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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - La Stampa - Corriere della Sera - La Repubblica - Il Manifesto - Ansa Rassegna Stampa
14.06.2009 Il mondo diventa vittima impotente dell’odio di piccoli e grandi dittatori
Analisi di Fiamma Nirenstein, Maurizio Molinari, Franco Venturini, Bernardo Valli

Testata:Il Giornale - La Stampa - Corriere della Sera - La Repubblica - Il Manifesto - Ansa
Autore: Fiamma Nirenstein - Maurizio Molinari - Franco Venturini - Bernardo Valli - Michele Giorgio - Alessandro Logroscino
Titolo: «Il mondo diventa vittima impotente dell’odio di piccoli e grandi dittatori - Le spine di Obama. Corea e Iran alleati - Ma il vero sconfitto è Obama - Il colpo di mano del regime di Teheran - Netanyahu ora ha fretta: fermiamo l’atomica sciita - Israele cog»

Sulla vittoria di Ahmadinejad alle elezioni iraniane, riportiamo dal GIORNALE di oggi, 14/06/2009, a pag. 13, l'analisi di Fiamma Nirenstein dal titolo " Il mondo diventa vittima impotente dell’odio di piccoli e grandi dittatori ", dalla STAMPA, a pag. 5, l'analisi di Maurizio Molinari dal titolo " Le spine di Obama. Corea e Iran alleati  ", dal CORRIERE della SERA, a pag. 12, l'articolo di Franco Venturini dal titolo " Ma il vero sconfitto è Obama", dalla REPUBBLICA, a pag. 29, l'articolo di Bernardo Valli dal titolo "Il colpo di mano del regime di Teheran" , dal MANIFESTO, a pag. 3, l'articolo di Michele Giorgio dal titolo "Netanyahu ora ha fretta: fermiamo l’atomica sciita" e dall'ANSA l'articolo di Alessandro Logroscino dal titolo " Israele coglie assist, macche' dialogo  " preceduti dal nostro commento. Ecco gli articoli:

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Il mondo diventa vittima impotente dell’odio di piccoli e grandi dittatori "

