Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Bibi, un discorso chiaro e diretto, niente ambiguità Le cronache e i commenti
Testata:Corriere della Sera-Il Giornale-La Stampa-La Repubblica Autore: Francesco Battistini-R.A.Segre-Glauco Maggi-Alberto Stabile Titolo: «Sì a uno stato palestinese smilitarizzato-Non ci sta offrendo la patria ma una nuova occupazione»
Bibi Netnayahu non ha deluso le aspettative, nel suo discorso al Besa Center, all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv, ha descritto con molta chiarezza qual'è la posizione di Israele, lasciando nessun spazio alle interpretazioni. Con una eccezione, la REPUBBLICA, che sposa, come sempre, il rifiuto palestinese, definendo "timida e parziale" la proposta di Netanyahu. Riprendiamo l'articolo di Alberto Stabile al fondo di questa pagina. Pubblichiamo la cronaca di Francesco Battistini dal CORRIERE della SERA di oggi, 15/06/2009, segue l'intervista ad Hanan Ashrawi, sempre di Battistini, con un nostro commento, dal GIORNALE l'intervento di R.A.Segre e dalla STAMPA l'analisi dall'America di Glauco Maggi.
Corriere della Sera- Francesco Battistini: " Sì a uno stato palestinese smilitarizzato "
GERUSALEMME — Obama chiama, Bibi risponde. Ma solo un pochino. E il discorso più annunciato della recente storia israeliana, la risposta di Netanyahu al celebrato speech cairota del presidente americano, non smentisce le anticipazioni degli ultimi giorni. Il premier parla una mezz'ora abbondante. Abbonda in pause, sguardi solenni. Ripete che la Road Map verrà rispettata. E dice quel che la destra non aveva ancora osato, da quand'è tornata al governo: il sì a uno Stato palestinese. Aggiungendo poco altro, però. E anzi elencando una serie di «ma» che alla fine, un po', sbianchettano la concessione: sì a una Palestina «sovrana e con una propria bandiera», certo; ma purché sia smilitarizzata; e in cambio riconosca l'identità ebraica d'Israele; e non pretenda di risolvere dentro Israele il problema dei profughi; e non si sogni che le colonie vengano smantellate; e men che meno pretenda una divisione di Gerusalemme. Applaude convinta la platea nell' aula magna del Be-Sa Center di Tel Aviv, dove Be-Sa sta per Begin-Sadat e però il discorso non ha la grandezza di quegli statisti. Concorda soddisfatta la Casa Bianca, col portavoce di Obama che parla di «passo importante». Fischia, e forte, l'Autorità nazionale palestinese per bocca di Saeb Erekat: «La pace può aspettare anche mille anni». Con un portaparola di Abu Mazen, Nabil Rudeina, che mette una pietra tombale: «Questo discorso, con la pretesa d'iscriverci al movimento sionista mondiale, di fatto silura tutti gli sforzi di pace ». Tanto tuonò che Bibi. Le aspettative erano molte e Netanyahu, la camicia bianca e la cravatta azzurra dei momenti cruciali, stavolta non sorprende. «Lo sapeva anche lui», dice un suo stretto collaboratore, ed è per questo che ha scelto di parlare da un podio come l'università di Bar Ilan: il più prestigioso campus del nazionalismo religioso, da dove partì anche il killer di Rabin, trecento invitati selezionatissimi che evitassero le interruzioni della Knesset. «Distinti ospiti, cittadini d'Israele...»: la prima parola che Bibi pronuncia è «shalom»; l'ultima, una citazione dei Profeti. Ha tre argomenti da trattare — l'Iran, lo sviluppo economico, il processo di pace —, ma i primi due sono facili da liquidare, dopo che il voto di Teheran ha sancito «l'incontro fra l'Islam e gli armamenti nucleari», ora che serve «una cooperazione di tutti i leader arabi per creare investimenti». Al punto più atteso — la pace —, Bibi ricorda la sua storia personale, «ho fatto battaglie e guerre, ho perso un fratello, ho perso amici», e raccoglie il primo battimani: «Non voglio la guerra, nessuno la vuole in Israele». Vuole la pace, e che l'altro non prepari la guerra. L'Anp dovrebbe riaprire immediatamente il negoziato, ma innanzi tutto renda innocuo Hamas. E poi niente armi, niente spazio aereo: «Se riceveremo la garanzia della smilitarizzazione e del rispetto della sicurezza, e se i palestinesi riconosceranno Israele come nazione ebraica, allora siamo pronti a un autentico accordo di pace e a raggiungere una soluzione basata su uno Stato palestinese smilitarizzato, di fianco a uno ebraico». L'identità è una concessione alla destra estrema, tanto che il ritorno dei profughi del 1948 (stabilito dalla Road Map) «è contro il principio d'Israele in quanto Stato ebraico ». Pure le parole su Gerusalemme, «capitale unica e indivisibile dello Stato ebraico», servono a tranquillizzare gli alleati di governo. E i coloni, «nostri fratelli e sorelle, non sono nemici della pace»: «Non voglio fare costruire nuovi insediamenti o confiscare terre con quest'obiettivo, ma occorre permettere agli abitanti delle colonie di vivere normalmente». Ovvero, di restare dove sono: esattamente il contrario di quanto stabiliscono gli accordi internazionali.
