Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Non tutti entusiasti di Obama Analisi di Christian Rocca, Marina Valensise, Christopher Hitchens, André Aciman
Testata:Corriere della Sera - Il Foglio Autore: Christian Rocca - Marina Valensise - Christopher Hitchens - André Aciman Titolo: «Il regime change di Obama - L'ottimismo che 'non costa nulla' di Obama - Le parole di Obama sul velo: un favore agli integralisti islamici - The exodus Obama forgot to mention»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 10/06/2009, a pag. III, l'articolo di Christian Rocca dal titolo "Il regime change di Obama " e quello di Marina Valensise dal titolo " L'ottimismo che 'non costa nulla' di Obama ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 41, l'articolo di Christopher Hitchens dal titolo " Le parole di Obama sul velo: un favore agli integralisti islamici ". Pubblichiamo, inoltre, l'articolo di André Aciman, autore di " Ultima notte ad Alessandria " ("Out of Egypt ", biografia della sua famiglia, di origini egiziane), dal titolo " The exodus Obama forgot to mention" che sul NEW YORK TIMES esprime a Barack Obama il senso di critica e frustrazione degli ebrei costretti e lasciare l'Egitto. Ecco gli articoli:
Il FOGLIO - Christian Rocca : " Il regime change di Obama "
Barack Obama ha deciso di cambiare politica sulla Corea del nord, ed è una svolta improvvisa, inattesa e in controtendenza rispetto, per esempio, alla strategia diplomatica nei confronti delle mire nucleari dell’Iran. Obama ha pubblicamente rigettato la linea degli incentivi economici in cambio della sospensione dei programmi nucleari elaborata negli anni di Bill Clinton e continuata, con una pausa tra il 2001 e il 2003, da George W. Bush. L’Amministrazione Obama usa toni che in passato si erano sentiti soltanto in bocca a John Bolton, l’ex ambasciatore all’Onu di Bush che negli ultimi anni ha criticato ferocemente presidente repubblicano, tra le altre cose reo di aver tolto la Corea del nord dalla lista dei paesi che sponsorizzano il terrorismo. Il Pentagono è in allerta e gli analisti di politica estera vicini a Obama cominciano a parlare apertamente di “cambio di regime” a Pyongyang. Hillary Clinton ha detto che sta studiando l’ipotesi di ribaltare la decisione di Bush e di far rientrare il regime nordcoreano nella lista dei supercattivi che sostengono il terrorismo internazionale. Nelle ultime settimane, il regime militare comunista di Kim Jong Il ha condotto test nucleari e missilistici. I servizi russi e sudcoreani sostengono che nei prossimi giorni ci saranno altre esercitazioni, forse con missili capaci di raggiungere il territorio americano, oltre che il Giappone. Ieri mattina, il giornale del Partito comunista di Pyongyang ha scritto che il regime minaccia di usare il suo arsenale atomico in “un attacco senza pietà” se continuerà a essere “provocato”, cioè se la comunità internazionale prenderà provvedimenti economici per punire le sue continue violazioni. In una situazione come questa, la Casa Bianca, il dipartimento di stato e il Pentagono sono arrivati alla conclusione che la politica degli incentivi in cambio della rinuncia ai programmi nucleari non funziona. Gli estenuanti colloqui internazionali e bilaterali condotti prima da Clinton e poi da Bush non sono serviti a niente. E le firme di Pyongyang sugli accordi del 1994, del 2005 e del 2008 sono carta straccia. Da qui l’idea di cambiare strategia. La settimana scorsa, a Parigi, Obama ha detto che non intende continuare con “una politica che premia le provocazioni” e che ripenserà “in modo approfondito al modo di procedere sulla questione” nordcoreana: “Non credo che si debba dare per scontato che continueremo sulla linea del passato quella secondo cui la Corea del nord destabilizza costantemente la regione e noi reagiamo sempre