Quale orribile risultato. Mettiamo pure che i brogli elettorali riducano la proporzione della vittoria di Ahmadinejad, mettiamo anche che gli scontri a Teheran possano modificare o condizionare la leadership iraniana. È molto difficile tuttavia evitare il pensiero che le preferenze per il futuro, ed anche ex, presidente iraniano, sono il doppio di quelle per Hossein Moussavi, la pallida stella di un cambiamento che tuttavia avrebbe avuto un carattere interno. È anche interessante, e denota il consueto ottimismo pacifista, che la stampa di tutto il mondo e i vari leader mondiali abbiano seguitato a immaginare che Moussavi potesse vincere, nonostante fosse facile prevedere la vittoria di Ahmadinejad: il supremo ayatollah Khamenei, tutta la classe dirigente della Repubblica islamica hanno rinnovato semplicemente la scelta fatta a suo tempo, nel 2005, per l’uomo che avrebbe raddrizzato l’Iran dopo otto anni di tentennamenti del riformista Khatami. Khamenei, che durante la campagna ha tenuto un atteggiamento da Sibilla Cumana, tuttavia alla fine l’ha detto chiaramente: «Noi siamo favorevoli al candidato più capace di contrapporsi all’Occidente». L’ha detto dopo il lancio del missile Sejil 2, duemila chilometri di gittata, fino a Tel Aviv o in Europa, e dopo che Ahamdinejad ha festeggiato le 7.000 centrifughe atomiche. Stavolta il gioco della scelta preordinata si è ripetuto all’ennesima potenza: non si è badato a spese neppure nella messa in scena della farsa della democrazia iraniana, perché si sapeva che Obama sedeva con un sorriso accattivante nella prima fila della platea. Così, il regime ha messo in scena una percentuale straordinaria di votanti, basandosi anche cinicamente sul desiderio di cambiamento affinché la porta sbattuta di fronte alla richiesta di colloquiare sul nucleare con gli Usa facesse un rumore assordante. Il regime ha scelto l’uomo che lo ha detto più chiaro di tutti: il nucleare non è negoziabile, è un argomento chiuso. Ha scelto il leader che pavimenta, fisicamente, la strada per l’avvento del Mahdi, il messia sciita. Lo show di potenza di Ahmadinejad è quello del regime che non si vergogna di impiccare dissidenti, omosessuali, donne. Non ci può far niente il variegato popolo iraniano, indubitabilmente antico e ammirevole mosaico di opinioni e di gruppi sociali. Perché ormai nel mondo la forza del peggiore è fortissima: Ahmadinejad trionfa perché, come ho letto in molti virgolettati degli elettori, “ha saputo riportare l’Iran alle gloria del mondo” oppure “ha messo in ginocchio l’Occidente” oppure “ha piegato il potere globale degli americani ed Israele”. Non sono chiacchiere: la piramide occidentale dei diritti umani ha subito in questi anni, di fronte all’integralismo islamico, una flessione concettuale enorme. Il discorso mondiale si è incarognito e si è sgrammaticato al punto che l’Assemblea generale dell’Onu elegge presidente Ali Treki, ministro libico degli Esteri al tempo in cui gli uomini protetti da Gheddafi facevano saltare per aria sinagoghe, aerei e discoteche. Prima di lui è stato presidente il nicaraguense Miguel d’Escoto, contraddistintosi per un grande abbraccio a Ahmadinejad alla fine di un suo discorso in assemblea. Vicepresidente di Treki è un sudanese, rappresentante di un Paese presieduto dal sanguinario Bashir, su cui pesa l’accusa di genocidio e che rivendica pubblicamente il diritto della Sharia a tagliare mani e piedi. Il siriano Bashar Assad inaugurò uno stile dicendo accanto a Papa Giovanni Paolo II, che rimase basito, che gli ebrei torturavano i palestinesi come avevano torturato Gesù. Il livello è questo, e noi li stiamo a sentire. Hassan Nasrallah, con cui l’Inghilterra vuole stabilire rapporti diplomatici e che il neoprimo ministro libanese Hariri seguita a tenere buono con promesse di lasciargli le armi e non fare la pace con Israele, in manifestazioni di massa chiama Israele con i nomi di tutti gli animali più schifosi e gli promette morte. Hamas tiene recite davanti a piazze enormi in cui fa ridere i bambini mostrando una caricatura delle sofferenze dell’ostaggio israeliano Gilad Shalit. Le folle islamiche ormai, checché ne pensi Obama, sono molto sensibili al pensiero di umiliare l’Occidente, e si può temere che sia anche da ascrivere a questo, oltre ai fattori che elencavamo poc’anzi, la vittoria di massa di Ahmadinejad. Dominare, costringere i cristiani e gli ebrei a piegarsi, piace ai dittatori come Bashar Assad di Siria, come Bashir, e anche come il venezuelano Ugo Chavez o il "caro leader" nordcoreano Kim Jong Il. Piace agli hezbollah, a Hamas, che a sua volta ha usato lo strumento delle elezioni per stabilire una dittatura; e abbiamo visto che piace anche a Gheddafi, che con i suoi ritardi e i suoi discorsi profetico-furbeschi ha cambiato la grammatica del consueto, ragionevole e anche cortese discorso politico cui siamo, o dovremmo essere, adusi. Piace a gran parte delle folle delirare con vittimismo e onnipotenza. Ahmadinejad, dopo il discorso dell’Onu del 2005 in cui di nuovo prometteva morte a Israele, intimava a Bush di convertirsi, negava la Shoah, disse che aveva chiaramente avvertito il crearsi di un alone di luce intorno al suo corpo, e che aveva anche notato che uno dei delegati lo aveva guardato fisso per 27-28 minuti senza mai battere le ciglia. Adesso noi dovremo guardarlo fisso per altri quattro anni, e sarà meglio che ci svegliamo dallo sbigottimento che dà il cercare di comunicare con uno, dieci, centomila personaggi confusi, scriteriati, violenti e determinati al nostro male. Sbattiamo le ciglia prego.
www.fiammanirenstein.com

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Le spine di Obama. Corea e Iran alleati "