Corriere della Sera: Francesco Battistini: " Non ci sta offrendo la patria ma una nuova occupazione ", intervista con Hanan Ashrawi.
Hanan Ashrawi
Che tristezza leggere le tiritere di Hanan Ashrawi, tutta una vita accanto ad Arafat, del quale ha condiviso tutto, errori e atti criminali, e che adesso continua a lamentarsi perchè Israele " non offre una patria ai palestinesi". Chissà, provasse una volta a chiedersi le ragioni non sarebbe male.
GERUSALEMME — «A me piacciono i bei discorsi, indipendentemente da quel che si dice... », ride Hanan Ashrawi. Sessantun anni, buoni studi all'American University di Beirut, cristiana per famiglia e marito, nella politica palestinese da quand'era la portavoce di Arafat, oggi deputata vicina al premier Salam Fayyad, la signora Ashrawi fa una sola concessione, una volta spenta la tivù e la faccia di Netanyahu: «L'unica cosa che m'è piaciuta, è l'uso che ha fatto delle parole, dei silenzi. Dev'essersi esercitato molto. Per dire poco». Poco? «Non vedo un grande cambio di posizione. È la solita politica della destra israeliana. C'è una bella differenza, fra le cose che ha detto Bibi e quelle di Obama, a cui voleva idealmente rispondere. Al di là delle emozioni: il presidente americano ha detto con chiarezza che Israele deve dire stop agli insediamenti, Netanyahu ha detto soltanto che non ne vuole di nuovi. Ma s'è ben guardato dal parlare d'un congelamento di quelli che già ci sono». Però una novità c'è: la prima volta, dopo molti anni, che un premier della destra accetta l'idea d'uno Stato palestinese. «E a lei questa sembra una novità? È chiaro che si tratta solo d'una operazione di retorica. D'un gioco di parole. Netanyahu dice che ci dev' essere uno Stato palestinese. Ma vuole che diventiamo anche noi sionisti, che gli arabi che stanno in Israele accettino d'essere quel che non sono, prima d'accomodarci al tavolo e trattare». Ma perché non riconoscete Israele? «Non possiamo farlo in questi termini. Significa abbandonare al loro destino i nostri fratelli arabi. Significa contraddire tutta la nostra storia ». Una Palestina smilitarizzata non è nell'interessedi tutti? «La nozione di Palestina smilitarizzata corrisponde al concetto che ha Bibi del popolo palestinese: un popolo che abbia una terra, ma che comunque non controlli le sue frontiere, non abbia un esercito e non possa nemmeno guardare se nel suo cielo volino bombe o aquiloni. Questo non è uno Stato: è la prosecuzione di un'occupazione. Anzi, è la versione aggiornata dell'occupazione: una cosa morbida, tanto per compiacere la Casa Bianca. Il suo discorso è arrogante, ideologico. Non ha le dimensioni del discorso di pace: ha quelle del controllo del territorio». Ma non c'è niente da salvare? «Netanyahu ha chiuso la porta su tutto. Gerusalemme è una città occupata, non può non essere la nostra capitale. E se Fatah e Hamas raggiungono un accordo, Israele deve accettarlo: noi non decidiamo chi deve stare al governo israeliano. La cosa più arrogante è la pretesa di risolvere al di fuori d'Israele la questione dei profughi. E poi di chiedere ai palestinesi d'aderire all'identità ebraica: dobbiamo dimostrare d'essere ragazzi di buone maniere, prima d'essere ammessi a vivere sulla loro terra».