allo stesso modo, premiandoli”. Il solitamente pacioso segretario alla Difesa, Bob Gates, ha detto: “Sono stanco di comprare due volte lo stesso cavallo”. E, simbolicamente, lo ha detto in Alaska, dove la settimana scorsa è andato a visitare la struttura antimissile costruita da Bush per dimostrare che l’America è pronta a distruggere eventuali missili nordcoreani lanciati contro gli Stati Uniti. “Clinton c’è cascato una volta, Bush un’altra. Non ci cascheremo anche noi”, ha detto un anonimo “capo stratega” della Casa Bianca citato dal New York Times, il giornale attraverso cui Obama conduce la sua politica estera. Altri funzionari obamiani hanno detto al Times che Obama ha già deciso di non offrire più nuovi incentivi per smantellare il complesso nucleare di Yongbyon che i nordcoreani avevano già promesso di abbandonare tre volte. Il team di sicurezza nazionale di Obama, ha scritto ancora il Times, ha cambiato scenario. Si è reso conto, come ha sempre detto John Bolton, che la priorità di Pyongyang non è quella di ricattare per ottenere soldi, cibo, petrolio, ma quella di essere riconosciuta come la capitale di uno stato nucleare. Gli uomini di Obama, soprattutto, hanno fatto trapelare al Times che la nuova interpretazione della Casa Bianca dei continui test militari nordocoreani è che siano una specie di spot pubblicitario del regime, il modo di Kim Jong Il di esporre la propria merce sul mercato globale e provare a venderla a chiunque sia interessato ad acquistare tecnologia nucleare. “Questo cambia interamente la dinamica del nostro approccio”, ha detto un altro consigliere di sicurezza nazionale al Times. La svolta è clamorosa, non solo perché l’intera presidenza Obama si fonda sul dialogo e sulla pacificazione, ma anche perché la Casa Bianca, nei mesi scorsi, aveva espresso più volte la disponibilità di procedere a colloqui diretti con Kim Jong Il e aveva anche nominato un rappresentante speciale per la regione, con l’idea di inviarlo a Pyongyang. La risposta del regime è stata sempre la stessa: non ci interessa. Il caso delle due giornaliste americane della tv di Al Gore, condannate ai lavori forzati dal regime comunista e detenute in uno dei lager del paese, ha soltanto messo la sordina a un cambio di strategia che a Washington è già in via di esecuzione. Kim Jong Il spera di utilizzare le due ragazze come merce di scambio con gli Stati Uniti, ma il dipartimento di stato sta tentando in tutti i modi di slegare il tentativo di liberarle, magari inviando proprio Al Gore a Pyongyang, dal dossier nucleare e militare. Non sarà facile e il timore diffuso a Washington è che il rifiuto dell’Amministrazione di mettere sullo stesso piano le due cose possa prolungare la detenzione delle due ragazze, in un carcere noto per il maltrattamento dei prigionieri. “Il cambio di regime a Pyongyang è la soluzione”, ha detto al Foglio John Nagl, il presidente del più influente centro studi di politica estera di Washington, il Center for a New American Security da cui Obama ha preso uomini e idee, a comiciare dal fondatore del think tank, Kurt Campbell, nominato vice di Hillary Clinton con competenza sull’Asia, e quindi sulla Corea. “Non c’è contraddizione con il resto della politica estera della Casa Bianca – aggiunge Nagl – perché Kim Jong Il sta commettendo un genocidio nei confronti del suo popolo”. Nagl, inoltre, segnala che il cambiamento di regime è già in corso, con la battaglia per la successione al vecchio e malato Kim Jong Il. L’erede designato è il figlio più giovane, Kim Jong-un, ma secondo l’analista obamiano il futuro che l’Amministrazione Obama deve aiutare a prefigurare è una difficile e dolorosa “riunificazione” delle due Coree, “al cui confronto quella delle due Germanie sembrerà una passeggiata”. L’Amministrazione Obama fa sul serio. Non ha soltanto elevato il