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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa-Corriere della Sera-Il Foglio Rassegna Stampa
06.06.2009 Obama-Pensiero: parte 1a, cronache da Buchenwald di Maurizio Molinari
Più le opinioni di Elie Wiesel,Amos Oz,Norman Podhoretz

Testata:La Stampa-Corriere della Sera-Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari-Elie Wiesel-Francesco Battistini
Titolo: «Obama: Basta bugie sulla Shoah-Mio padre morì qui. Non potevo aiutarlo-Altro che discorso ingenuo, ha parlato al cuore di tutti-Per Podhoretz il discorso di Obama mira a rovesciare Netanyahu»

In questa pagina di IC, due cronache sulla visita di Barack Obama a Buchenwald, entrambe dalla STAMPA di oggi, 06/06/2009. la prima di Maurizio Molinari, la seconda l'intervento di Elie Wiesel. Seguono due interviste, la prima sul CORRIERE della SERA ad Amos Oz, di Francesco Battistini, la seconda dal FOGLIO a Norman Podhoretz.  In altra pagina i commenti. Ecco gli articoli:

La Stampa-Maurizio  Molinari: " Obama: Basta bugie sulla Shoah "

INVIATO A DRESDA
Barack Obama rende omaggio alle vittime dell’Olocausto nell’ex lager di Buchenwald, lanciando un monito contro «coloro che negano quanto avvenne» come il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. La guida del presidente americano è Elie Wiesel, il premio Nobel per la pace, che venne deportato ad Auschwitz e poi all’inizio del 1945 fece la «marcia della morte» a piedi, assieme a migliaia di prigionieri, a Buchenwald, dove vide morire il padre di stenti poco prima della liberazione. Obama e Wiesel camminano sulla terra brulla, assieme alla cancelliera tedesca Angela Merkel, al direttore del museo Volkhard Knigge e a Bernard Hertz che fu come Wiesel fra i 924 orfani scampati al lager dove trovarono la morte oltre 56 mila esseri umani catturati, per ragioni politiche o razziali, in ogni angolo d’Europa.
Tutti e cinque depongono una rosa bianca sul memoriale dello sterminio, poi visitano i crematori, i siti delle fosse comuni, passano davanti al filo spinato, nel «Piccolo lager» dove le SS tenevano i bambini, guardano l’orologio fermo sulle 15.15, l’ora nella quale il campo venne liberato dagli americani l’11 aprle 1945. E’ Wiesel che parla trasformando il passato in presente: racconta i dettagli dell’orrore quotidiano come le «lezioni segrete per bambini» e «chi sfidava la morte per digiunare il giorno di Kipur», ricorda l’agonia del padre «che non potei aiutare nel momento in cui morì», indica al presidente «il contrasto fra la bellezza della natura e la brutalità che vi avvenne». L’impatto delle parole del testimone segna il presidente. E’ il linguaggio del corpo a svelarlo: all’inizio ha le mani in tasca, mostrandosi quasi rilassato, ma dopo pochi minuti non sa evidentemente più dove metterle, le stringe forte dietro la schiena mentre la fronte tradisce tensione nell’ascoltare i particolari della banalità dello sterminio. Attraversato il campo, Obama entra nel museo, vede ciò che resta dei manufatti della soluzione finale. Ci sono anche le foto scattate dopo la liberazione che ritraggono il sedicenne Wiesel: dentro una baracca, fra gli orfani.
Quando il presidente arriva di fronte ai giornalisti, esordisce con un «non dimenticherò mai ciò che ho visto». E poi racconta il legame personale con l’Olocausto: «Il mio prozio Charles Payne fu fra i primi soldati della 89° divisione a entrare a Ohrdruf, uno dei campi collegati a Buchenwald, e quanto vide lo fece chiudere nel silenzio al ritorno a casa». L’altro americano che Obama ricorda è «il comandante del mio prozio, il generale Eisenhower» che ordinò «ai suoi soldati, agli abitanti dei vicini centri tedeschi e ai giornalisti» di «andare a vedere di persona, fotografare e filmare» quanto avvenuto a Buchenwald «per evitare che in futuro qualcuno potesse dire che tutto ciò è propaganda».
E’ qui che Obama vede la connessione con l’oggi, dice che l’ordine di testimonianza assegnato da Eisenhower «resta da compiere» perché «c’è chi afferma che «l’Olocausto non è mai avvenuto» in una maniera «odiosa e ignorante» che «impone di reagire a chi dice bugie sulla nostra storia» perché «l’orrore di questi luoghi non passa con il tempo». Il riferimento è al presidente iraniano, che ha sollevato dubbi sulle «prove» dell’Olocausto. In un’intervista Obama chiama in causa Ahmadinejad: «Dovrebbe andare a Buchenwald, non ho pazienza con chi nega la storia, non si specula sull’Olocausto». Obama va oltre il rigetto del negazionismo, vede «in quanto avvenuto qui l’insegnamento che dobbiamo vigilare contro il Male nel nostro tempo, respingendo l’idea che la sofferenza del prossimo non ci riguarda».
Vicino a Obama, Merkel parla della «missione tedesca» di «affinché quanto avvenne non si ripeta» e ricorda anche altre vittime: «Quando a usare questo lager furono i sovietici». Reduce dal discorso del Cairo sull’inclusione dell’Islam nell’identità americana, le tappe nell’ex lager e a Dresda - che fu distrutta da un bombardamento alleato - servono a Obama per farsi testimone delle ferite europee alla vigilia della celebrazione dello sbarco in Normandia.

