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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio-La Stampa-Il Giornale- Rassegna Stampa
06.06.2009 Elezioni in Libano, Hezbollah ha già vinto
Cronache e commenti della redazione del Foglio,Francesca Paci,Rolla Scolari

Testata:Il Foglio-La Stampa-Il Giornale-
Autore: La redazione del Foglio-Francesca Paci-Rolla Scolari-
Titolo: «Così i patti preelettorali hanno scritto l'esito delle elezioni libanesi- Il voto è in vendita- I cristiani pronti a cedere il Libano all'Iran»

Elezioni in Libano, Hezbollah ha già vinto, titola profeticamente IL FOGLIO, oggi, 06/06/2009, in prima pagina. Ne riportiamo l'analisi, insieme ai pezzi di Francesca Paci sulla STAMPA e Rolla Scolari sul GIORNALE.

IL Foglio- " Così i patti preelettorali hanno scritto l'esito delle elezioni libanesi "

Beirut. In Libano i poteri nazionali si sono messi già d’accordo per determinare il risultato delle elezioni di domani. E hanno deciso che il modo migliore per truccare la partita con un finale conveniente per tutti non è determinare in anticipo il risultato finale, ma lasciare almeno una decina di seggi cruciali al voto degli elettori. In Libano i poteri sono ancora spezzettati in 18 gruppi religiosi, riuniti però sotto due grandi ombrelli: quello antisiriano, appoggiato dall’occidente e dai sauditi, e quello filo Hezbollah, sostenuto da Iran e Siria. I seggi parlamentari sono 128, ma secondo gli osservatori locali almeno 115-120 sono stati già assegnati con precisione quasi assoluta dagli zaims, i capoccia locali, che controllano le liste e gli elettori. I rimanenti sono rimessi alla volontà dei cristiani. Il risultato è lasciato in bilico fino all’ultimo, too close to call, perché così conviene ai libanesi prima e dopo il voto. Mai come in questo periodo piovono finanziamenti dall’estero, un diluvio, un fiume in piena mai visto: nelle ultime settimane almeno settecento milioni di dollari. In televisione si vedono libanesi parlare esplicitamente del valore che attribuiscono alla propria scheda, qualcuno cento qualche altro cinquecento dollari, tutti però “senza includere i pranzi e i regali distribuiti durante i comizi”. All’aeroporto arrivano volenterosi elettori dalla diaspora libanese nel mondo, dal Canada, dall’Australia, dagli Stati Uniti e dall’Europa, con il biglieto pagato dai partiti. Si vede bene: guai se il risultato fosse stato già scritto. Per paradosso, alla parte leggermente in vantaggio, quella di Hezbollah, non conviene vincere, piuttosto un pareggio o una leggera sconfitta, che porti a un governo di unità nazionale – secondo gli ultimi sondaggi l’esito più probabile. Così la comunità internazionale non si allarma, gli aiuti continuano, il processo di legittimazione va avanti e il Partito di Dio può preparare sotto il mantello dello stato e dell’esercito libanese la prossima guerra contro Israele. Già la polizia e i militari, grazie alle imbeccate dei miliziani sciiti, stanno smantellando la rete di informatori israeliani – 40 arresti in sei settimane, almeno una dozzina di gruppi eliminati – che tiene d’occhio i movimenti e i preparativi bellici dei guerriglieri. Molti agenti di questa rete hanno intuito che il nuovo Libano potrebbe essere un posto troppo pericoloso e sono scappati a sud, attraverso il confine con Israele. Beirut ha subito chiesto al contingente Unifil, la forza delle Nazioni Unite che controlla il sud del paese, di adoperarsi “per riportarli indietro”. Venerdì scorso, in un sermone elettorale trasmesso per motivi di sicurezza da schermi giganti, il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha dato un’altra anticipazione del Libano che verrà: “Gli aiuti militari dell’Iran all’esercito libanese, se vinceremo, sarà senza condizioni. Chi vuole un esercito potente in Libano dovrà fornirci una forza aerea militare. Non saranno i dieci Mig-29 a disposizione oggi a cambiare l’equilibrio di forze tra il Libano e Israele”. Partecipare in forze al nuovo governo di unità nazionale, eliminare gli informatori a terra, creare in aria una forza capace di respingere gli aerei israeliani: due anni dopo la guerra del 2006, Hezbollah sta preparandosi una zona di sicurezza dove operare senza interferenze.