tono della voce, si sta impegnando ad ampio raggio con una serie di misure diplomatiche e militari per accerchiare uno degli ultimi regimi stalinisti della terra. Alle Nazioni Unite sta lavorando per un’ulteriore stretta alle sanzioni internazionali, mentre martedì la Corea del sud ha imposto per la prima volta un embargo finanziario contro le società del Nord, una mossa che non farà piacere al regime comunista, già furioso per la recente adesione di Seul, sponsorizzata da Obama, alla Proliferation Security Initiative ideata da Bush e Bolton che impegna i paesi membri a bloccare le spedizioni aeree e navali illecite di armi di distruzione di massa. L’idea di far rientrare Pyongyang nell’elenco degli stati terroristi è più emblematica che di reale efficacia, visto che le sanzioni economiche americane sono in piedi da molti anni: “Prendiamo la questione in modo serio – ha detto la Clinton alla Abc ricordando il tentativo finale dell’Amministrazione Bush e di Condi Rice di incentivare il regime di Pyongyang – Sono stati tolti dalla lista per un motivo e quel motivo è stato cancellato dalle loro azioni”. Hillary ha anche detto che l’Amministrazione Obama sta cercando un modo, magari con l’aiuto della Cina, di fermare le spedizioni aeree e navali della Corea del nord sospettate di portare armi o tecnologia nucleare. L’idea è di fermare i carichi nordcoreani possibilmente nei porti e negli aeroporti cinesi o di altri paesi, ma alla Casa Bianca e al Pentagono sono pronti anche ad avviare ben più pericolosi confronti in alto mare. Il rischio di aprire un confronto diretto con Pyongyang è altissimo, per questo la Cina e la Russia tentennano nel dare il sostegno alla risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu, presentata dagli americani, che autorizza esplicitamente a fermare i cargo norcoreani. Hillary Clinton è convinta che l’accordo è vicino, ma in realtà esiste già una risoluzione del Consiglio di sicurezza del 2006 che consente di intercettare e fermare le navi nordcoreane in alto mare, ma con la clausola che sia fatto in modo “coerente con la legge internazionali”. La formula è vaga e non è mai stata spiegata chiaramente, come capita spesso con i documenti dell’Onu. La vicenda ricorda l’acceso dibattito sulla definizione delle “gravi conseguenze” che avrebbe dovuto subire Saddam Hussein in seguito alle sue costanti violazioni delle risoluzioni. La Corea ha già fatto sapere che considererà le azioni americane in alto mare come “un atto di guerra”, sicché gli strateghi di Obama stanno cercando un modo altrettanto efficace di controllare i carichi nordcoreani, ma anche capace di evitare un conflitto. Il vice di Hillary Clinton, James B. Steinberg, sta sondando la disponibilità della Cina se non a emanare sanzioni, almeno a esercitare pressioni su Pyongyang. Gli uomini di Obama hanno spiegato al Times che i cinesi si confrontano con il solito dilemma, quello di chi non vuole che la Corea del nord diventi una potenza nucleare, ma che non vuole nemmeno causarne il dissolvimento che si risolverebbe, tra le altre cose, con una crisi umanitaria ai suoi confini. Steinberg e la delegazione americana, secondo il racconto del Times, stanno cercando di convincere i cinesi che senza un loro coinvolgimento diretto l’America sarà costretta ad aumentare la presenza militare nella regione e, probabilmente, a non poter più fermare le richieste giapponesi di dotarsi anche loro di un arsenale nucleare: “Faremo tutto ciò che possiamo fare – ha detto domenica Hillary Clinton in televisione – per fermare, prevenire e chiudere il loro flusso di denaro. Se non agiamo ora in modo significativo ed efficace contro i nordcoreani – ha aggiunto – faremo scoppiare una corsa alle armi nucleari nell’Asia nord orientale. Non penso che nessuno di noi voglia assistere a una cosa del genere”.
