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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Libero - Il Giornale Rassegna Stampa
14.06.2009 Gheddafi ultima puntata
Analisi di Magdi Allam, cronaca di Fausto Biloslavo

Testata:Libero - Il Giornale
Autore: Magdi Allam - Fausto Biloslavo
Titolo: «Piegare la schiena non raddrizza l’Italia - Agli esuli cacciati via nel 1970: 'Vi ho salvato dalla deportazione'»

Riportiamo da LIBERO di oggi, 14/06/2009, a pag. 19, l'analisi di Magdi Allam dal titolo " Piegare la schiena non raddrizza l’Italia " e dal GIORNALE, a pag. 5, l'articolo di Fausto Biloslavo dal titolo " Agli esuli cacciati via nel 1970: 'Vi ho salvato dalla deportazione' ". Ecco gli articoli:

LIBERO - Magdi Allam : " Piegare la schiena non raddrizza l’Italia "

La vera lezione da trarre dalla sciagurata visita del dittatore libico Gheddafi a Roma è che non è affatto vero che incurvando la schiena si possano raddrizzare gli affari. Perché se, da un lato, il messaggio recondito che trapela dai canali informativi è che dovremmo perdonare gli “eccessi verbali” di Gheddafi per salvaguardare degli interessi energetici, economici e commerciali che corrisponderebbero ad una priorità nazionale, dall’altro si tende a omettere che a giovarne sono essenzialmente i tradizionali potentati della finanza e dell’impresa, anche a scapito della piccola e media impresa che rappresentano il fulcro dell’attività sana della nostra economia, con un danno che prima o dopo si ripercuote sui nostri portafogli.
Per trarre le somme dobbiamo partire dall’inizio della storia recente tra i due Paesi, per prendere atto dell’assoluta inaffidabilità di Gheddafi. Il 2 ottobre 1956 il presidente del Consiglio dei ministri Antonio Segni e il primo ministro e ministro degli Esteri libico Mustafà Ben Halim sottoscrissero a Roma l’Accordo tra l’Italia e la Libia di collaborazione economica e di regolamento delle questioni derivanti dalla risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 15 dicembre 1950. Esso consta di 19 articoli, 20 allegati e 14 scambi di note. Di fatto l’Italia risolse la spinosa e controversa questione del risarcimento dei danni coloniali, così come attesta l’articolo 18 che recita: «I due governi, nel dichiarare di loro piena soddisfazione le intese raggiunte col presente accordo, confermano di aver definito tutte le questioni dipendenti dalla risoluzione (dell’Onu del 15 dicembre 1950 che conferisce l’indipendenza alla Libia, ndr) o con questa connesse o dipendenti dal passaggio di sovranità». Concretamente l’Italia saldò il debito coloniale con il versamento alla Libia, così come contemplato dall’articolo 16 dell’accordo, della somma di 2.750.000 lire libiche, pari a 4.812.500.000 lire italiane quale contributo alla ricostruzione economica della Libia. Di questa somma, due terzi dovevano essere impiegati da parte del governo libico per l’acquisto in Italia, in tre esercizi finanziari successivi, di prodotti dell’industria italiana, mentre un terzo fu versato in contanti.
Sennonché Gheddafi, dopo il colpo di Stato con cui nel 1969 rovesciò la monarchia, sconfessò gli accordi internazionali precedentemente sottoscritti e pretese la riapertura della questione dei risarcimenti coloniali. Teniamo presente che l’Italia è l’unica ex potenza coloniale al mondo che ha accettato di farlo, anche se il nostro peso coloniale è stato del tutto infimo rispetto a quello della Gran Bretagna, Francia, Olanda, Spagna, Portogallo e Belgio. Di fatto abbiamo scoperto che, ogni qual volta si era a un passo da un possibile accordo di natura finanziaria anche se sotto forma di un ospedale o dello sminamento delle aree desertiche teatro della seconda guerra mondiale, Gheddafi rialzava la posta perché ciò che gli interessava veramente non era l’indennizzo, ma il poter usare l’Italia come valvola di sfogo delle frustrazioni interne di un popolo represso in quanto sottomesso alla sua feroce tirannia.
