Oggi si vota il Libano. Sul CORRIERE della SERA di oggi, 07/06/2009, a pag.10, una breve analisi di Lorenzo Cremonesi, sulla STAMPA la cronaca di Francesca Paci a pag.13, sul MANIFESTO (che non riprendiamo) scrive nel sottotitolo: "Grande favorito della vigilia, il movimento guidato da Nasrallah punta a fare un governo di unità nazionale, in modo da non spaventare investitori e rivali". Segue un " Stati Uniti e Israele preoccupati". Che non lo sia il Manifesto non stupisce, essendo Hezbollah un movimento terrorista, quindi nelle simpatie del quotidiano comunista. Ecco gli articoli:

Corriere della Sera-Lorenzo Cremonesi: " Hezbollah armato alle urne, l'anomala democrazia del Libano "
Sino a quando l’Hezbollah (il «Partito di Dio») continuerà a mantenere un proprio apparato militare totalmente indipendente dallo Stato e dall’esercito regolare? È questa la domanda più inquietante che sta alla radice dei timori del cosiddetto «fronte del 14 marzo» pro-occidentale e fondato sull’alleanza tra una parte dei cristiani, drusi e sunniti, nei confronti di quello dell’«8 marzo», composto soprattutto da sciiti e cristiani legati all’ex generale Michel Aoun.
Oggi il Libano va alle urne. È opinione diffusa che la campagna elettorale sia stata fondamentalmente corretta, nonostante le accuse reciproche di aver comprato i voti a suon di milioni di dollari. Ma la questione di fondo resta del tutto irrisolta: se il monopolio della violenza è al fondamento della sovranità, l’Hezbollah armato mina la stabilità dello Stato libanese. Ancora due giorni fa il leader sunnita Saad Hariri e quello cristiano Samir Geagea sono tornati a ripetere che i miliziani di Hezbollah costituiscono una forza militare ben più forte e meglio armata dell’esercito regolare e operano agli ordini di «potenze straniere» (loro non lo specificano, ma il riferimento a Teheran e Damasco è ovvio) e persino contro gli interessi di Beirut.
Da parte sua il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ribadisce che la «resistenza armata» resterà attiva sino a quando sarà necessario combattere Israele. Il problema è però definire quanto Israele, dopo il ritiro dal sud del Libano nel maggio-giugno 2000, sia ancora un «occupante e un pericolo». L’argomento è controverso e si presta a infinite strumentalizzazioni. È per lo meno strano che proprio nelle ultime settimane gli apparati militari e politici più vicini all’«8 marzo» abbiano sbandierato in ogni modo la cattura di oltre 35 «spie sioniste» in procinto di «preparare una nuova guerra contro il Libano».
La Stampa-Francesca Paci: " Nel Libano dei paria senza voto "
Guardo la tv e mi sembra che parlino tutti di noi, Obama, Ahmadinejad, i politici libanesi». Bassam al Haik pulisce il rasoio sull’asciugamano, saluta il cliente e mette in tasca la banconota da 2000 lire (un euro). Trentadue anni, 3 figli, ha imparato il mestiere dal padre che aveva imparato dal nonno: tre generazioni di barbieri in 5 metri quadrati tra i vicoli del campo profughi palestinese di Chatila, alla periferia Sud di Beirut. I libanesi votano per il governo a cui paga l’elettricità, osserva Bassam riponendo la gelatina Haway nel mobiletto sovrastato dal poster di Zidane. Lui però non ha voce in capitolo: «Vorrei il passaporto libanese per poter lavorare fuori da qui. Se potessi, sceglierei l’opposizione». Il poster del leader di Hezbollah Nasrallah colora il tetro muro di cemento dell’edificio che s’innalza a mezzo metro dalla sua vetrina.
