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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa-Il Riformista-Corriere della Sera Rassegna Stampa
07.06.2009 Obama in Normandia, il tour è finito,ecco quello che resta
Con Maurizio Molinari, Anna Mahjar-Barducci, Angelo Panebianco

Testata:La Stampa-Il Riformista-Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari-Anna Mahjar Barducci-Angelo Panebianco
Titolo: «Dalla Normandia: No al nucleare di Iran e Corea-L'Egitto voleva parole chiare contro Teheran-Obama e l'Europa dimenticata»

Barack Obama è arrivato in Normandia per i D-Day, per ricordare quando l'America entrò in guerra per sconfiggere quello che qllora era l'impero del male. Lo fece in ritardo, solo quando fu minacciata direttamente. Oggi un altro impero del male minaccia le democrazie, un impero conto il quale nessun dialogo può avere la meglio. Prima lo si sconfigge meglio sarà. Ieri c'è stato il no di Obama a Iran e Nord Corea potenze atomiche. Vedremo come riuscirà ad imporlo. Pubblichiamo il pezzo di Maurizio Molinari dalla STAMPA, dal RIFORMISTA  l'analisi dei rapporti con i paesi musulmani, in particolare l'Egitto, di Anna Mahjar-Barducci, che vive a Gerusalemme, attenta e accurata interprete del mondo arabo moderato, e l'editoriale di Angelo Panebianco sul CORRIERE della SERA, pieno di punti interrogativi.

La Stampa-Maurizio Molinari: " Dalla Normandia: No al nucleare di Iran e Corea"

INVIATO A COLLEVILLE-SUR-MER
Nel giorno in cui ricorda la «lotta contro il Male del nazismo» sulle spiagge dello sbarco in Normandia, Barack Obama inasprisce toni e termini nei confronti di Iran e Corea del Nord. Memoria e politica si sovrappongono nelle dichiarazioni del presidente americano che prima discute le più difficili crisi regionali con il collega francese, Nicolas Sarkozy, nella prefettura di Caen e poi si reca nel cimitero militare americano di Colleville-Sur-Mer per rendere omaggio alle truppe che iniziarono la liberazione dell’Europa dal nazifascismo.
Il faccia a faccia con Sarkozy registra un solido accordo sulle più spinose questioni di politica estera, prima fra tutte l’Iran. «Se dovesse possedere armi nucleari sarebbe molto pericoloso non solo per l’America e Israele ma per la regione e per il mondo in quanto innescherebbe una corsa agli armamenti» dice Obama, e Sarkozy aggiunge: «Ho detto al ministro degli Esteri iraniano che devono raccogliere la mano tesa da Obama e ho sottolineato che non abbiamo obiezioni ad un loro nucleare pacifico ma se puntano a quello militare, allora la risposta è no». «L’Iran non può chiedere accesso al nucleare civile - sottolinea Sarkozy mentre Obama assente - se Ahmadinejad continua a fare affermazioni aggressive ed a non concedere all’Agenzia atomica dell’Onu di svolgere i controlli». Obama si spinge fino a chiamare in causa Ali Khamenei, il leader supremo della rivoluzione iraniana, perché «ha detto che non vogliono la bomba ma nelle relazioni internazionali parole e speranze non bastano, come diceva Reagan “fidati ma verifica”».
L’intesa con Sarkozy si somma a quella registrata a Dresda con la cancelliera tedesca Angela Merkel lasciando intendere che Obama sta preparando il terreno ad un indurimento delle sanzioni Onu se il nuovo presidente iraniano - a Teheran si vota fra cinque giorni - dovesse confermare l’attuale approccio al nucleare. Obama definisce «estremamente provocatorie» anche le scelte di Pyonygang con i test atomici e missilistici recapitando un messaggio esplicito: «Non remuneremo le provocazioni». Come dire, non pensate di spingerci a negoziare a colpi di bombe. Sarkozy esprime infine «piena sintonia» sulla soluzione dei «due Stati in pace e sicurezza in Medio Oriente», auspicando che «israeliani e palestinesi rispettino gli impegni della Road Map». «Anche gli Stati arabi hanno responsabilità - aggiunge Obama - su un piano politico ed economico per portare alla pace». L’unico neo che resta fra i due leader è l’entrata della Turchia nell’Ue perché Washington la auspica e Parigi si oppone.
Concluso il colloquio, Obama e Sarkozy si recano con le rispettive signore nel cimitero militare dove sono sepolti quasi 10 mila soldati americani. Di fronte a centinaia di reduci e migliaia di famigliari da tutto il mondo, partecipano assieme ai premier di Gran Bretagna e Canada, ed al principe Carlo, ad una solenne cerimonia sullo sfondo della spiaggia di Omaha. Il contenuto dei discorsi spiega la determinazione nell’affrontare la minaccia delle armi di distruzione. «Il nazismo era il Male e i popoli come i leader si unirono e superarono le differenze per affrontarlo» dice Obama, aggiungendo che «la storia è sempre frutto delle nostre scelte». Anche il giorno prima a Buchenwald aveva parlato del «Male» sottolineando l’«importanza di reagire». E Sarkozy aggiunge: «Cosa diventerebbe il mondo se lasciassimo il campo libero al terrorismo e al fanatismo?». In sintonia il britannico Gordon Brown, secondo cui «dobbiamo svolgere il compito di liberatori in Darfur, Zimbabwe e Birmania» e il canadese Stephen Harper. La foga gioca però un brutto scherzo a Gordon che parla di «Obama Beach» con una gaffe sottolineata dalle risa del pubblico. Si finisce con i jet alleati che sfrecciano sui cieli della Normandia.

