Domani, 14 giugno, al Centro BESA presso l'Univeristà Bar Ilan, Bibi Netanyahu, come avevamo anticipato ieri, terrà un intervento che viene considerato la risposta ufficiale a quello di Obama al Cairo. Riprendiamo l'analisi del FOGLIO di oggi, 13/06/2009, a pag.3., nella quale viene citato David Grossman quale consigliere nella stesura del testo. Se è vera, la notizia ha del sorprendente. Per questo ci sembra interessante far seguire l'articolo di David Grossman, ripreso da REPUBBLICA di oggi a pag.37. Che però fa parte di un volume di prossima pubblicazione, non è quindi stato scritto in questi giorni, Contiene in ogni caso le opinioni dello scrittore sul che fare in merito al conflitto mediorientale.
Il Foglio- " Domani Netanyahu dice sì ai due stati, ma a due condizioni "

Gerusalemme. Dopo due mesi e mezzo di congetture al buio da parte degli editorialisti e di politiche attribuite e criticate in anticipo, domani Benjamin Netanyahu comincia effettivamente il suo mandato di primo ministro. Pronuncerà un discorso all’Università Bar Ilan di Gerusalemme – limato anche con l’aiuto degli scrittori David Grossman e Eyal Meged – sulla linea che intende seguire in politica estera. Affronterà le questioni più attese: il futuro di Israele, la pace con i palestinesi. Tutti gli osservatori considerano quello di Netanyahu la replica di Israele a The Speech, il discorso del 4 giugno scorso del presidente Barack Obama al Cairo. L’apertura al mondo islamico e il nuovo atteggiamento della Casa Bianca – che chiede il congelamento dell’espansione dei settlement in Cisgiordania – stanno creando tensione tra i due paesi alleati. Domani con tempismo studiato, subito dopo il premier israeliano, da Damasco, dove agisce con la protezione del regime siriano, parlerà anche il leader di Hamas Khaled Meshaal. Anche il suo sarà un discorso di risposta a Obama, per capitalizzare il nuovo momento – almeno sembra – di apertura nei rapporti. Secondo fonti a lui vicine, Netanyahu parlerà di soluzione “a due stati”, ma soggetta a condizioni. Il riconoscimento da parte dei palestinesi di Israele come patria degli ebrei e anche uno stato palestinese “demilitarizzato”, senza forze armate. Entrambe le richieste del premier israeliano cadono – dal punto di vista arabo – oltre la linea delle concessioni non immediate, per non dire irrealistiche. Il riconoscimento di Israele come patria degli ebrei spazzerebbe via in un solo colpo sessant’anni di narrativa palestinese, dove la nascita stessa di Israele è una calamità, conosciuta in arabo come la nabqa, la “catastrofe”. Anche la richiesta di uno stato demilitarizzato è una limitazione già alla nascita della sovranità palestinese: ma Gerusalemme non intende convivere con uno stato ostile alle porte, come oggi già fa nel sud del paese, alla frontiera con la striscia di Gaza. Anche se alcuni editorialisti avvertono: non è detto che senza un esercito regolare un nuovo stato palestinese sia meno pericoloso, e non invece preda di bande di estremisti incontrollabili. Secondo gli osservatori, Netanyahu porrà condizioni multiple per negoziare meglio: su alcune sarà disposto a cedere – come il riconoscimento simbolico della patria ebrea – altre le considera non-negoziabili – come è il caso dello status “demilitarizzato”. Tra le cose che il primo ministro non annuncerà, secondo le fonti, c’è il congelamento dell’espansione dei settlement in Cisgiordania. Due giorni fa l’incontro con l’inviato speciale dell’Amministrazione Obama, George Mitchell, s’è trasformato in una riunione del catasto: alla ricerca di un compromesso, le due delegazioni hanno fatto distinzioni tra i nuovi edifici, costruiti da zero, quelli vecchi estesi con aggiunte e quelli costruiti eventualmente dentro il perimetro già definito del settlement. Ieri, ultimo giorno a disposizione prima dello shabbath, il premier ha incontrato i partner della destra religiosa in coalizione con il suo Likud, per rassicurarli su quello che dirà domani. Il presidente di Habayith Hayehudi, Zevulun Orlev, dice di essere uscito dal meeting “più sollevato rispetto a quando sono entrato”. Il discorso non provocherà “un terremoto”. Il capo del partito Shas e ministro dell’Interno, Eli Yishai, è uscito da un incontro separato con sensazioni simili: “E’ importante proteggere la crescita naturale demografica in Giudea e Samaria, senza perà andare allo scontro con gli Stati Uniti”. Anche il presidente Shimon Peres e il ministro laburista della Difesa, Ehud Barak, liasion semiufficiale con la Casa Bianca, tentano di influenzare il primo ministro e parlano entrambi del riconoscimento necessario di uno stato palestinese con confini provvisori, da trasformare poi in un secondo tempo in definitivi.