Il Giornale- R.A.Segre: " Guerra o no ? Ecco che cosa farà Israele "
R.A.Segre
È probabile che Ahmadinejad, vincitore delle elezioni in Iran darà la colpa dei disordini che ne sono seguiti a Israele. Il che non mancherebbe di logica cospiratoria se l’“onda verde” dei cosiddetti moderati di Moussavi, non ricordasse l’onda arancione anti russa delle elezioni in Ucraina, e quelle colorate del Libano, e della Georgia. I disordini si rivelano, comunque, un beneficio inaspettato per Israele e hanno probabilmente fatto riflettere Netanyahu sulla componente cieca della politica che Machiavelli chiama “fortuna”. Non occorreva essere profeti per immaginare quello che il premier israeliano avrebbe detto ieri sera in risposta al discorso del Cairo di Obama. Intervento molto atteso anche per la scelta del luogo scelto per pronunciarlo: l’università religiosa di Bar Ilan, nei pressi di Tel Aviv, centro accademico di destra dove aveva studiato l’assassino di Itzhak Rabin. Netanyahu non poteva dire un no secco a Obama. Sarebbe stato invitare uno scontro fra un personaggio all’apice della popolarità internazionale e un altro al suo nadir, un cozzo fra un recipiente di ferro e uno di ceramica, che lo Stato di Israele non poteva permettersi. Netanyahu lo aveva spiegato nei giorni passati ai capi dei partiti che formano la sua ibrida coalizione di destra. C’è da credere che anche i più duri fra loro hanno compreso che Israele non poteva alienarsi l’unico alleato che aveva avuto il coraggio di dire al Cairo che il legame fra America e Israele era «indistruttibile» e che il piano di pace della Lega araba era un inizio non una fine di negoziato con Israele. D’altra parte Netanyahu non poteva accettare la richiesta americana di blocco della “crescita naturale” della popolazione interna degli insediamenti ebraici esistenti in Cisgiordania, senza provocare una crisi di governo che avrebbe prima o poi portato al potere l’opposizione di centro sinistra guidata dalla signora Livni (con l’appoggio del presidente Peres). Ha dovuto accettare l’idea dei due Stati mantenendosi vago, ma condizionando lo Stato palestinese ad una demilitarizzazione completa (e probabilmente internazionalmente garantita anche con l’appoggio della Giordania). Qualche cosa ispirato allo statuto di Andorra. E che, come prima reazione, la Casa Bianca ha definito «un importante passo avanti». Sulla questione degli insediamenti, quelli illegali anche dal punto di vista di Gerusalemme, verranno eliminati assieme a molti posti di blocco per favorire lo sviluppo economico della Cisgiordania. Si tratta di poche decine di persone, disperse su una larga scala, la cui evizione da abitazioni per lo più mobili non creerà un trauma nazionale come per Gaza. Evacuazione che ha dimostrato l’uso offensivo, non costruttivo, che i palestinesi hanno fatto di questo territorio. Sulla questione della crescita demografica all’interno degli insediamenti considerati “legali” da Israele (Netanyahu ha escluso il congelamento di queste colonie: «Bisogna permettere agli abitanti di vivere normalmente») si cercheranno soluzioni tecniche. I recenti incontri fra il senatore Mitchel, inviato speciale di Obama per il Medio Oriente, e la dirigenza israeliana, secondo la stampa israeliana, si sarebbero trasformati da negoziati politici a discussioni su “diritti catastali”. Su due punti il premier israeliano è stato categorico: Gerusalemme («deve rimanere la capitale indivisibile di Israele») e i profughi palestinesi («il problema va risolto fuori dal territorio di Israele»). E su questo si sono appuntate le critiche dell’Anp di Abu Mazen, che ha accusato Netanyahu di «silurare» gli sforzi di pace.
Due cose sembrano certe dopo questo discorso. La prima è che la situazione di tensione interna post elettorale in Iran rende impossibile un’iniziativa militare israeliana contro il regime di Teheran. Non servirebbe se non a unire il Paese attorno al suo presidente. Secondo, il principale problema di Obama nel Medio Oriente è l’Iran, non gli insediamenti israeliani. È una sfida lanciata non solo all’America dalla Corea del Nord e dall’Iran. Due potenze regionali chiedono col ricatto nucleare un riconoscimento di supremazia regionale che la società internazionale non è disposta a dar loro. In questa situazione gli Stati Uniti rivelano la loro debolezza e il loro bisogno di cooperazione con la Cina e con la Russia. Una collaborazione che Mosca non sembra disposta a concedere se non a caro prezzo, come spiegava ieri su questa pagine Marcello Foa. Nel frattempo il ministro degli Esteri israeliano, Lieberman ha fatto quattro visite a Mosca dove ha ottenuto l’impegno russo a opporsi all’uso del nucleare da parte dell’Iran per «scopi non civili». Lieberman ha aperto un’ambasciata israeliana a Minsk e ha allargato la presenza israeliana nelle repubbliche asiatiche ex sovietiche. L’America non può ignorarlo anche se una volta di più la realtà sembra superare la fantasia.