La Stampa-Elie Wiesel: " Mio padre morì qui. Non potevo aiutarlo "

L’essere venuto qui oggi è un po’ come essere andato alla tomba di mio padre. Ma mio padre non ha una tomba. E’ da qualche parte nel cielo, divenuto in quegli anni il più grande cimitero di ebrei. Il giorno che è morto è stato uno dei più terribili della mia vita. Era sempre più malato e debole e io assistevo alle sue sofferenze. Ero lì quando chiese aiuto, chiese acqua. Ero lì quando pronunciò le sue ultime parole. Ma non ero più accanto a lui quando mi chiamò, per quanto eravamo nella stessa baracca: lui nel letto di sopra, io sotto. Mi chiamò per nome, ma io avevo troppa paura di muovermi. Tutti avevamo paura. Poi morì. Ero lì, ma non ero lì.
Allora pensai che un giorno sarei tornato e avrei parlato a lui, raccontandogli il mondo nel quale avrei vissuto. Gli sto parlando di tempi in cui la memoria è diventata un sacro dovere di tutte le persone di buona volontà. Posso dirgli qualcosa sulla lezione che il mondo ha imparato? Non ne sono certo. Signor presidente Obama, abbiamo riposto tante speranze in lei perché, grazie alla sua visione morale della storia, lei può rendere questo mondo un posto migliore, dove la gente smetterà di fare la guerra - sempre assurda e insensata - e odiarsi.
Ma il mondo non ha imparato. Quando venni liberato dall’esercito americano, l’11 aprile 1945, molti di noi pensarono che almeno una lezione era stata imparata, che non ci sarebbe mai più stata una guerra, che l’odio non è una soluzione, che il razzismo è stupido e il desiderio di conquistare le menti, il territorio e le aspirazioni degli altri non aveva senso.
Ero pieno di speranze, paradossalmente, come molti di noi,per quanto proprio noi avevamo il diritto di lasciar perdere l’umanità, la cultura, l’educazione, di abbandonare la possibilità di vivere la nostra vita con dignità, in un mondo dove essa non aveva più posto. Avevamo respinto questa possibilità, e ci eravamo detti: no, dobbiamo continuare a credere nel futuro perché il mondo ha imparato. Ma non imparò nulla, altrimenti non ci sarebbero stati la Cambogia e il Ruanda, il Darfur e la Bosnia.
Il mondo imparerà mai? Penso che proprio per questo Buchenwald sia così importante, come Auschwitz, ma in modo diverso. Questo campo fu una sorta di comunità internazionale, che raccoglieva gente di provenienza politica, economica e culturale più diversa. Il primo esperimento di globalizzazione fu condotto qui. E si fece tutto il possibile per ridurre l’umanità degli umani. Per noi era umano essere disumani. Ma spero che il mondo abbia imparato qualcosa. Questa speranza include molto di quello che dice lei, signor presidente: sicurezza per Israele e per i suoi vicini, pace in quella regione. Basta andare ai cimiteri. Deve arrivare un momento per mettere la gente insieme e superare le divisioni. Chiunque sia oggi qui deve tornare indietro con la risolutezza di farlo. La memoria deve unire e non dividere. Non deve sollevare nei nostri cuori la rabbia, ma un sentimento di solidarietà con quelli che hanno bisogno di noi. Cos’altro possiamo fare se non invocare la memoria ?
Un grande uomo, Camus, scrisse nella conclusione del suo meraviglioso romanzo “La Peste”: «Dopo tutto, dopo la tragedia, nell’essere umano restano più cose da celebrare che da denigrare». E questa è una verità che, con tutto il dolore che ciò comporta, troviamo qui a Buchenwald. Grazie, signor presidente, per avermi permesso di tornare alla tomba di mio padre, che è sempre nel mio cuore.
Dal discorso di ieri a Buchenwald