Il FOGLIO - Marina Valensise : " L’ottimismo “che non costa nulla” di Obama "
L’eccezione americana si spiega con l’idea di una società libera, fondata sul progresso, sul cambiamento, animata dall’ottimismo, dalla libertà individuale. Per questo, agli occhi di Walter Russell Mead, l’esperto del Council on Foreign Relation in Italia per il suo ultimo libro (“Dio e dollaro”, Garzanti, 564 pagine, 32 euro), Barack Obama incarna la quintessenza dell’ideale americano. E davanti ai timori dei conservatori, come Victor Davis Hanson, il liberal Mead mette subito le mani avanti: “Non so se la politica di Obama sarà efficace, ma so che chi l’ha eletto voleva ciò che egli offre: un cambiamento, la speranza di un futuro migliore”. E’ ottimista “perché esserlo non costa niente”, ma giudica “molto seri” i problemi che il mondo libero si trova ad affrontare, e resta convinto che “offrire all’Iran una possibilità di negoziato, come fa Obama, sia una mossa molto intelligente”. Mead dice di aver apprezzato il discorso del Cairo più di Norman Podhoretz, ma riconosce il disaccordo tra America e Israele. “Il governo Netanyahu pensa che gli insediamenti siano necessari per garantire la sicurezza di Israele, mentre Obama pensa che siano un ostacolo alla pace. Ma il fatto che oggi gli arabi, dovendo risolvere i problemi con l’Iran, siano più che mai aperti verso Israele è un’opportunità da cogliere per far avanzare la pace”. E se uno allude all’equilibrismo di Obama, che continua la politica di Bush, fingendo di superarla, Mead precisa: “Compito di Obama non è di accettare o rifiutare al cento per cento le scelte dell’Amministrazione Bush, ma di mantenerne gli elementi che a lungo termine funzionano, cercando di minimizzarne le difficoltà. Per esempio, ammettere il successo americano in Iraq, evitando di passare dalla parte del torto, riconoscere la vittoria, senza legittimare la guerra. E’ questa la strategia migliore per favorire la stabilità”. Eppure, l’Amministrazione Obama ha decurtato da 50 a 20 milioni di dollari i fondi destinati al sostegno della democrazia, penalizzando per esempio i dissidenti egiziani. “Il governo americano deve bilanciare le speranze a lungo termine e gli interventi a breve. Del resto anche Bush – ricorda Mead – non si è impegnato coi dissidenti dell’Arabia Saudita”, ma l’Arabia Saudita era al suo fianco nell’intervento contro Saddam. “Giusto, ma non facciamo di Bush un eroe romantico: anche lui doveva contemperare spinte opposte. Obama sta cercando di far accettare agli iraniani una visione realistica del loro posto nella regione e nel rapporto con gli Stati Uniti, e di avviare il conflitto arabo- israeliano verso la pace. In questo senso, le elezioni in Libano, con la sconfitta del partito pro siriano di Hezbollah rappresentano un progresso, anche se nessuno nega che l’obiettivo sia difficile da raggiungere”. Il disaccordo interessa pure l’Europa, l’invio delle truppe in Afghanistan per esempio. “Momenti di tensione tra Stati Uniti e Europa ci sone sempre stati, anche durante la Guerra fredda. Ma il rischio di una frattura esplicita è superato da quando gli europei, durante il primo governo Bush, si son resi conto di non avere opzione migliore degli Stati Uniti, come una vecchia coppia litigiosa, che sa di non aver alternative. Il rischio adesso è l’indifferenza crescente. E io sono troppo atlantista per credere che sia la soluzione ideale”. Gli europei temono che l’America di Obama non li proteggerà se i rapporti con la Russia degenerassero in Ucraina. “Soltanto alcuni. Altri temono che l’America impedisca la costruzione di un asse privilegiato con la Russia. Ma se Obama ha accantonato il progetto di far entrare subito l’Ucraina e la Georgia nella Nato, ora è il momento di ripensare in modo costruttivo il rapporto tra la Russia e l’occidente, rinunciando all’olismo energetico, per favorire la stabilità e la democrazia”. Quanto alla Turchia: “Rischiate di più a tenerla fuori – dice Mead – Meglio avere un paese islamico moderato dentro l’Ue che alimentare l’ostilità geopolitica di un paese rivale”.