L’ombra dei brogli sul voto iraniano e le minacce nucleari della Corea del Nord spingono la Casa Bianca verso la revisione dell’approccio finora avuto con i due Paesi, basato soprattutto su offerte di dialogo. I disordini in piazza a Teheran e la prospettiva di nuovi test nucleari da parte di Pyongyang indeboliscono le prospettive di compromesso con Mahmud Ahmadinejad e Kim Jong Il, aprendo scenari diversi. A svelare cosa bolle in pentola a Washington solo le analisi del Center for New American Security, il centro studi creato nel 2007 che annovera molti cervelli dell’amministrazione: da Michele Flournoy, vicecapo del Pentagono, a Kurt Campbell, braccio destro di Hillary Clinton al Dipartimento di Stato sull’Estremo Oriente, da Dennis Blair, l’ex ammiraglio divenuto direttore nazionale dell’intelligence, a John Podesta, clintoniano ex capo del team di transizione di Obama.
Si tratta di documenti redatti negli ultimi giorni che suggeriscono a Obama di cercare «strade diverse» dalle semplici aperture politiche. Sulla Corea del Nord il rapporto intitolato «Niente illusioni, riguadagnare l’iniziativa strategica sulla Corea del Nord», parte dalla premessa che «Pyongyang ha intrapreso la strada del confronto nonostante gli accordi firmati con Clinton e Bush ed abdicando agli impegni sottoscritti con la comunità internazionale». Da qui il suggerimento alla Casa Bianca di «non farsi illusioni» sul tavolo del negoziato multilaterale a sei - Usa, Russia, Cina, Giappone e le due Coree - perché «il turbolento ciclo della trattativa sulla denuclearizzazione mette gli Stati Uniti e la comunità internazionale in posizione svantaggiosa» attraverso «una dinamica sempre più insostenibile». Ciò che serve è un cambio di marcia: «L’amministrazione Obama deve perseguire un approccio nuovo, riguadagnando l’iniziativa e difendendo i nostri alleati dalle provocazioni nordcoreane».
È questo «working paper» che ha ispirato le più recenti mosse di Obama: prima i duri moniti del capo del Pentagono Robert Gates a Pyongyang e poi la risoluzione dell’Onu, concordata con Pechino e Mosca, che autorizza le ispezioni di navi e aerei «sospettati di avere a bordo armi proibite» dirette o provenienti dalla Corea del Nord.
Simile l’approccio all’Iran, perché un team di esperti che include Dennis Ross e Vali Nars - i titolari del dossier iraniano che lavorano rispettivamente a fianco di Hillary Clinton e Richard Holbrooke - ha redatto uno studio per il Center for New American Security nel quale discutendo le varie opzioni strategiche a disposizione dell’amministrazione si finisce per suggerire una «game-changing diplomacy» che vada oltre gli attuali tentativi di negoziato con Teheran da parte del gruppo di contatto composto da Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania. «Bisogna migliorare le prospettive della situazione indipendentemente dalle risposte che vengono dall’Iran» osserva lo studio del think thank, facendo capire che non c’è molto da attendersi da Teheran dopo che il presidente Ahmadinejad ha definito il programma nuclare «una questione chiusa», togliendo dal tavolo l’ipotesi della sospensione.
Se l’opzione «non solo dialogo» si affaccia sulla scrivania di Obama è anche perché dagli ambienti d’intelligence rimbalza il timore che i programmi nucleari e missilistici di Teheran e Pyongyang siano collegati fra loro, al fine di accelerare il raggiungimento dell’obiettivo più ambito da entrambi: un missile intercontinentale dotato di testata atomica col quale poter ricattare gli Usa. A suggerire questo scenario è la lettura comparata dei recenti test missilistici nei due Paesi - ad esempio la Corea ha fatto progressi dopo il successo iraniano nel lancio di un satellite - come anche i frequenti scambi di visite di tecnici e scienziati nei siti nucleari.

CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " Ma il vero sconfitto è Obama "