La conferma dell’inquadramento politico della questione del risarcimento coloniale è che il recente accordo, che contempla un esborso stratosferico di 5 miliardi di dollari, è stato accettato da Gheddafi solo nel contesto di un cosiddetto trattato di amicizia che di fatto stravolge l’alleanza dell’Italia con la Nato assumendoci l’impegno a non consentire che dal nostro territorio possano partire azioni aggressive nei confronti della Libia. Così come aveva implicitamente contemplato l’impegno dell’Italia a completare l’opera di sdoganamento di Gheddafi a livello internazionale, cominciando ad accoglierlo con i massimi onori a casa nostra come se si trattasse del più autorevole e prestigioso leader del mondo.
Ben ci sta! Che umiliazione sentirci dare delle lezioni di democrazia («Se il popolo italiano me lo chiedesse, gli darei il potere annullando i partiti e le elezioni») da un tiranno che ha le mani insanguinate di migliaia di oppositori interni massacrati e di centinaia di vittime di attentati terroristici di cui è stato definitivamente accusato dal tribunale internazionale dell’Aja. Che orrore accoglierlo in Campidoglio, nel Senato della Repubblica e nell’Università La Sapienza per permettergli di giustificare e legittimare il terrorismo equiparando gli Stati Uniti a Osama bin Laden. Che vergogna vedere il nostro capo di governo Berlusconi, qui a casa nostra, doversi infilare sotto una tenda eretta a residenza romana di Gheddafi, consentendogli un arbitrio che non sarebbe concesso a nessun italiano, nel tentativo di rabbonirlo dopo l’ennesima offesa alle nostre istituzioni che ha portato all’annullamento della sua visita alla Camera dei deputati, fino al punto da elevarlo a modello da emulare: «Gheddafi? Come un cliente un po’ originale. È intelligentissimo, se è stato al potere per 40 anni è perché ci sa fare».
Ebbene noi italiani dovremmo ingoiare tutti questi rospi perché Gheddafi in cambio ci garantirebbe un fiume di affari irresistibili. Ma a chi? I soliti nomi: Eni, innanzitutto, la madre della nostra politica energetica e della nostra politica mediorientale sin dal dopo-guerra; Impregilo, Alenia Aeronautica, Prysmian Cable (ex Pirelli), Sirti Alcatel. Tanti progetti sulla carta, alcune promesse ventilate, certezze nessuna almeno per il momento. Le sole certezze che abbiamo è che finora gli affari con la Libia, da cui importiamo il 30% del nostro fabbisogno di petrolio e il 12,5% del nostro fabbisogno di gas, pari al 10% del nostro fabbisogno complessivo di energia, si sono spesso ritorte contro l’interesse degli italiani.
Partiamo dal caso della Fiat che, dopo aver consentito alla Libia di acquistare il 15% delle proprie azioni a partire dal 1976, dieci anni dopo le riacquistò con l’intermediazione di Mediobanca, con un’operazione in cui i piccoli azionisti dell’Ifil furono ingannati e danneggiati, avendo sottoscritto un aumento di capitale di una società ricca di attività finanziarie e si ritrovarono a possedere titoli industriali Fiat precipitati da 16.500 lire a 9.600 lire. Diciamo pure che, dopo il lancio dei missili libici su Lampedusa, la Fiat si sbarazzò dell’imbarazzante azionista libico riversando sulle nostre spalle un conto salato, 2,6 miliardi di dollari.
Prendiamo il caso dei crediti per un ammontare di 650 milioni di euro che 120 imprese italiane, perlopiù piccole e medie imprese, continuano a vantare nei confronti della Libia e che Gheddafi continua a non voler onorare. Fino al caso dei 3 miliardi di euro che la Airl (Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia) rivendica per le perdite e le confische subite dai 20 mila italiani cacciati dalla Libia nel 1970. Al riguardo, di fronte al perdurante rifiuto di Gheddafi di indennizzare i nostri connazionali, quest’onere è stato assunto dal governo italiano anche se i versamenti effettuati sono ancora parziali.Ecco perché è arrivato il momento di prendere atto che solo salvaguardando i nostri valori, la nostra dignità e la sovranità nazionale, potremo tutelare anche l’interesse economico dell’insieme della collettività. Ricordiamoci: con la schiena ricurva otterremo solo disprezzo e perdite; con la schiena dritta ci meriteremo rispetto e guadagni.