La Stampa-Glauco Maggi: " L'astuzia di Bibi spiazza Barack"
Più che astuzia, la parola giusta era "realismo", molto più difficile da contraddire. E' con il realismo della situazione mediorientale che Obama dovrà fare i conti. E prima lo farà, meglio sarà.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è seduto all’eterno tavolo di poker del conflitto medio-orientale e ha fatto il suo rilancio pesante. Ok ad uno stato palestinese, purché sia smilitarizzato. Non poteva essere ignorato l’appello fatto da Obama nel suo discorso al Cairo: accettare la tesi dei due stati che convivono in pace fianco,cardine della «road map» disegnata da Bush e condivisa dalla nuova Casa Bianca. Ma il presidente Obama aveva parlato anche degli insediamenti israeliani, il nervo scoperto di tutte le trattative, e aveva chiesto a Gerusalemme un passo indietro: no a nuove colonie, e smantellamento di quelli esistenti. Netanyahu, il leader della coalizione di destra vincitrice delle recenti elezioni, non aveva mai sposato l’ipotesi dei due Stati, e non ne aveva fatto menzione nemmeno durante il recente incontro con Obama alla Casa Bianca. Del resto, le componenti più radicali della sua formazione, non avevano mai accettato questa possibilità, e la tenuta dello stesso governo israeliano sarebbe stata a rischio. La mossa di ieri arriva dopo che il leader di Gerusalemme si è assicurato l’appoggio anche degli alleati più intransigenti. La fermezza del messaggio di Obama aveva di fatto posizionato l’America, pur nella conferma piena dell’alleanza con Israele, in una luce di migliore visibilità agli occhi dei palestinesi, persino della fazione più estremista di Hamas. Netanyahu non ha risposto con l’irrigidimento, ma ha deciso anzi di uscire dallo stallo e di fare un passo che costringerà gli Stati Uniti a uscire a loro volta allo scoperto. Il governo Obama ne prenderà atto con favore, aumentando la pressione sull’altro campo? Oppure sceglierà di sminuirne l’importanza, accentuando un distacco da Israele che avrebbe però costi impensabili per la sua popolarità in patria? La proposta di Netanyhau non viene gratis, e le due condizioni che si porta appresso sono destinate a portare il dibattito sul tema che è più caro a Gerusalemme: la sicurezza. La prima richiesta è quella della smilitarizzazione dello stato palestinese nascituro, con un controllo internazionale in cui gli Stati Uniti dovranno avere un peso decisivo. I «cuscinetti» di tutela alla libanese, creati sotto l’egida dell’Onu, nella memoria politica israeliana non suonano evidentemente rassicuranti. La seconda condizione è politica, e nella sua banalità è rivoluzionaria: il riconoscimento palestinese dello stato di Israele come casa nazionale del popolo ebraico. Finora neppure il moderato presidente palestinese Abu Mazen ha mai compiuto questo passo con nettezza. Per Obama, questa seconda condizione è facile da sostenere: nell’ipotesi di lavoro dei due stati la premessa è proprio il riconoscimento reciproco. La prima condizione, invece, per la Casa Bianca è una novità che dovrà essere valutata con attenzione: Obama dovrà capitalizzare il credito mediatico conquistato nel mondo arabo e musulmano con il discorso in Egitto, cercando di trasformare la buona volontà dell’ex falco Netanyhau in un reale passo avanti nelle trattative.
La Repubblica- Alberto Stabile: " Israele apre ai palestinesi, sì a uno stato smilitarizzato"
Di corretto c'è solo il titolo, tutto l'articolo è una esposizione delle tesi palestinesi, con l'uso di termini che inducono il lettore a capire persino le ragioni di Hamas. REPUBBLICA è sempre di più uno dei maggiori responsabili della disinformazione del conflitto israelo-palestinese. Persino l'UNITA' era oggi meno squilibrata del solito, anzi, possiamo dire che il pezzo di Umberto De Giovannangeli era corretto.