La Stampa- Francesca Paci: " Il voto è in vendita "

A mio zio Marwan hanno pagato solo il biglietto per il pullman da Dubai ma lui è contento, dice che tre giorni di viaggio valgono la disfatta dei corrotti» racconta la grafica trentenne Randa Hassan alle amiche che bevono vino rosso sulla terrazza del Cafè Reservoir, in Ramlet el Baida, quartiere residenziale sul litorale di Beirut. Raed con i lunghi capelli raccolti a treccia suona il violoncello, la brezza marina accarezza le braccia nude delle ragazze. «I voti sono in vendita, tutti i partiti comprano a man bassa» osserva Sahar Mandour, giornalista.
Secondo il quotidiano The Daily Star 19 mila espatriati sono tornati a casa negli ultimi due giorni. Basta un rapido sondaggio all’aeroporto Rafic Hariri per capire come entrambi gli schieramenti abbiano mobilitato le riserve, soprattutto tra i cristiani, la maggioranza dei 14 milioni di libanesi della diaspora che versano ogni anno al paese 2,5 miliardi di dollari di rimesse. Fratelli coltelli, i pendolari del voto che decideranno il risultato di domenica si sono divisi tra le Forze libanesi di Samir Geagea, alleate con Saad Hariri, e il Movimento patriottico libero Michel Aoun.
«Sai che è tempo d’elezioni quando i tuoi amici che vivono all’estero vengono a Beirut per 4 giorni» recita la didascalia d’una vignetta del cartoonist Zankoul (www.961report.org) in cui una lunga fila di aerei aspetta di atterrare. Ma anche quando, aggiunge il disegno successivo con due ragazzi che si picchiano, «vedi nei campus molti più studenti con gli occhi neri». Cristiani contro cristiani. Musulmani contro musulmani, che tra sciiti e sunniti sono il 60 per cento della popolazione. Minoranze contro maggioranze e tutti, tatticamente, contro il nemico israeliano.
Mohammad non ha nessuna voglia di menare le mani. Spingendo il carretto carico di mele sullo sterrato di Haret Hrayk, roccaforte sciita alla periferia sud di Beirut popolata di donne velate fino ai piedi e lontana secoli dai ristoranti alla moda della Corniche, sogna la vendetta sanculotta delle urne: «Ho sette figli e vendo frutta, una nullità per questo governo di ricchi e corrotti». Il primogenito Nadar, 19 anni, lavora in uno dei cantieri edili fioriti all’indomani della guerra del 2006 con il contributo dell’Iran e va pazzo per il rock palestinese dei Firkat Alshimal che hanno dedicato un cd a Nashrallah, «Il falco del Libano». Mohammad ha fede: «Tocca a noi». Dall’emittente di Hezbollah al Manar, sesta tv più popolare del mondo arabo, il portavoce Ibrahim Moussawi suona la carica: «Da tempo siamo la maggioranza del paese, adesso conquisteremo quella parlamentare».
I sondaggi sono in bilico. La partita si gioca nei collegi di Zahle, Tripoli e Sidone, circa 15 mila cristiani non avrebbero ancora deciso come schierarsi. Lungo Nasra street, sulla collina opulenta di Ashrafya, i seguaci del generale Aoun sventolano le bandiere arancioni da giganteschi suv metallizzati per dimostrare che non saranno solo i nullatenenti a dar man forte all’opposizione.
«Ci sarà un’affluenza massiccia, ma una parte o dall’altra la vittoria sarà di misura, 65 seggi contro 63» nota Khalil Harb del quotidiano di sinistra Assafir. Il risultato certo è l’incertezza: «Chiunque la spunti non potrà governare da solo». Con un debito pubblico di 48 miliardi di dollari sulle spalle d’una popolazione giovane (l’età media è 29 anni), il Libano non ha bisogno di un nuovo terremoto. Per questo, a sentire il quotidiano Al Akhbar, il leader druso Walid Jumblatt, alleato della maggioranza, avrebbe ammesso che è ora di deporre le armi contro gli sciiti.
«La storia ci sta schiacciando, dobbiamo smettere di pensare alla guerra e costruire» ammette Sylvain Eid, 31 anni direttore di Metaform, la società che organizza Beirut39, il concorso per i migliori scrittori arabi under 40 nell’ambito di Beirut capitale della cultura 2009. Nel cuore ha i colori di Hariri, sullo schermo del computer quelli del presidente americano Obama, «uno di noi».
La generazione cresciuta dopo la guerra civile vive la polarizzazione del paese come un destino che non ha scelto. «Vorrei che Bruce Springsteen venisse a Beirut» dice l’insegnante trentenne Hanadi Chamas giocando con gli amici a «specchio dei desideri» al bancone dell’Osaka Sushi Lounge, a downtown. Lara Canan, fotografa, vorrebbe un naso nuovo come quelli dipinti nelle tele ironiche dell’artista Tagreed Darghouty all’Agial Art Gallery, ad Hamra. Anche Nadar bin Mohammad, nella periferia sciita così lontana e così vicina da qui, vorrebbe tante cose, e soprattutto che la Germania vincesse i mondiali di calcio. In comune hanno il futuro, diviso tra il 14 marzo e l’8 marzo, memorial di una vita fa.