La speranza di una primavera iraniana è durata poco, quanto durano i sogni. E la vittoria di Mah­moud Ahmadinejad, malgrado la delusione e l’inedi­ta protesta antibrogli dei giovani di Teheran, promet­te ora di modificare in profondità l’infuocato panora­ma mediorientale. Per cominciare è opportuno, ora che conosciamo il nome del vincitore, identificare quel­lo del vero perdente. Che non si chiama Hossein Mousavi, bensì Barack Obama. Il presi­dente statunitense, con una scelta a nostro avviso giusta do­po il troppo tempo perso dal­l’incomunicabilità bushiana, ha offerto a Teheran un dialo­go senza precondizioni finaliz­zato al superamento della que­stione nucleare. Il messaggio è stato indirizzato al presidente in carica Ahmadinejad e alla «guida suprema» Khamenei. Ma è evidente che la Casa Bian­ca, pur facendo attenzione a non interferire nella vicenda elettorale iraniana, sperava che dalle urne uscisse un segno di discontinuità.
Sperava di avere per contro­parte una persona diversa da Ahmadinejad, magari dura, ma­gari anch’essa favorevole al pro­getto nucleare, ma non mac­chiata dalla negazione dell’Olo­causto e dalle minacce all’esi­stenza dello Stato di Israele. Una persona con la quale fosse più agevole, anche e soprattut­to sul fronte interno america­no, avviare il negoziato appena messo in cantiere. Ora questa speranza è svanita, e se anche Ahmadinejad fosse colto da un improvviso soprassalto di mo­derazione (il che non è probabi­le) il confronto politico con lui appare destinato ad avere vita difficilissima.
Così, reale o truccato che sia, il verdetto elettorale iraniano ha le potenzialità necessarie per mettere in crisi il più ambi­zioso e il più coraggioso dei progetti espressi dalla nuova politica estera di Washington.
Perdenti sono anche, in pie­no contrasto con la soddisfazio­ne di Hamas e di Hezbollah, gli Stati arabi sunniti. Dall’Egitto all’Arabia Saudita costoro non hanno mai nascosto i loro timo­ri verso la crescente potenza e influenza dell’Iran sciita, e nel­la loro ottica un cambio della guardia a Teheran sarebbe sta­to, se non una polizza di assicu­razione, almeno un forte moti­vo di sollievo. Con Ahmadi­nejad confermato, invece, le pa­ure sono destinate a crescere soprattutto nella cruciale area del Golfo. E non si può esclude­re che esse si traducano in una
catastrofica quanto incontrolla­bile proliferazione nucleare.
Poi c’è Israele. Comprensibil­mente preoccupato dalle impli­cazioni minacciose del respon­so di Teheran, ma non sconfit­to. Tutt’altro.
Gerusalemme ha sempre considerato il dialogo con Teheran una pericolosa opera­zione di facciata. Non ha mai creduto che un progetto nazio­nale strategico come quello nu­cleare
potesse dipendere dalla personalità del presidente ira­niano. Non ha mai pensato che si tratti di un programma civile e pacifico, come sostiene an­che Ahmadinejad. Ha invece sempre insistito sul fatto che la minaccia iraniana, intollerabi­le per Israele, riguarda il mon­do intero. Ha messo in conto una certa tensione con il gran­de alleato americano pur di af­fermare che la questione irania­na viene prima di quella palesti­nese e che Teheran va fermata per tempo, con ogni mezzo ne­cessario.
Ebbene, la conferma di Mah­moud Ahmadinejad sembra fat­ta su misura per rafforzare le ar­gomentazioni israeliane pro­prio mentre indebolisce quelle di Obama. Anche nell’ipotesi futuribile ma non irrealistica di un ricorso alla forza contro le centrali iraniane, Israele potrà contare sulla complicità ogget­tiva che più gli serve: quella di Ahmadinejad e della sua conti­nuamente ribadita strategia della tensione.
Quali seguiti avrà in Iran la protesta senza paura delle po­polazioni urbane meno disere­date? Cosa resterà della stagio­ne polemica e dunque liberta­ria che la società iraniana ha co­nosciuto durante la campagna elettorale? Fino a che punto l’uomo forte Alì Khamenei vor­rà tener a freno Ahmadinejad o imporgli una linea diversa? So­no, questi, interrogativi ai qua­li da domani bisognerà cercare risposta. Quel che sappiamo sin da oggi è che le urne irania­ne, invece di avvicinare una prospettiva di pace, l’hanno al­lontanata.

La REPUBBLICA - Bernardo Valli : " Il colpo di mano del regime di Teheran "