La Repubblica- David Grossman: " Il Medio Oriente che verrà "

Il noto studioso di Qabbalà Gershom Sholem coniò una volta il detto «Tutto il sangue va alla ferita». Mi sembra che non ci sia descrizione più azzeccata per il prezzo che il conflitto in Medio Oriente pretende dalle sue vittime. Tutto il nostro sangue, quello israeliano e quello palestinese, da più di un secolo va alla ferita aperta tra noi e, sgorgandone, dissangua le vite di giovani che si combattono l´un l´altro, di coloro che vivono nella paura e nella disperazione, nonché le risorse economiche, sociali e creative dei popoli in lotta, i loro tesori materiali e spirituali. Tutto il sangue va alla ferita. Moltissimi, in entrambi i popoli, non riescono più a credere che un giorno, in futuro, li attenda una qualsivoglia possibilità di vivere in pace. Nel popolo davanti a loro vedono un male esistenziale pressoché disumano nella sua crudeltà. Sempre più, nella coscienza israeliana e in quella palestinese, il conflitto si configura in termini assoluti e apocalittici. Nella bolla ermetica in cui palestinesi e israeliani sono intrappolati prevale quasi esclusivamente la logica della paura e dell´odio secondo la quale ogni contendente ha giustificazioni e argomenti persuasivi per qualsiasi azione infame compiuta verso la controparte e, a causa di questa logica, entrambe le parti soffocano lì insieme, nella bolla.
Come venirne fuori? Come indurre i membri di queste due società tormentate e spaventate a superare gli istinti di ostilità e di diffidenza sviluppatisi e raffinatisi nel corso di cento anni di guerra? Come si può convincere gli abitanti di questa sciagurata regione che nessun comando supremo, divino, li condanna a vivere con la spada in mano per l´eternità, a uccidere e a essere uccisi senza scopo e senza fine? Come elevarsi al di sopra della sofferenza, delle ferite sanguinanti, dell´offesa profonda, del fatto che ormai da cento anni dilapidiamo così le nostre vite in Israele e in Palestina?
Temo che con le nostre sole forze, ormai, non potremo più farcela. Duole ammetterlo, ma ho la sensazione che dopo decine di anni di guerra qualcosa di profondo e di fondamentale si sia deformato in questi due popoli, indubbiamente dotati di molteplici e straordinarie qualità ma, al momento, molto malati. Entrambi. Malgrado sappiano cosa si debba fare per guarire, non sono in grado di farlo.
Se oggi esiste una qualche speranza per loro questa è da ricercarsi nel nuovo vento che comincia, forse, a soffiare sul mondo e che proviene da Washington.