Il Giornale- Rolla Scolari " I cristiani pronti a cedere il Libano all'Iran "

Negli Stati Uniti sono l’Ohio e la Florida a determinare un’elezione. In Libano, il colore del Parlamento sarà dato, domani, dal voto dei cristiani. «Non c’è dubbio – dice l’esperto Paul Salem da Beirut – sono loro lo swing vote». Se Hezbollah, il partito sciita di Hassan Nasrallah, guiderà la politica portando così il piccolo Paese levantino sotto l’influenza dell’Iran, lo deciderà la battaglia elettorale nei distretti cristiani. Sunniti e druzi sono con il blocco pro-occidente del 14 marzo, attuale maggioranza, alla testa del quale c’è il giovane Saad Hariri, delfino dell’ex premier Rafiq, ucciso in un attentato nel 2005. Dall’altra parte, l’opposizione sciita del Partito di Dio, sostenuto da Teheran. Divisi tra i due schieramenti ci sono i cristiani. Il generale maronita Michel Aoun ha alleato le bandiere arancioni del suo Free Patriotic Movement con quelle gialle di Hezbollah dal 2006. I suoi voti possono fare la differenza. Con gli sciiti, anche gli armeni del Tashnag. Il Kataeb, della famiglia maronita dei Gemayel, e le forze libanesi di Samir Geagea sono invece i maggiori gruppi cristiani del 14 marzo. Spiega Paul Haidostian, rettore dell’università Haigazian, della Chiesa armena protestante di Beirut, che «per le regioni sciite, sunnite o druze, abitate da una sola componente religiosa che propende verso un determinato campo politico, si conosce già il risultato. Nel caso dei cristiani, con diverse mentalità, alleanze e denominazioni religiose, è più difficile fare previsioni».
Si sapeva da tempo che la battaglia sarebbe stata all’ultimo voto. Per questo la campagna elettorale è stata intensa. Il Paese è tappezzato da cartelloni colorati spesso così sofisticati da assomigliare più a patinate reclame di moda che a strumenti di politica. Sui manifesti, a ricordare il carattere feudale della politica locale, compaiono gli stessi nomi di sempre, ma facce diverse: Sami Gemayel, giovane figlio dell’ex presidente Amin e nipote del leader Bashir, ucciso nel 1982; Michel Moawad, figlio di un altro leader assassinato; Nayla Tueni, il cui padre, Gibran, è saltato in aria in un attentato nel 2005. Contano immagini, slogan e soprattutto simboli: una mano chiusa impugna un ramoscello d’ulivo verde. È il nuovo logo del 14 marzo, in volontario contrasto con il pugno chiuso che stringe un AK47, simbolo del Partito di Dio e delle sue milizie. Il blocco di Hariri ha fatto campagna sul disarmo dei gruppi armati libanesi estranei all’esercito.
«Il cittadino cristiano deve scegliere tra lo Stato senza armi e uno stato nello Stato», dice al Giornale Boutros Harb, membro maronita della maggioranza ed ex candidato presidenziale.
Il voto libanese trascende i confini del piccolo Paese: il risultato di domani consegnerà un nuovo equilibrio alla regione. «È l’Iran contro l’Occidente», ha scritto l’analista Amir Taheri sul Wall Street Journal. Il vice presidente americano Joe Biden, a Beirut aveva detto: «Valuteremo la forma della nostra assistenza sulla composizione del nuovo governo». Gli Stati Uniti, che considerano Hezbollah un’organizzazione terroristica, hanno fornito 500 milioni di dollari in aiuti militari al Libano dal 2005. Washington e alleati, Egitto e Arabia Saudita in testa, spaventati dall’espansionismo iraniano, guardano con apprensione a una possibile vittoria del Partito di Dio e dell’asse pro-Iran.
 
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