Le elezioni iraniane, ritmate da dibattiti vivaci, appassionati, animate da una partecipazione popolare spontanea, insolita in un regime autoritario, si sono concluse con un voto che assomiglia a un colpo di mano. Se non proprio a un «colpo di Stato», come dicono i manifestanti riversatisi nelle piazze di Teheran per denunciare i risultati ufficiali. I quali danno il conservatore Mahmud Ahmadinejad riconfermato alla presidenza della Repubblica, già al primo turno (con più del 63 % dei suffragi).
Nella notte di venerdì, il riformatore Mir Hussein Moussavi (al quale viene attribuito un modesto, umiliante quoziente, sotto il 34%), basandosi sui dati in suo possesso, si era dichiarato vincente. Ne era convinto. Poteva giurarlo.
Per lui e per i suoi sostenitori l´esito dello scrutinio reso pubblico nel mattino «è un tradimento del voto popolare». Il risultato ufficiale può essere stato truccato, corretto, gonfiato, per impedire anzitutto un ballottaggio che avrebbe tenuto il paese in una pericolosa agitazione ancora per parecchi giorni. La situazione, creata dalle manifestazioni in cui si invocava più libertà, più democrazia, poteva sfuggire di mano. Ma non è escluso che gli scrutatori abbiano soltanto reso più vistoso il successo di Ahmadinejad. La cui riconferma sarebbe stata comunque garantita dal sostegno delle classi meno abbienti, relegate nell´Iran profondo, isolato rispetto a una società sempre più moderna e raccolta nei centri urbani, e dalla mobilitazione del potente e numeroso apparato religioso e militare (dalle moschee, ai Guardiani della Rivoluzione, alle milizie Basiji, ai servizi segreti, responsabili della morale islamica) .
Ahmadinejad ha avuto, in sostanza, il voto decisivo della Guida suprema, l´ayatollah Ali Khamenei, che esercita un potere assoluto o un´influenza indiscussa su quel mondo. Il suo voto, in senso lato, è quello che conta in un regime teocratico, basato sul « primato dei teologi», interpreti della sharia. La Guida suprema è la massima autorità collocata al di sopra della società politica, in tutte le sue espressioni, dal governo al Parlamento. Khamenei ha definito «una vera festa» la rielezione di Ahmadinejad. Un modo come un altro per annunciare la fine della festa elettorale, e il ritorno alla realtà, all´ordine: a un paese governato dall´uomo che ai suoi occhi è il più fedele interprete dei principi della Repubblica islamica in questa fase politica interna e internazionale. Ed è quindi con lui che gli iraniani e il resto del mondo, compresa l´America di Barack Obama, incluso l´Israele di Benjamin Netanyahu, avranno a che fare. In sostanza Khamenei ha fatto sapere che nulla è cambiato, poiché lui, la Guida suprema, e i vari interpreti delle leggi islamiche, continueranno a prendere le vere decisioni. Al momento Ahmadinejad è il suo strumento preferito.
Per Khamenei, e le forze clericali più conservatrici, la vittoria di Moussavi avrebbe impegnato l´Iran in riforme destinate a creare instabilità all´interno. E questo proprio nel momento in cui la Repubblica islamica deve reagire alla mano tesa di Barack Obama, e offrire al mondo sospettoso, ostile, l´immagine di una nazione compatta. E non troppo condiscendente, altrimenti la Repubblica islamica perderebbe la propria identità. Una visione teologica, dogmatica, venata d´orgoglio e di nazionalismo, può essere l´opposto di una visione razionale. Slitta facilmente nel fanatismo e in un indecifrabile tumulto mentale.
L´avvento di Moussavi alla presidenza della Repubblica poteva apparire come un segno di debolezza, anche se il candidato riformatore è un deciso nazionalista. La riconferma di Ahmadinejad dà un segnale opposto. Significa la continuità. La fermezza, giudicata indispensabile, all´avvio di un eventuale negoziato. Anche se nel secondo mandato il rozzo, antisemita presidente dovrà dosare o rinunciare ai suoi attacchi all´America e a Israele. Dovrà adeguarsi alle direttive della Guida suprema, cui spetta di gestire i rapporti internazionali. Insomma Ahmadinejad numero 2 dovrebbe essere più presentabile di Ahmadinejad numero 1. Quel che è in gioco, nei prossimi mesi, è il destino della Repubblica islamica: non tanto la sua sopravvivenza, ma il suo ulteriore isolamento, appesantito dal rischio di più gravi sanzioni. Né si possono escludere azioni militari contro i suoi centri nucleari. Ma il potere clericale è come colto da un crampo: esita a socchiudere le porte, e ad allentare i controlli su una società che dà evidenti segni di impazienza.
Tenendo conto della natura del regime iraniano, Barack Obama si è ben guardato dall´interferire nella campagna elettorale. Non a caso, appena conosciuto il risultato, i primi commenti di Washington sono stati estremamente prudenti. La mano americana resta aperta, e vale sempre la proposta di un «nuovo inizio» lanciata da Obama al mondo islamico. Non importa chi sia stato eletto a Teheran.
Ma è evidente che la permanenza di Ahmadinejad a capo dell´esecutivo, sia pure in una posizione subalterna a Khamenei, cambia molte cose. Allunga i tempi e rischia di ridurre lo spazio dell´azione diplomatica americana. Mette in allarme i governi sunniti, dall´Arabia Saudita all´Egitto, preoccupati di un Iran sciita dotato di un´energia nucleare, che domani potrebbe essere militare, e quindi tentati di fare altrettanto. Ridimensiona la speranza americana di una sollecita collaborazione iraniana nel conflitto afghano, contro i talebani, sunniti fanatici. Ringagliardisce gli hezbollah libanesi appena sconfitti alle elezioni. E dà fiato all´ala intransigente di Hamas in Palestina. Almeno per il momento, il voto di Teheran non allarga gli spiragli dischiusi in Medio Oriente dal discorso rivolto da Barack Obama all´Islam.
Per la sua immagine e il suo passato, Ahmadinejad resta l´interlocutore meno gradito. E meno affidabile in un negoziato che deve affrontare un problema cruciale, quale è il nucleare. Il fatto che Khamenei l´abbia scelto non è di buon auspicio. E´ difficile negarlo, pur considerando le recondite intenzioni della Guida suprema.
La reazione israeliana, come era prevedibile, è stata meno cauta di quella americana. La rielezione di Ahmadinejad rafforza la posizione di Benjamin Netanyahu, secondo la quale la questione nucleare iraniana è il principale problema mediorientale, di gran lunga più urgente della questione palestinese. Nel discorso che dovrebbe pronunciare oggi, in risposta ai propositi tenuti da Obama, il primo ministro israeliano potrà presentare il risultato elettorale iraniano come un valido motivo per dare la precedenza alla minaccia nucleare di Teheran, e trascurare l´obiettivo di uno Stato palestinese, indicato con fermezza dal presidente americano. Il ministro degli Esteri, il falco Lieberman, si è affrettato a dire che le ambizioni atomiche iraniane restano, chiunque sia il presidente eletto. I piani militari tesi a preparare un´operazione contro le centrali nucleari della Repubblica islamica non rischiano di essere archiviati.

