente in cima alla scala del potere, al «sulta­no » come Ganji chiama la Guida Su­prema Alì Khamenei. Il presidente anti americano e l’ex premier mode­rato sono, nell’analisi di Ganji, poco più che pupazzi, marionette di un po­tere che non hanno e non hanno mai avuto. «La forza e l’intera macchina istituzionale ed economica fa capo a una sola persona, la Guida Suprema Alì Khamenei. Se, per assurdo un giorno il presidente decidesse di fare di testa sua, ogni altro organo statale che dovrebbe lavorare con lui si met­terebbe di traverso, paralizzandone ogni velleità».
Cinque anni di carcere duro ad Evin l’hanno convinto a scappare dal­­l’Iran. Ganji, giornalista e politologo, oggi è esule nel New Jersey. Al sicu­ro. Ed è da lì, per telefono, che ri­sponde alle domande del Corriere.
Cosa pensa stia accadendo al suo Paese?
«Chiamatelo colpo di Stato, chia­matela repressione, per me è solo un’operazione di svecchiamento. È come un serpente che cambia pelle. Si contorce, si strofina contro le roc­ce. A volte può anche graffiarsi e san­guinare. Ma è un problema di super­ficie ».
Qui a Teheran si parla di giganti del regime messi sotto sorveglian­za o addirittura arrestati. Davvero solo graffi?
«Esatto. Per il regime, naturalmen­te, non per i singoli protagonisti. Per­sonaggi come Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, ex presidente negli anni ’90, o Natek Nouri, ex presidente del Parlamento, o Mehdi Karrubi, uno dei candidati sconfitti, nei 30 anni di storia rivoluzionaria hanno accumu­lato poteri enormi. A differenza di lo­ro, Ahmadinejad è un nessuno. Il presidente e questa sua rielezione farsesca esistono solo in quanto stru­menti della lotta intrapresa dalla Gui­da Suprema con gli altri titani. Sem­bra che Alì Khamenei abbia deciso di toglierli di mezzo. Ci saranno contor­cimenti e graffi. Ma il corpo del ser­pente, il regime nel suo complesso, resterà assolutamente integro».
Se è giusta questa sua analisi, la reazione dei rivali della Guida Su­prema è potenzialmente devastan­te.
«Lotteranno, è vero. La lettera aperta di Rafsanjani ad Alì Khame­nei aveva proprio questo scopo: to­gliere di mezzo Ahmadinejad e salva­re se stesso. Il primo obbiettivo è sta­to clamorosamente mancato. Per il secondo vedremo. Ma sono scettico sulla possibilità che Rafsanjani e gli altri nel mirino questa volta soprav­vivano ».
E perché lui o lo stesso Mousavi inneggiato dai cortei, non dovreb­bero mettersi alla testa di una rivol­ta popolare?
«Sarebbe logico, ma non accadrà. È successo persino in un Paese come lo Zimbabwe. Lì i capi delle opposi­zioni davanti a palesi brogli elettora­li, hanno invitato la gente a scendere in strada e grazie alla presenza del popolo e alla pressione internaziona­le, il dittatore Robert Mugabe si è tro­vato costretto a condividere parte del potere. Ma in Iran questo non lo farà mai nessuno».
Perché?
«Per due ragioni. La prima psicolo­gica. Rafsanjani, Nou­ri, Karrubi, Mousavi si riconoscono nel siste­ma della Repubblica e agiscono nel quadro costituzionale. Invite­ranno la popolazione alla calma e si rivolge­ranno alle autorità reli­giose e alla Guida. Cioè lotteranno con le armi del sistema. La se­conda ragione è di pu­ro opportunismo. San­no di non avere alternative. Se ci fos­se una rivolta tale da rovesciare il re­gime, il loro posto e il loro futuro non sarebbero affatto garantiti».
E Khatami? L'ex presidente rifor­mista è stato forse costretto a ritira­re la propria candidatura alle ele­zioni. Ora anche il suo partito è sot­to pressione con attivisti arrestati. Se lui desse un segno sarebbero in tanti a seguirlo.
«Per Khatami vale il discorso degli altri. Anche lui è interno al sistema. Più volte ha dichiarato che la Repub­blica Islamica è la più grande conqui­sta del nostro popolo, che non ha un’alternativa migliore e che è un’or­ganizzazione politica santa. Come può guidare una rivoluzione contro tutto ciò?».