Il Riformista-Anna Mahjar Barducci: " L'Egitto voleva parole chiare contro Teheran "

Gerusalemme. All'indomani della visita del presidente americano Barack Obama al Cairo, il mondo arabo si chiede alcune domande.
Nonostant, i media mediorientali abbiamo elogiato il discorso di Barack Obama pronunciato all'Università di Al-Azhar, infatti, rimangono delle questioni non chiare.
Per esempio, come mai il presidente egiziano Hosni Mubarak non è andato ad accogliere all'aeroporto, come da protocollo, Obama?
Come mai Gamal Mubarak, figlio del presidente e segretario del comitato per la pianificazione politica, non ha presenziato al discorso di Obama?
E come mai, subito dopo l'incontro a porte chiuse fra i due presidenti al Palazzo Qoba, non c'è stata alcuna conferenza stampa per parlare dei punti discussi, come vuole sempre il protocollo?Le speculazioni fra i giornalisti egiziani sono molteplici. La maggioranza, però, è convinta che la causa sia stato l'invito da parte dell'amministrazione Obama a dieci membri del blocco parlamentare dei Fratelli Musulmani, per assistere al discorso del presidente americano. Inoltre, il quotidiano egiziano Al-Masri El-Youm, il giorno della visita di Obama, ha dichiarato, con tono accusatorio, che una delegazione dei Fratelli Musulmani si era incontrata con il presidente americano a Washington poche settimane prima. Così, mentre il sito della Fratellanza, ikhwanonline.com, scrive che l'invito di Obama era dovuto - altrimenti Washington avrebbe mostrato di appoggiare "un regime dittatoriale" - i commentatori vicino al governo egiziano non la pensano allo stesso modo.
Nell'ultimo periodo, infatti, i Fratelli Musulmani si sono allineati con l'Iran, pubblicando anche per la prima volta nella loro storia documenti a favore dello sciismo. Dopo gli arresti in Egitto di una cellula di Hezbollah che avrebbe dovuto compiere attentati nel paese, alti ufficiali egiziani hanno accusato l'Iran di essere dietro ai piani per la destabilizzazione del governo. E di conseguenza, le relazioni tra Cairo e Fratelli Musulmani si sono ulteriormente inasprite. Ad oscurare l'umore del Cairo, c'è stata anche l'intervista del quotidiano saudita, Al-Hayat, all'ambasciatore statunitense presso le Nazioni Unite, Susan Rice, che ha sembrato ignorare l'intenzione iraniana di sovvertire il governo egiziano.
Mubarak forse aspettava un altro tipo di discorso da parte di Obama. Più che focalizzarsi su una riconciliazione fra Stati Uniti e Islam, avrebbe voluto che l'americano ad Al-Azhar prendesse una posizione chiara nell'attuale Guerra fredda mediorientale, che vede schierati da un lato, Iran, Siria, Hezbollah, Fratelli Musulmani e Hamas, e dall'altro il blocco moderato guidato da Egitto e Arabia Saudita. Soprattutto, alla luce delle elezioni il prossimo 7 giugno in Libano, dove il Cairo e Riad temono che Beirut cada sotto il dominio di Hezbollah. E a quel punto, le parole positive di riconciliazione di Obama con l'Islam rimarranno per gli arabi solo un discorso di buone intenzioni, all'interno di un mondo musulmano sempre più diviso e con crescenti tensioni.
La stessa "delusione" sembra essere condivisa dall'Arabia Saudita. Il giorno prima, del suo discorso al Cairo, Obama si era incontrato con il sovrano Abdullah, ma anche in questa occasione, i temi importanti per il regno saudita, come le aspirazioni egemoniche di Teheran, non sono state affrontate, lasciando pertanto vaghe le intenzioni della nuova amministrazione nei confronti del blocco saudita-egiziano. Gli israeliani invece si sono lamentati per le parole non dette. Infatti, il presidente ha cercato di non toccare la questione cruciale del ritorno dei rifugiati palestinesi, quando ha parlato della necessità di creare due Stati.
Il merito di Obama, però, è quello di essere riuscito in pochi mesi a cambiare l'immagine degli Stati Uniti tra la maggioranza dell'opinione pubblica araba. Durante il suo discorso ad Al-Azhar, addirittura, uno spettatore ha gridato al presidente statunitense : «We love you! Ti amiamo!». Ma soprattutto, con la sua visita al Cairo, Obama ha unito l'opinione pubblica occidentale. Ha dimostrato, all'Europa anti-americana, che gli Stati Uniti stanno facendo tutti i passi necessari per trovare un compromesso con i suoi nemici. Pertanto, l'Iran, con la sua retorica contro il grande Satana (L'America), oggi troverà meno impliciti sostenitori fra gli occidentali.