Il MANIFESTO - Michele Giorgio : "  Netanyahu ora ha fretta: fermiamo l’atomica sciita"

Giorgio scrive che la riconferma di Ahmadinejad come presidente dell'Iran "  rende più semplice convincere la comunità internazionale della «inevitabilità » di un attacco militare contro le centrali atomiche iraniane ". Se a vincere le elezioni fosse stato il "riformista" Moussavi, il programma nucleare non sarebbe stato modificato nè bloccato. Contrariamente a ciò che pensa Michele Giorgio, l'Iran e il suo programma nucleare sono un pericolo reale sia per Israele sia per l'occidente. Israele non si rallegra dell'elezione di Ahmadinejad perchè così ha una "scusa" per bombardare l'Iran, ma prende pragmaticamente atto che, almeno, in questo modo l'obiettivo del regime iraniano sarà palese per tutti: distruggere Israele prima, l'occidente poi.
Forse a Giorgio sfugge, ma non è Israele ad essere una minaccia per l'Iran. Il contrario. 
Poi Giorgio si focalizza sul discorso che Netanyahu terrà oggi al BESA Center. A suo avviso le richieste di Netanyahu per la pace con i palestinesi sono inaccettabili : " 
Netanyahu insisterà sulla lotta dei palestinesi al «terrorismo» prima di qualsiasi accordo, quindi su di un’Anp impegnata a dare la caccia ai militanti di Hamas ". Quello che fa Hamas è terrorismo. Le virgolette messe da Giorgio sono fuori luogo, ma non ci stupiamo visto il modo in cui definisce i terroristi di Hamas (per lui sono militanti). Israele non si oppone alla nascita dello Stato palestinese. Le responsabilità per la situazione dei palestinesi sono da attribuire ai paesi arabi e ai terroristi di Hamas ed Hezbollah. Ma a Giorgio interessa la propaganda antiisraeliana più che la verità.
Ecco l'articolo:

Nessun esponente del governo israeliano lo ammetterà mai in pubblico, ma la riconferma alla presidenza dell’Iran di Mahmoud Ahmadinejad non dispiace all’establishment dello Stato ebraico. L’«Hitler di Tehran» resta al suo posto e questo rende più semplice convincere la comunità internazionale della «inevitabilità » di un attacco militare contro le centrali atomiche iraniane. Al contrario la vittoria del conservatore moderato Mir Hossein Mussavi avrebbe favorito una maggiore apertura internazionale nei confronti della repubblica islamica complicando non poco la politica estera di Tel Aviv volta a descrivere un Iran sul punto di dotarsi dell’arma atomica e pronto a distruggere Israele. L’esito delle elezioni iraniane «sta esplodendo in faccia a chi pensava che l’Iran fosse pronto al dialogo con il mondo libero», ha ironizzato il vicepremier Silvan Shalom, riferendosi all’alleato americano Barack Obama, intenzionato a costruire un nuovo rapporto con Tehran dopo 30 anni di gelo. «Gli Stati Uniti e il mondo - ha aggiunto Shalom - dovrebbero riesaminare la loro politica verso l’Iran e i suoi programmi nucleari». Il ministro degli esteri Avigdor Lieberman ha tuonato: «La comunità internazionale deve continuare a lavorare senza compromessi per evitare che l’Iran si doti dell’atomica e bloccare gli aiuti che (Tehran) fornisce alle organizzazioni terroristiche». Sulla stessa lunghezza d’onda i commenti del vice ministro Dany Ayalon. «Non ci siamo mai fatti illusioni - ha detto - poiché fra i candidati iraniani (alla presidenza) non c’erano differenze sostanziali, tanto sul dossier atomico quanto sul sostegno iraniano al terrorismo ». In ogni caso, ha aggiunto, «se anche ci fosse stata un’ombra di speranza, la rielezione di Ahmadinejad è giunta a dimostrare una volta di più la crescente minaccia rappresentata dall'Iran». È perciò prevedibile che la parte più rilevante del discorso che questa sera il premier Benyamin Netanyahu pronuncerà all’Università Bar Ilan (Tel Aviv) verrà dedicata proprio all’Iran. Per Netanyahu, che nei mesi scorsi ha in più di una occasione minacciato un attacco militare contro le centrali di Teheran, la riconferma al potere del presidente MahmudA madinejad rappresenta una sorta di «via libera » all’azione di forza. Ciò che Netanyahu dirà in risposta al discorso tenuto il 4 giugno al Cairo da Obama, è già stato anticipato dai media israeliani: rifiuto del blocco totale richiesto daWashington alla colonizzazione ebraica della Cisgiordania; vaghi riferimenti alla soluzione dei «due Stati» e alla nascita di uno staterello palestinese condizionata però al riconoscimento del carattere ebraico di Israele; accettazione della Road Map, peraltro già avvenuta dopo le elezioni dello scorso febbraio. Il tutto avvolto in dichiarazioni di buoni propositi rivolte a palestinesi e mondo arabo. In definitivaNetanyahu, forte del sostegno del 56% degli israeliani, dirà con toni morbidi, conditi con parole di amicizia, un bel no alle «intimazioni » dell’Amministrazione Usa. Eppure la destra teme un «voltafaccia pacifista » di Netanyahu simile a quello che - secondo i nazionalisti contrari a restituzioni territoriali ai palestinesi - fece nel 2005 l’ex premier Ariel Sharon ritirando coloni e soldati da Gaza. Ha provato a tranquillizzare tutti Zevulun Orlev, leader del partito ultranazionalista Habayit Hayehudi, che dopo aver incontrato il premier ha riferito che non verranno annunciate svolte clamorose nel programma di politica estera. Il discorso di Netanyahu, anticipava qualche giorno fa il quotidiano Ha’aretz, girerà intorno alla Road Map, piano che fissa un percorso a tappe per israeliani e palestinesi, per giungere alla costituzione di uno Stato palestinese. Netanyahu proverà a lanciare la palla nell’altra metà campo presentando le sue condizioni per l'attuazione dell’«itinerario di pace»: la principale è il riconoscimento da parte palestinese di Israele come Stato degli ebrei. Il presidente dell’Anp, Abu Mazen, ha già detto di non avere alcuna intenzione di accogliere questa condizione che, peraltro, Israele non presentò ad Egitto e Giordania prima della firma dei trattati di pace. Abu Mazen inoltre non può non tenere conto che il 20% della popolazione di Israele è composta da palestinesi (i cosiddetti arabo israeliani). Netanyahu insisterà sulla lotta dei palestinesi al «terrorismo» prima di qualsiasi accordo, quindi su di un’Anp impegnata a dare la caccia ai militanti di Hamas (già in corso in Cisgiordania). La «sorpresa» potrebbe venire da un annuncio da parte del primo ministro dell’accettazione della nascita di uno Stato palestinese con confini «mobili», provvisori. L’ipotesi però viene respinta categoricamente dall’Anp. «Non accetteremo mai uno Stato con confini temporanei», ha avvertito ieri il caponegoziatore palestinese Saeb Erekat.

ANSA - Alessandro Logroscino : " Israele coglie assist, macche' dialogo "