Il Giornale- Paolo Guzzanti: " Dialogo o no ? Ecco che cosa farà l'America "

Tutti si chiedono adesso che cosa farà Obama, dopo aver incassato due apparenti sconfitte dalla rielezione di Mahmud Ahmadinejad a Teheran e dal nuovo test nucleare nella Corea del Nord di Kim Jong. La prima risposta che viene da dare è che Obama non incassa alcuna sconfitta, ma si limita a disporre sulla tavola la tabella ordinata degli elementi della sua politica estera.
Il presidente americano si comporta come un empirista inglese, più che un pragmatico americano. Il suo approccio ai problemi del pianeta è costante e radicale: partire da zero e, dopo aver azzerato tutto, aprire il dialogo e vedere dove si arriva. Se e quando la carta del dialogo non produce effetti, o ne produce meno veloci e intensi del desiderato, sa di dover passare ad “altre opzioni”. Tutti capiscono che, quando in America si usa l’espressione “other options”, si intende includere nel loro bouquet proprio quella che fino a quel momento era stata ideologicamente esclusa, e cioè l’opzione militare. L’avanzamento di questa tabella è ben visibile nel caso coreano, avendo il capo della diplomazia Hillary Clinton già parlato della necessità di «difendere i nostri alleati dalla provocazione».
E probabile che i coreani abbiano voluto con il loro test nucleare testare il nuovo presidente americano per fargli mettere le carte in tavola, ed è dunque empiricamente certo che la prima carta in tavola che viene calata a Washington è quella di una possibile risposta militare, dopo l’esaurimento delle altre opzioni, per dimostrare non soltanto ai coreani che esiste una linea di confine fra ideologia e pragmatismo e in definitiva fra pace e guerra.
La questione iraniana è più bruciante, in un certo senso, della già bruciante bomba nucleare coreana, accompagnata quest’ultima dal lancio di missili a medio raggio che mandano in bestia Cina e Giappone. Come se non bastasse, elementi di intelligence assicurano che esiste un patto operativo fra Iran e Corea per un reciproco sostegno tecnico, militare e politico. A Teheran il rieletto Ahmadinejad ha subito dichiarato “chiusa” la questione dello sviluppo nucleare a scopi pacifici, ma facilmente convertibile in militare perché sottratto al controllo delle Nazioni Unite, affermando quindi la propria indisponibilità a trattare di nuovo l’argomento. Con l’Iran l’approccio è stato quello che sappiamo: azzerare, ripartire da capo con un “fresh start”, dare tutta la colpa del deterioramento alle amministrazioni repubblicane guerrafondaie e sedere allo stesso tavolo parlando lo stesso linguaggio. Ma gli sciiti iraniani non si sono impressionati e anzi hanno masticato fiele per l’enorme apertura di credito al mondo sunnita avvenuta al Cairo la settimana scorsa.
Ciò ha condotto a un potenziale rimescolamento di carte dalle conseguenze incalcolabili e, nell’incalcolabile, anche ipoteticamente catastrofiche. Gli israeliani, ad esempio, sentendosi pugnalati alla schiena dalla prima amministrazione americana che sbatte loro pubblicamente in faccia le proprie divergenze su questioni di vita o di morte come insediamenti e Stato palestinese, hanno aperto un giro di tavolo con Putin quando il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman è andato a San Pietroburgo per discutere di aerei automatici senza pilota, gli stessi che hanno massacrato gli aerei con pilota russi durante l’invasione della Georgia.
I russi, incapaci come sempre di produrre tecnologia, hanno chiesto di comperarne alcuni esemplari e Israele tratta, sapendo di lanciare così un segnale ostile allo stesso Obama che ha lanciato un segnale ostile a Gerusalemme e che sa di dover dipendere dalla Russia in Afghanistan.
Ciò pone il presidente americano in una situazione delicata, ma calcolata. Che gli iraniani rispondessero picche era previsto; che Israele avrebbe emesso contro-segnali di risposta adeguati era previsto; che Pyongyang se ne sarebbe infischiata dei moniti del potente think tank governativo Center for New American Security, uno strumento di analisi voluto da Bush e usato ora da Obama, era scontato.