CORRIERE della SERA - Christopher Hitchens: " Le parole di Obama sul velo: un favore agli integralisti islamici "
Esiste un collegamento intrigante tra quanto detto dal presidente Barack Obama a proposito del velo delle donne musulmane nel suo discorso del 4 giugno al Cairo e le polemiche che infuriano sui prigionieri di Guantánamo, di recente liberati e tornati a ingrossare le file dei talebani e di Al Qaeda. Non cercate di indovinare: proseguite la lettura. Da quando l’ex vicepresidente Dick Cheney ha saputo sfruttare al meglio i titoli delNew York Times del 21 maggio, ricorrendo alle statistiche del dipartimento della Difesa per insinuare che uno su sette dei rilasciati di Guantánamo aveva «fatto ritorno al terrorismo o alla militanza armata», è scoppiato un pandemonio nel tentativo di capire se le cose stanno effettivamente così e, nel caso affermativo, perché. Non potrebbe essere il caso, tanto per fare un esempio, che un innocente sottoposto al tritacarne di Guantánamo si sia trasformato in un «fondamentalista » e abbia deciso di arruolarsi nella Jihad per la prima volta? Quest’ultima spiegazione non vale per diversi recidivi che sono stati realmente identificati, dei quali conosciamo vita, morte e miracoli. Durante una mia visita a Guantánamo, mi è stata consegnata una lista — che conteneva solo undici nomi, per la verità— di ex militanti talebani, come Abdullah Mehsud, arrestato nel febbraio del 2002 e rilasciato nel marzo 2004, il quale in seguito ha preferito togliersi la vita piuttosto che arrendersi alle forze di sicurezza pachistane. Se costituisce un oltraggio alla giustizia incarcerare individui che potrebbero essere vittima di falsa identità o di vendetta per mano di altre fazioni, allora è un oltraggio alla giustizia anche il rilascio di criminali psicopatici, convinti di aver ricevuto ordine da Dio di gettare acido in faccia alle ragazzine che vogliono andare a scuola. Eppure, se pensiamo che sia probabile o possibile che un uomo possa trasformarsi in un simile mostro dopo aver vissuto l’esperienza di Guantánamo, allora vorrei azzardare una spiegazione. Non immaginavo mai di scoprire che in quel luogo le autorità hanno consentito agli elementi più fanatici di organizzare la giornata degli altri detenuti. Immaginate di essere un individuo laico, o semplicemente non estremista, che si è ritrovato impigliato nelle maglie del sistema per errore; ebbene, anche voi sareste obbligati a pregare cinque volte al giorno (le guardie non possono interferire), tenere in cella una copia del Corano, e consumare cibi preparati secondo le normehalal (o della Sharia). Forse potreste far richiesta di essere esonerato ma, in questo caso, dubito che sareste ascoltato. Gli ufficiali responsabili erano talmente orgogliosi di sfoggiare la loro grande apertura mentale nei confronti dell’Islam che hanno fatto una faccia quasi offesa quando ho chiesto come potevano giustificare l’impiego dei soldi dei contribuenti per mettere in piedi un’istituzione dedicata alla fervida pratica della versione più fondamentalista di un’unica religione. Al lungo elenco dei motivi validi per chiudere Guantánamo aggiungiamo anche questo: è una madrassa (scuola islamica) sponsorizzata dallo Stato americano. La stessa insistenza, quasi masochistica, nel prendere l’estremo come norma si ritrova nell’eloquente discorso di Obama nella capitale egiziana. Parte di quanto enunciato era dettato da informazioni inesatte, malgrado le migliori intenzioni. Oggi chiunque, per quanto piccolo il suo bagaglio culturale, sa benissimo che non esiste un luogo né un’entità che possa definirsi «il mondo musulmano», perché esso consiste di molti luoghi e molte realtà (è precisamente l’obiettivo degli jihadisti ridurre il tutto sotto la medesima autorità, nel progetto di imporre l’Islam come unica religione planetaria). Esaminiamo l’unico caso in cui il presidente ha sfiorato la più nota caratteristica del «mondo » islamico: la tendenza a vedere nelle donne dei cittadini di seconda classe. E lo ha fatto solo per dire che i «Paesi occidentali» praticano la discriminazione contro le donne musulmane! E come viene imposta tale discriminazione? Limitando l’uso del velo ohijab (parola che Obama ha pronunciatohajib — figuriamoci le risate, se l’avesse detto George Bush). È stato un chiaro attacco alla legge francese che proibisce di indossare abiti o simboli religiosi nelle scuole statali. Ma alle donne che sono costrette a vestirsi secondo i precetti altrui, Obama non ha avuto nulla da dire, quasi che il loro unico diritto in questione fosse quello di obbedire a una regola che — in realtà — non si trova nemmeno nel Corano. Crede forse il nostro presidente che velo e burqa siano indumenti che le donne scelgono liberamente per essere alla moda? Tale manifestazione di ingenuità è a dir poco sconcertante e non c’è da meravigliarsi se tra il pubblico musulmano globale oggi le persone sbagliate sghignazzano alle nostre spalle, mentre a coloro che dovrebbero essere nostri amici e alleati non resta che piangere.