Corriere della Sera- Francesco Battistini: " Altro che discorso ingenuo, ha parlato al cuore di tutti " Intervista con Amos Oz

GERUSALEMME — Rapito. «Que­st’uomo ha superato tutte le aspettati­ve ». Epico. «Ho sentito toni storici». Ri­voluzionario. «Mi aspettavo che aggre­disse la questione palestinese, ma qui sta accelerando i tempi».
Nella sua casa di Arad, per una volta Amos Oz ha chiuso le luminose vetrate sul magnifico Negev che l’incantano prima di scrivere e, giovedì, ha aperto la piccola finestra televisiva che di soli­to è il disincanto della realtà. Il giorno dopo, se n’è fatto un’idea definitiva: «È stato un grande discorso. Uno di quelli che restano nella storia. Obama lo sapeva e infatti ha dato i toni e i con­tenuti che ci si aspettano da un presi­dente americano. Mi ha impressionato per la capacità di dosare tutti gli ele­menti. Ha dato un’impressione di gran­dezza, altro che discorso ingenuo e naif. È volato sopra le piccole dispute politiche, sopra le rivendicazioni del­l’ultima settimana. Ha allargato l’oriz­zonte. È stato un componimento mol­to ben armonizzato in cui ha lasciato spazio al cuore. Ha parlato col cuore: ai musulmani, agli ebrei, agli arabi. Con equilibrio. Dimostrando uno studio molto profondo di ciò che unisce e ciò che divide».
Se dopo il Cairo, dice un sondaggio appena sfornato, il 53% degl’israeliani ha paura dell’uomo nero venuto da Chicago — «sarà un problema per Isra­ele » —, Oz sta con l’altro 47. Lui che si cambiò il nome da Klausner in Oz, che vuole dire forza, è convinto che «un ri­sultato è possibile perché la forza, Oba­ma, ce l’ha. La volontà, anche. Sono le due cose che servono a un leader». Lo scrittore non si sente turbato dalla «gaffe» che perfino Avigdor Lieber­man rinfaccia al presidente Usa, l’aver paragonato la Shoah alla tragedia pale­stinese: «Io l’ho seguito con cura. Sta­mattina me lo sono anche riletto passo passo. Obama non ha fatto nessun pa­rallelo fra la Shoah e la Nakba palesti­nese. Lui ha ricordato all’Iran, e l’ha ri­fatto nei lager tedeschi, che l’Olocau­sto non può essere negato, perché que­sto è un delitto contro l’umanità. Ma ha detto anche a Israele che non si può negare la sofferenza dei palestinesi. Non ha paragonato due tragedie, ha pa­ragonato due negazioni. Queste accu­se nascondono altro. Che ci sono due tipi d’israeliani: chi vuole vivere in pa­ce coi vicini arabi e tornare ai confini prima del 1967, chi vuole che resti tut­to com’è».
Raccontano che Netanyahu alla fi­ne non l’abbia presa malissimo. Che s’aspettava peggio: «Non mi ha preso a mazzate da baseball», avrebbe com­mentato.
«Meno male che ci crede. Netan­yahu ora dovrà inventarsi qualcosa. Non può più tergiversare, deve dire chiaramente con chi sta. Vuole ridiscu­tere i confini del 1967 o no? Prima che all’America, deve dirlo agl’israeliani. Il problema è che non ho affatto idea di che cosa risponderà. Non ce l’ho io e, quel che è peggio, temo non ce l’abbia neanche lui. Serve una risposta in tem­pi brevi, però. Qui ormai si ragiona per settimane. Non so se ci sarà un terre­moto politico in Israele. Tutto può ac­cadere, adesso».
Piccolo retrosce­na. Dopo il discorso ufficiale, in una sala dell’università cairo­ta, Obama ha convo­cato sei giornalisti per un'intervista. C’erano un israelia­no, una palestinese, un egiziano, un sau­dita, un malese e un indonesiano. Aveva invitato anche un si­riano e un libanese sciita, ma questi due hanno rifiutato: allora l’asse del ma­le c’è ancora?
«Qualcuno confonde il dialogo con la debolezza. Sul fronte palestinese, per esempio, mi sembra sia piuttosto chia­ro che Obama abbia deciso di lasciar fuori Hamas, finché non riconosce lo Stato d’Israele. Della rappresentanza politica, ricevendolo pure a Washin­gton, ha investito Abu Mazen. Anche con l’Iran, Obama vuole evitare ogni fronte polemico. La sua strategia è evi­tare ogni accenno alla forza, almeno per adesso. In altre occasioni, l’ha già detto: volete o no un dialogo? Non mi sembra che ci sia stata una risposta ne­gativa e immediata. Ha risposto Hezbol­lah, e male. Ma Hezbollah non è l’Iran. Bisogna aspettare. Certo, non c’è da es­sere ottimisti. E se l’Iran risponderà in modo negativo, è chiaro che l’approc­cio cambierà. Ma il suo è stato un di­scorso ufficiale. Solenne. E merita una risposta ufficiale. Altrettanto solenne».