Logroscino scrive : " L'esito delle elezioni iraniane "sta esplodendo in faccia a chi pensava che l'Iran fosse pronto al dialogo con il mondo libero", ha tagliato corto fra i primi il vicepremier Silvan Shalom (...) Parole irrituali e insolitamente velenose verso l'alleato americano ". Più che parole irrituali e velenose, sono un'analisi pragmatica della realtà. L'Iran non è mai stato interessato al dialogo con l'occidente e gli Stati Uniti. L'esito delle elezioni e le dichiarazioni dell'ayatollah Khamenei lo confermano.
Poi si legge : "
Ayalon ha ammesso che il governo di cui fa parte non avrebbe concesso un giudizio positivo neppure in caso di vittoria del conservatore moderato Mir Hossein Mussavi. "Non ci siamo mai fatti illusioni - ha argomentato - poiché fra i candidati non c'erano differenze sostanziali": tanto sul dossier atomico quanto "sul sostegno iraniano al terrorismo" (capitolo nel quale Israele inserisce gli aiuti agli sciiti di Hezbollah nel Libano e ai radicali islamici palestinesi di Hamas nella Striscia di Gaza).". Hezbollah è un partito terrorista, non un semplice movimento sciita. Le posizioni dei suoi leader riguardo ad Israele sono chiare ed esplicite: distruggere lo Stato ebraico. Non sono diversi dai terroristi di Hamas. E non è un segreto che l'Iran finanzi Hezbollah.
Ecco l'articolo:

 

TEL AVIV  - Convinto sin dalla vigilia che un ipotetico cambio della guardia al vertice dall'Iran sarebbe stato solo una subdola operazione di facciata, Israele ha colto oggi al balzo la palla della conferma dell'oltranzista Mahmud Ahmadinejad, suo nemico pubblico numero 1, per rilanciare l'allarme sui temuti piani nucleari del regime degli ayatollah. Ma soprattutto per rivolgere un messaggio polemico alla comunità internazionale e ai fautori del dialogo diplomatico con Teheran: primo fra tutti il presidente Usa, Barack Obama, chiamato in causa da fonti governative con riferimenti fin troppo chiari da decifrare. I commenti, nonostante il riposo di rito del sabato, non si sono fatti attendere.
L'esito delle elezioni iraniane "sta esplodendo in faccia a chi pensava che l'Iran fosse pronto al dialogo con il mondo libero", ha tagliato corto fra i primi il vicepremier Silvan Shalom, uomo della destra moderata in seno al Likud, il partito del primo ministro, Benyamin Netanyahu. Parole irrituali e insolitamente velenose verso l'alleato americano se si considera che a evocare il dialogo, in questi mesi, è stata proprio la nuova amministrazione di Washington. Shalom non ha menzionato direttamente Obama, né gli spiragli negoziali ai quali Israele vorrebbe imporre precisi limiti di tempo. Ma ha sentenziato fuori dai denti che, a questo punto, "gli Stati Uniti e il mondo dovrebbero riesaminare la loro politica verso l'Iran e i suoi programmi nucleari". Non diversa l'ottica del viceministro degli Esteri (ed ex ambasciatore negli Usa), Dany Ayalon, secondo il quale la comunità internazionale, preso atto del consenso popolare consegnato dalle urne ad Ahmadinejad, non può non intensificare la sua azione per far fronte "immediatamente" a quella che Netanyahu reputa "una minaccia all'esistenza" stessa di Israele: vale a dire la corsa di Teheran verso il nucleare. Ayalon ha ammesso che il governo di cui fa parte non avrebbe concesso un giudizio positivo neppure in caso di vittoria del conservatore moderato Mir Hossein Mussavi. "Non ci siamo mai fatti illusioni - ha argomentato - poiché fra i candidati non c'erano differenze sostanziali": tanto sul dossier atomico quanto "sul sostegno iraniano al terrorismo" (capitolo nel quale Israele inserisce gli aiuti agli sciiti di Hezbollah nel Libano e ai radicali islamici palestinesi di Hamas nella Striscia di Gaza). In ogni caso - ha ripreso - "se anche ci fosse stata un'ombra di speranza, la rielezione di Ahmadinejad é giunta a dimostrare una volta di più la crescente minaccia rappresentata dal'Iran".
Il responso delle urne induce del resto preoccupazioni anche in quelle rare voci che nell'establishment d'Israele danno credito alla strategia di Obama e che in un successo di Mussavi qualche speranza l'avevano riposta. Come l'ex capo del Mossad Efraim Halevi. O come Zvi Barel, analista liberal di Haaretz, il quale afferma di temere adesso - sull'onda della "valanga elettorale" - un Ahmadinejad "più baldanzoso e meno disposto che mai a cambiare politica di fronte agli Usa". Una baldanza già condivisa a Gaza in queste ore da Fawzi Barhum, portavoce di Hamas, secondo cui i Paesi occidentali farebbero bene, in barba alle contestazioni, a "rispettare il risultato elettorale iraniano" ufficiale. Mentre ai palestinesi - almeno a quelli della sua fazione - non resta che attendersi il "sostegno inalterato" di Teheran.

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