Quattrocentomila palestinesi invisibili sono il rimosso di questa campagna elettorale, coscienza torbida dei due blocchi che si contendono il futuro del Paese sfidando il passato, la guerra civile, il fato dei fratelli di serie B rifugiati qui dal ’48. «Il diritto al ritorno non va collegato al diritto alla nazionalità», denuncia Lina Abou-Habib, responsabile dell’organizzazione non governativa Crtd.A. L’eventuale inclusione che cancellerebbe i 12 campi profughi, buchi neri tra la valle della Bekaa e il mare, divide i politici in modo trasversale, soprattutto sulle ragioni del rifiuto. Sostiene Hezbollah che regolarizzare i profughi allenterebbe la pressione su Israele, i custodi dell’equilibrio confessionale obiettano che un’iniezione di sunniti altererebbe la delicata miscela nazionale, generali e alti ufficiali ricordano senza nostalgia i giorni in cui l’Olp cresceva autonoma, uno stato nello stato. All’ingresso di Chatila, sullo sterrato coperto di spazzatura come in una delle drammatiche inquadrature di Valzer con Bashir, il film dell’israeliano Ari Foldman sul massacro del 1982, due ragazzini inseguono la palla dribblando il carretto di pesche che avanza incerto. Passi per l’acqua potabile, scherza, inossidabile alla malasorte, il vecchio che lo traina: «Avevo 2 anni quando sono arrivato e non c’è ancora un campo di calcio».
Giovedì centinaia di migliaia di libanesi hanno cercato nell’impegno del presidente americano per la pace in Medio Oriente un riferimento che li riguardasse. «La presenza dei palestinesi ci ha già creato molti problemi negli Anni 70, il Libano non può permettersi di assorbirli», spiega l’ex ambasciatore Khalid Makkawi. Beirut si fida di Obama. La vetrina della libreria Way In, nel cuore di Hamra, espone 5 titoli dedicati al nuovo inquilino della Casa Bianca, dall’Audacia della speranza a un manualetto a prova di scettici, Obama for beginners. Sognando che il mantra «We can» possa un giorno sciogliere le contraddizioni di un paese che fa la fila al cinema per vedere lo slum malsano di Bombay nel film The Millionaire ma chiude gli occhi di fronte a quello quasi identico cresciuto nel cortile di casa.
«La situazione dei palestinesi è disastrosa, un inferno», afferma lo scrittore Jabbour Douaihi che sta per pubblicare con Feltrinelli Pioggia di giugno. In cima alle scale di una palazzina con i cavi elettrici che penzolano come liane della giungla, Rwaida Maser Ukadid pulisce la verdura per preparare la mloukia, il piatto preferito dei suoi 4 figli. Ha 42 anni, è vedova da dieci: «Mi arrangio con quello che mi mandano i parenti dalla Danimarca e gli aiuti delle Nazioni Unite, riso, olio, 50 dollari ogni tre mesi». Il figlio Ahmed, 19 anni, studia ingegneria all’università di Beirut: «Lo so che sarà costretto a fare il muratore, ma ci tiene tanto a questa laurea, ho venduto tutto l’oro della famiglia per pagare l’iscrizione. Vorrei avere la cittadinanza solo perché potesse avere le chance dei suoi coetanei».
Secondo la legge i palestinesi non possono acquistare la casa e sono esclusi da 72 professioni considerate prestigiose, avvocato, medico, ingegnere. «Non resta che aprire una bottega nel campo o lavorare a giornata, guadagnano la metà dei 20 dollari che spettano a un libanese», spiega il direttore del National Institute of Social Care&Vocational Trainig Hasem Haine nell’ufficio all’ingresso di Chatila, sulla strada piena di bandiere del Fronte 14 marzo. Ha apprezzato che Obama abbia parlato di Palestina, pioniere nel sostituire il sogno alla geografia. La realtà che vede dalla finestra però, 16 mila persone di cui metà minori di 20 anni, lascia poco spazio alle fughe in avanti.
«Siamo l’unica diaspora che invece di mandare i soldi in patria è costretta a riceverli», osserva Jamile Shedade, 55 anni, assistente sociale al centro Beit Atfal Assumoud, nel cuore del campo. Gli emigrati libanesi sono tornati in massa per sostenere e finanziare il cambiamento, qualsiasi esso sia. Chatila li guarda da lontano.
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