André Aciman : " The exodus Obama forgot to mention "
PRESIDENT OBAMA’S speech to the Islamic world was a groundbreaking event. Never before has a young, dynamic American president, beloved both by his countrymen and the nations of the world, extended so timely and eager a hand to a part of the globe that, recently, had seen fewer and fewer reasons to trust us or to wish us well. Skip to next paragraph Enlarge This Image David Suter As important, Mr. Obama did not mince words. Never before has a president gone over to the Arab world and broadcast its flaws so loudly and clearly: extremism, nuclear weapons programs and a faltering record in human rights, education and economic development — the Arab world gets no passing grades in any of these domains. Mr. Obama even found a moment to mention the plight of Egypt’s harassed Coptic community and to criticize the new wave of Holocaust deniers. And to show he was not playing favorites, he put the Israelis on notice: no more settlements in the occupied territories. He spoke about the suffering of Palestinians. This was no wilting olive branch. And yet, for all the president’s talk of “a new beginning between the United States and Muslims around the world” and shared “principles of justice and progress,” neither he nor anyone around him, and certainly no one in the audience, bothered to notice one small detail missing from the speech: he forgot me. The president never said a word about me. Or, for that matter, about any of the other 800,000 or so Jews born in the Middle East who fled the Arab and Muslim world or who were summarily expelled for being Jewish in the 20th century. With all his references to the history of Islam and to its (questionable) “proud tradition of tolerance” of other faiths, Mr. Obama never said anything about those Jews whose ancestors had been living in Arab lands long before the advent of Islam but were its first victims once rampant nationalism swept over the Arab world. Nor did he bother to mention that with this flight and expulsion, Jewish assets were — let’s call it by its proper name — looted. Mr. Obama never mentioned the belongings I still own in Egypt and will never recover. My mother’s house, my father’s factory, our life in Egypt, our friends, our books, our cars, my bicycle. We are, each one of us, not just defined by the arrangement of protein molecules in our cells, but also by the things we call our own. Take away our things and something in us dies. Losing his wealth, his home, the life he had built, killed my father. He didn’t die right away; it took four decades of exile to finish him off. Mr. Obama had harsh things to say to the Arab world about its treatment of women. And he said much about America’s debt to Islam. But he failed to remind the Egyptians in his audience that until 50 years ago a strong and vibrant Jewish community thrived in their midst. Or that many of Egypt’s finest hospitals and other institutions were founded and financed by Jews. It is a shame that he did not remind the Egyptians in the audience of this, because, in most cases — and especially among those younger than 50 — their memory banks have been conveniently expunged of deadweight and guilt. They have no recollections of Jews. In Alexandria, my birthplace and my home, all streets bearing Jewish names have been renamed. A few years ago, the Library of Alexandria put on display an Arabic translation of “The Protocols of the Elders of Zion,” perhaps the most anti-Semitic piece of prose ever written. Today, for the record, there are perhaps four Jews left in Alexandria. When the last Jew dies, the temples and religious artifacts and books that were the property of what was once probably the wealthiest Jewish community on the Mediterranean will go to the Egyptian government — not to me, or to my children, or to any of the numberless descendants of Egyptian Jews. It is strange that our president, a man so versed in history and so committed to the truth, should have omitted mentioning the Jews of Egypt. He either forgot, or just didn’t know, or just thought it wasn’t expedient or appropriate for this venue. But for him to speak in Cairo of a shared effort “to find common ground ... and to respect the dignity of all human beings” without mentioning people in my position would be like his speaking to the residents of Berlin about the future of Germany and forgetting to mention a small detail called World War II.
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