Con parole sofferte, quasi facesse una violenza a se stesso, Benjamin Netanyahu ha alla fine varcato il Rubicone, ammettendo che uno Stato palestinese può esistere ma a condizione che sia demilitarizzato e che i palestinesi riconoscano Israele come «lo stato nazionale del popolo ebraico». Se questa è la risposta del premier israeliano al piano di pace lanciato da Barack Obama, bisogna dire che si tratta di una risposta timida e parziale, dove i "no" espliciti o sottintesi prevalgono sui "sì". Prevedibile la delusione dell´autorità palestinese che ha respinto al mittente l´offerta del premier israeliano. Mai discorso era stato più accuratamente preparato. A prescindere dal desiderio inconscio di imitare l´Obama del Cairo con una concione di pari importanza, forse il premier pensava di ripercorrere le orme di Sharon che nel dicembre del 2003 ad Herzlyah annunciò la sua adesione alla Road Map, avvertendo che se i palestinesi non avessero fatto la loro parte, lui avrebbe agito da solo, come in effetti fece con il ritiro da Gaza. Ma Netanyahu è stato meno coraggioso di Sharon. Non ha mai citato la Road Map ed ha chiaramente mostrato di preferire lo status quo. Due erano le richieste che l´Amministrazione americana ha insistentemente rivolto a Netanyahu. Una era la necessità di dare un segnale di disponibilità non solo ai palestinesi ma al mondo arabo in generale, bloccando l´espansione degli insediamenti nei Territori occupati, insediamenti definiti da Obama «legalmente inaccettabili». L´altra richiesta riguardava l´accettazione da parte del premier israeliano dell´ipotesi di soluzione del conflitto basata sulla formula dei "due Stati", che coesistono fianco a fianco in pace e sicurezza. Il che significa ammettere la nascita dello Stato palestinese. Diciamo subito che sul blocco totale degli insediamenti Netanyahu ha opposto un rifiuto implicito. Il premier ha, sì, ribadito che Israele non costruirà nuovi insediamenti, ma parlando dei coloni ha aggiunto che «non sono nemici del popolo israeliano ma nostri fratelli e sorelle ai quali bisogna consentire di vivere una vita normale». Frase già adoperata nel faccia a faccia con Obama a Washington per giustificare la scappatoia per continuare a costruire nei Territori occupati garantendo la cosiddetta «crescita naturale». Netanyahu è arrivato al punto chiave del suo discorso nell´auditorium dell´Università Bar Ilan, fra sostenitori, accademici e l´intera famiglia schierata al completo, dopo aver fatto appello alla leadership palestinese a cominciare negoziati «immediatamente e senza precondizioni». Lo stesso premier, però, si è subito dopo contraddetto affermando che «Israele non può accettare uno Stato palestinese a meno che non riceva garanzie (dalla comunità internazionale, s´intende) che sia uno Stato demilitarizzato». Israele, ha ripetuto, non può vedere cresce ai suoi confini un altro Hamastan, come spregiativamente viene chiama la Striscia di Gaza dopo la presa del potere da parte del movimento islamico, né potrebbe sopportare uno stato palestinese che stringa accordi militari con altri paesi. Soltanto se Israele riceve le dovute garanzie, allora. Quanto ai palestinesi, Netanyahu è partito da lontano, ribadendo alcuni capisaldi ideologici della destra israeliana. Il legame storico con la terra d´Israele e dunque il diritto del popolo ebraico su questa terra risalgono a 3500 anni fa. La nascita dello Stato israeliano non ha niente a che vedere con le persecuzioni degli ebrei. Ma questo anche i palestinesi moderati stentano ad accettarlo. Conclusione: «Quando i palestinesi saranno pronti a riconoscere Israele come lo stato nazionale del popolo ebraico noi saremo pronti per un vero accordo finale». A dispetto degli accenti di disponibilità, la strada verso la ripresa di un negoziato sembra, dopo questo discorso, estremamente incerta. Netanyahu ha accennato di sfuggita ad altre due questioni principali ed ancora una volta ha opposto due rifiuti. Sul diritto al ritorno ha detto che i palestinesi devono trovare la soluzione al problema dei rifugiati fuori dal territorio israeliano. E su Gerusalemme ha affermato che resterà la capitale unita e indivisibile d´Israele, dunque, non soggetta a negoziato. Come era prevedibile, il discorso di Netanyahu non è piaciuto ai palestinesi moderati. Un portavoce del presidente Abu Mazen lo ha definito né più né meno che un «sabotaggio» degli sforzi di pace. Troppe condizioni, troppa prudenza, «troppe nebbie» ha detto Saeb Erekat. Hamas che ha definito tutte le condizioni poste come un chiaro esempio di «ideologia razzista e estremista». Mentre, sul fronte opposto, nella tenue apertura allo «Stato palestinese demilitarizzato», i coloni hanno visto un tradimento dei sacri principi, un tentativo di scambio per loro impensabile. La Casa Bianca nel suo primo commento ieri sera ha preferito vedere solo l´apertura di Netanyahu allo Stato palestinese come «un importante passo avanti», sui tre "no" al piano del presidente Usa ci sarà ancora molto da lavorare.
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