Se dovessimo descrivere il presidente americano allo stato attuale in una scena di teatro, lo immagineremmo davanti a un mappamondo con aria pensosa, ma non disperata né sorpresa: le cose per lui vanno tanto male quanto i suoi consiglieri gli avevano già prefigurato. Ma l’«obamismo», se non prendiamo un granchio, consiste proprio in questo: nel dedicare tutto il tempo possibile a eliminare qualsiasi futura condanna dell’operato americano, dimostrando fin da oggi che si sta facendo, si è fatto e si farà tutto quel che è umanamente possibile per trattare una situazione ad alto rischio con strumenti diplomatici, multilaterali e politici, fino tanto che i rischi lo permettono.
E qui veniamo al punto. L’Iran ha di fronte a sé una sua “dead line”, un punto di non ritorno oltre il quale non si può andare ed è collocato dagli esperti a dicembre: se l’Iran seguiterà a procedere come ha fatto finora nella sua produzione atomica, a dicembre sarà avvenuto l’irreversibile. La bomba sarà una realtà e l’America dovrà essere pronta ad affrontare una situazione militare che non dipenderà solo da lei ma da anche da Gerusalemme, che si sente nel mirino del dittatore iraniano.
Lo stesso sta accadendo con la Corea dove però sono le Nazioni Unite a dettare l’agenda e gli ultimatum che quasi certamente Pyongyang ignorerà e che dunque prima o poi potrebbero produrre conseguenze. L’ultima volta che le Nazioni Unite provocarono conseguenze in Corea fu nel 1950 quando Kim Il Sung ordinò l’invasione della Corea del Sud separata sulla linea del 38° parallelo. Il peso della guerra dell’Onu contro la Corea fu quasi interamente sostenuto dall’esercito americano che combatté un conflitto sanguinoso e altalenante fino al 1953, quando si tornò in pratica alle posizioni di partenza.
Come se non bastasse, l’opinione pubblica americana è indignata con il governo di Pyongyang per la condanna a 12 anni di lavori forzati inflitti a due giornaliste americane, entrambe reporter di Current Tv. La loro condanna è da giorni la prima notizia sulla Cnn e delle altri maggiori catene americane e dunque Obama non può permettersi un’eccessiva morbidezza con i coreani.
Si può concludere dunque che per l’amministrazione Obama tutti i nodi stanno venendo al pettine in maniera precipitosa e congestionata, con l’accavallarsi di altri problemi concomitanti e altri ancora di natura nuova come i possibili sviluppi del rapporto che si sta sviluppando (presumibilmente a spese della Georgia, che aveva appaltato l’addestramento militare a Israele) fra Mosca e Gerusalemme.
Di sicuro a Washington la diplomazia non mostra visibili segni di ansia, ma è altrettanto certo che il Pentagono è entrato automaticamente nella nuova fase delle possibili “opzioni” su entrambi i teatri, sia coreano che iraniano. Naturalmente l’amministrazione Obama vede l’eventualità di un qualsiasi possibile intervento armato o anche di forte pressione diplomatica agitando quella militare, come il fumo negli occhi per motivi sia politici generali che economici. Con una crisi che negli Usa non si considera affatto finita e forse nem
prevedeva l’arrivo “della vera crisi” più o meno fra un paio d’anni), l’eventualità di aumentare la spesa militare è vista malissimo anche per un problema di immagine: se Obama dovesse riconoscere che in fondo, malgrado tutte le buone intenzioni e le aperture verbali, alla fine occorre ricorrere comunque al fucile e alle cannoniere, per lui sarebbe una sconfitta politica che permetterebbe ai repubblicani di gridare non a torto «noi l’abbiamo sempre detto».
Ma Obama non è un ingenuo ed è circondato dai migliori cervelli, tecnici, diplomatici, esperti dei diversi teatri ed è inoltre abbastanza giovane e immacolato da potersi permettere gesti inattesi. La sua abilità è del resto quella di affascinare attraverso una forma di discorso morale fondato sui principi: quel genere di discorso cui gli americani sono in genere molto sensibili.
Dunque oggi possiamo dire che Obama si trova di fronte al primo vero banco di prova su cui si deciderà se quella militare è una possibile “other options”. Il tempo non gli consente di trastullarsi più di tanto. Più probabilmente saranno i temi a dettare la sua agenda e ciò che conta per Obama è non farsi trovare sorpreso né impreparato.
 
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