Corriere della Sera-Angelo Panebianco: " Obama e l'Europa dimenticata "

E' un’ovvietà il fatto che i di­scorsi politici, come qualun­que altro discorso, assu­mano significati diversi per gli ascoltatori in ragio­ne delle differenti caratte­ristiche e identità degli ascoltatori stessi. Appa­rentemente meno ovvio, ma non meno vero, è il fatto che lo stesso discor­so può acquistare, nella mente di un qualunque ascoltatore, significati di­versi col passar del tem­po, in ragione degli even­ti verificatisi dopo che quel discorso è stato pro­nunciato. Tutti nel mon­do (sia quelli che lo han­no approvato sia quelli che lo hanno criticato) hanno colto le grandi no­vità contenute nel discor­so pronunciato da Barack Obama in Egitto, il fatto che egli abbia affrontato con un approccio comple­tamente nuovo (una nuo­va chiave di lettura, un nuovo lessico) il rapporto fra America e Islam. Il suo messaggio è sicura­mente piaciuto a quella parte del mondo islamico che non vuole rimanere intrappolata nello «scon­tro di civiltà». Ed è la stes­sa ragione per cui è pia­ciuto a tanti europei, non­ché a tutta quella parte dell’America che ha vota­to per Obama e vuole la­sciarsi il più rapidamente possibile alle spalle le ten­sioni accumulate durante l’amministrazione Bush. Ma poiché i discorsi poli­tici assumono sempre si­gnificati diversi a secon­da dell’identità degli ascoltatori, è anche possi­bile che il messaggio di Obama venga letto come un indizio, se non una prova, della debolezza del­l’America da parte di altri settori dell’universo isla­mico: quel vasto mondo fondamentalista/tradizio­nalista (assai più ampio dell’area dei terroristi e dei loro simpatizzanti) che sull’opposizione ideo­logica all’Occidente, e al­l’America in particolare, ha fondato fin qui una parte importante della sua capacità di penetra­zione e di diffusione fra i musulmani. A quel mon­do, infatti, non può sfug­gire che, se Obama rap­presenta, come sicura­mente rappresenta, una novità, culturale prima ancora che politica, egli è anche il Presidente di un’America gravemente indebolita dalla crisi, un’America che forse, a crisi finita, non disporrà più delle risorse di cui di­sponeva in precedenza, che avrà forse più difficol­tà di un tempo a imporre, nelle aree turbolente del pianeta, la propria volon­tà e le proprie soluzioni.