Agli occhi di molti il presidente Obama si profila come un leader – e un uomo – che predilige il dialogo alla forza e, attualmente, è in grado di promuovere nella coscienza mondiale l´opzione del dialogo, dell´ascolto reciproco, della disponibilità e del coraggio a esporsi al punto di vista dell´altro, persino a quello del nemico. In Medio Oriente, si sa, questa è un´opzione molto labile, non ha numerosi precedenti e, per il momento, neppure abbastanza sostenitori. Non è dato sapere quale atteggiamento Obama adotterà verso il conflitto mediorientale ma, per lo meno, il suo punto di partenza è eccellente. L´essere discendente di due razze diverse gli concede una naturale capacità di visione bifocale. Da come si è espresso finora ho l´impressione che capisca benissimo che non si possa guardare il conflitto arabo-israeliano in maniera piatta, ristretta, dividendo rozzamente il mondo in «buoni» e in «appartenenti all´asse del male» come ha fatto il suo predecessore, il presidente Bush. Sembra che il nuovo presidente degli Stati Uniti sappia che chi vuole cambiare sostanzialmente le cose in Medio Oriente è tenuto ad ampliare la propria visuale e ad aprire il cuore alle difficoltà, ai timori e alle aspirazioni di ambo le parti, israeliani e palestinesi. È questo l´approccio che molti in Medio Oriente – e anche in Israele – si augurano che i leader degli stati riuniti oggi adottino. Voi sapete bene che, se ciò non avverrà, entro pochi anni vi ritroverete dinanzi a un Medio Oriente in cui l´Iran, Hezbollah, Hamas e al-Qaeda saranno molto più dominanti di quanto non lo siano oggi. In cui gli stati arabi moderati – l´Egitto, l´Arabia Saudita, la Giordania, l´Autorità palestinese e i principati arabi –, vostri naturali alleati, non riusciranno più ad assicurare regimi stabili e a opporre resistenza all´onda dell´Islam fondamentalista. Sarà un Medio Oriente violento e caotico in cui, di tanto in tanto, divamperanno scontri interislamici e, naturalmente, frequenti guerre tra Israele e i suoi vicini. Guerre che diverranno sempre più violente e brutali e mineranno gradualmente la stabilità di altre regioni del mondo.
Oggi ci troviamo di fronte a una contingenza rara, in cui gli interessi vitali di Israele e quelli degli stati arabi moderati convergono. È questa forse l´ultima occasione per le forze di pace di operare in condizioni di supremazia. La maggior parte degli israeliani e dei palestinesi sanno esattamente cosa si deve fare per risolvere il conflitto ma, come si è detto, non ne sono capaci. Occorre aiutarli. Rimettere in moto il processo di pace, risvegliare dal torpore l´iniziativa araba, neutralizzare la componente di ultimatum e di imposizione verso Israele insita in essa e trasformarla in dialogo. Occorre riprendere il negoziato – avviato con la mediazione della Turchia – tra Israele e la Siria e, naturalmente, quello tra Israele e l´Autorità palestinese. Di pari passo occorre adoperarsi per la riconciliazione delle due fazioni del popolo palestinese perché, senza di essa, non si avrà una pace stabile tra i palestinesi e lo stato ebraico. Per raggiungere questo obiettivo, ovviamente, sarà necessario dialogare anche con Hamas. E sarà altrettanto essenziale avviare dei colloqui diretti con l´Iran sul tema delle armi nucleari e sul suo ruolo di sobillatore in Medio Oriente. Occorre fare pressione, con saggezza e criterio, sulle parti recalcitranti mantenendo un dialogo costante con loro e con i loro timori e traendo razionalmente vantaggio dalla loro grande dipendenza da determinate nazioni in occidente e nel mondo arabo. Occorre assicurare a Israele e ai palestinesi ampi aiuti economici – una sorta di nuovo «Piano Marshall» – per stabilizzare il processo di pace e remunerare chi vi si attiene. Occorre garantire un massiccio intervento di forze internazionali che supervisionino l´attuazione completa e senza compromessi del futuro accordo. Così tante sfide e opportunità attendono la vostra azione risoluta. Oggi avete l´occasione di salvare israeliani e palestinesi dall´abisso in cui cadono insieme, avviluppati in un vortice. L´auspicio è che sappiate essere all´altezza di questo raro momento e far rivivere la speranza che ancora si intravede.
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