Il GIORNALE - Fausto Biloslavo: " Agli esuli cacciati via nel 1970: 'Vi ho salvato dalla deportazione' "

 20mila italiani cacciati dalla Libia a pedate nel 1970 dovrebbero ringraziarlo, perché è stato il Colonnello ad opporsi alla loro deportazione in massa in un lager della Cirenaica, dove sarebbero stati decimati dalla prigionia. Gli esuli potrebbero fondare un partito, che il munifico leader libico è pronto a sovvenzionare, perché i governi italiani li hanno sempre trattati a pesci in faccia.
Gheddafi superstar ieri mattina all’ultima puntata delle sue sceneggiate romane. Con espatriati dalla Libia o loro eredi, rigorosamente selezionati dall’ambasciata libica, che fanno a gara per un autografo, in rigoroso inchiostro verde, dal grande capo della Jamahiriya socialista ed islamica. L’appuntamento era a villa Pamphili, ma non nella mitica tenda beduina. «Eravamo in 220 circa sotto un enorme gazebo bianco, con le sedie di plastica allineate. Lui parlava da un palchetto, a braccio ed è andato avanti per un’ora e cinque minuti», racconta un italiano nato a Tripoli, che ha ricevuto l’invito. Il suo nome è meglio non farlo «perché in Libia ci voglio tornare». Come sempre il Colonnello è arrivato in ritardo di 90 minuti e ha attaccato con il solito pistolotto storico sulle colpe del colonialismo italiano. «Ad un certo punto ha praticamente detto che dobbiamo ringraziarlo per averci salvato – racconta la fonte de Il Giornale – perché quando prese il potere una parte del consiglio della rivoluzione voleva deportare tutti gli italiani in Libia in un campo di concentramento ad El Agheila, in Cirenaica. Lui si è opposto e ha fatto valere la sua scelta di mandarci via». E sequestrare i beni degli italiani (400 miliardi di allora) espropriati e nazionalizzati. «Ho tre anni in più di Gheddafi e tre in meno di Berlusconi, le umiliazioni ed il dolore nei giorni in cui ci hanno cacciato dalla Libia me li ricordo bene. Non solo ti portavano via tutto, ma non te ne potevi andare prima di ottenere il certificato di nullatenenza». Lo racconta a Il Giornale, Giovanna Ortu, presidente dell’Airl, l’Associazione italiani rimpatriati dalla Libia, che aveva 30 anni quando è stata cacciata da Tripoli. Ieri sotto il gazebo non c’era, perché gli inviti non sono mai arrivati. «È deplorevole che non si sia ritenuto necessario inserire una rappresentanza dei rimpatriati italiani nell’agenda ufficiale – tuona la Ortu -. Davo per scontato un incontro con Gheddafi. Ma forse è meglio così. Ci siamo evitati un’umiliazione visti i toni del Colonnello in questi giorni».
Sotto il gazebo, invece, c’era un gruppo di Latina con tanto di cappellino verde e la scritta Italia-Libia. «Gheddafi ha detto che i nostri governi ci hanno sempre trattato malissimo – spiega la fonte de Il Giornale sotto il gazebo –. Ci ha incitato a fondare un partito facendo capire che lo avrebbe sovvenzionato». E giù gli applausi delle vittime a chi li ha cacciati.
Fra il pubblico non sono mancate le scene stucchevoli, come qualche fan italiano armato di gigantografia di Gheddafi, che è riuscito a farsi firmare il “santino”. Un espatriato voleva prendere la parola per chiedere ingresso senza visto in Libia, apertura degli archivi di Tripoli sui beni italiani nazionalizzati e risarcimento almeno parziale degli espropri, ma non ce l’ha fatta. Un gruppetto di donne lo ha preceduto per farsi autografare l’invito con rigoroso inchiostro verde, come se Gheddafi fosse una star di Hollywood. Qualcuno gli ha regalato un quadro in argento ed il Colonnello bonario ha assicurato: «Costituite delle società, tornate a lavorare da noi. Avrete dei privilegi rispetto agli italiani che non sono nati in Libia». La Ortu ricorda che nel 1970 i libici «ti frugavano anche nei capelli. Non si poteva portare via neppure gli orecchini. L’argenteria di famiglia l’abbiamo consegnata ad amici arabi e americani, che poi ce l’hanno fatta riavere. Si poteva partire con sole 34mila lire in tasca». Sotto il gazebo di villa Pamphili l’impressione era di grande cordialità con Gheddafi, scialle marrone e camicia all’orientale, che dispensava strette di mano e sorrisi. Però Umberto Gobbi, settantenne, che in Libia ha vissuto a lungo, ammetteva: «Mi sento un po’ preso in giro». Shalom Tesciuba, leader carismatico della comunità ebraica tripolina, ha consegnato una lettera all’ambasciatore di Tripoli scrivendo che “gli ebrei non abbasseranno la testa e non dissacreranno il sabato”. Giorno fissato apposta dai libici per un incontro “riparatore” con Gheddafi, che li ha cacciati come gli italiani.

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