È possibile dunque che nei prossimi mesi si mani­festi una divisione dentro il mondo islamico fra la parte che vorrebbe ri­spondere positivamente alla mano tesa di Obama e la parte che la intenderà solo come un segno di de­bolezza da sfruttare cini­camente. E, probabilmen­te, prevarrà l’una o l’altra parte del mondo islamico in ragione degli eventi che seguiranno o non se­guiranno alle parole. Il di­scorso pronunciato da Obama, fra qualche tem­po, verrà riletto in un mo­do o in un altro a seconda di ciò che l’Amministra­zione americana sarà sta­ta in grado di fare. Oba­ma si è assunto, certo con­sapevolmente, col suo di­scorso, un compito assai rischioso. Deve, in primo luogo, mostrare al mon­do islamico che l’America è comunque ancora forte e determinata nella con­duzione di quelle che con­sidera «guerre giuste» (conflitto afghano-pachi­stano). Deve, e questo è persino più difficile, rilan­ciare il processo di pace israeliano-palestinese.
Obama deve rilanciare il processo di pace senza spezzare i legami (oggi tesi co­me mai in precedenza) con Israele, senza svenderne la sicurezza, e senza farsi bloc­care dal rifiuto arabo e dall’estremismo di Hezbollah e Hamas. E deve venire a ca­po del contenzioso con l’Iran. Accettando l’idea di un Iran dotato del nucleare civile (notoriamente convertibile con facilità ad usi militari) Obama ha fatto una scom­messa assai rischiosa. La scommessa è che l’Iran «rivoluzionario», l’Iran degli ayatollah, sia ormai pronto per una politi­ca pragmatica, di «accomodamento», per una politica post-rivoluzionaria. Se è co­sì, Obama vincerà la partita. Ma se non è così, se l’Iran resterà ancora a lungo uno stato rivoluzionario, teso alla modifica ra­dicale dello status quo mediorientale, al­lora la politica del presidente americano si rivelerà un fallimento, e il Medio Orien­te entrerà in un nuovo ciclo di instabilità e di guerre.

C’è un aspetto del discorso di Obama, ma in realtà anche di molti suoi discorsi precedenti, che, indirettamente, riguarda noi europei. Si è detto, credo con ragio­ne, che Obama è, in virtù delle sue espe­rienze e della sua formazione, un multi­culturalista capace di unire patriottismo e orgoglio americani con l’empatia per le culture extraoccidentali. Ciò con cui noi europei dovremo misurarci è il fatto che per lui sembra meno rilevante la catego­ria di Occidente e, quindi, anche il rappor­to con l’Europa e con le radici europee della storia americana. Lo si è potuto con­statare anche ieri in Francia durante le ce­lebrazioni del sessantacinquesimo anno dallo sbarco in Normandia. Al discorso (peraltro, bellissimo) del presidente fran­cese Sarkozy, centrato sui legami fra Fran­cia e Stati Uniti, e Europa e Stati Uniti, che il D-Day permise di rilanciare e di rin­saldare, Obama ha risposto con un mes­saggio, come sempre retoricamente abi­le, tutto rivolto agli americani in patria e al sacrificio dei combattenti americani di allora. L’Europa (a parte il pezzo di spiag­gia in cui si svolse la storica battaglia), in quel discorso, praticamente, non c’era. Nel bene e nel male, è un problema con cui noi europei dovremo fare i conti.

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