Il Foglio- " Per Podhoretz il discorso di Obama mira a rovesciare Netanyahu "

 New York. Il decano degli intellettuali neoconservatori, Norman Podhoretz, spiega al Foglio perché non gli è affatto piaciuto il discorso di Barack Obama al Cairo: “E’ una dichiarazione di guerra contro Israele”, oltre che un “tentativo per rovesciare il governo Netanyahu”. L’idea che ci sia “un’equivalenza morale tra noi e i musulmani, tra gli israeliani e i palestinesi”, per Podhoretz è “vergognosa” e “scandalosa”. Sono tre anni che Norman Podhoretz sostiene la soluzione militare per distruggere i siti militari nucleari dell’Iran. Sperava lo facesse George W. Bush, ha perso le speranze in Obama e ora si augura che lo faccia il premier israeliano Benjamin Netanyahu perché per quanto terribile possa essere uno scenario di guerra, non sarà mai paragonabile al “quasi certo” scontro nucleare che ci sarà nel caso in cui gli ayatollah islamici iraniani si doteranno della bomba. Podhoretz è convinto che Obama, e non solo lui, si sia “rassegnato alla bomba iraniana” da prima del discorso al Cairo.  A Norman Podhoretz il discorso di Barack Obama al Cairo, per usare un eufemismo, non è piaciuto. Ottant’anni tra sei mesi, con un altro libro in uscita l’otto settembre dal titolo “Why the Jews are Liberal?”, il decano degli intellettuali neoconservatori giudica il discorso del presidente americano al mondo arabo e islamico come “una dichiarazione di guerra contro Israele” e “il tentativo per rovesciare il governo Netanyahu”. Per il resto, dice Podhoretz al Foglio, “è roba già risaputa e vergognosa: l’idea che ci sia un’equivalenza morale tra noi e i musulmani, tra gli israeliani e i palestinesi è scandalosa per un presidente americano”. Podhoretz riconosce che gli speechwriter di Obama sono bravi e capaci, ma ritiene che la loro retorica sia “al servizio di idee e atteggiamenti sbagliati”. Sono almeno tre anni che Norman Podhoretz sostiene apertamente la soluzione militare per distruggere i siti militari nucleari dell’Iran. Sperava lo facesse George W. Bush, ma è rimasto deluso. Non esclude nulla per il futuro, perché “una cosa sono i discorsi, un’altra la necessità di affrontare sul serio le crisi internazionali”, ma Podhoretz da prima del discorso al Cairo è convinto che Obama si sia “rassegnato alla bomba iraniana”, e non solo Obama, “ma anche l’intero establishment di politica estera degli Stati Uniti e molte cancellerie europee”. Fino a poco tempo fa, ricorda l’ex direttore di Commentary, “Obama, Hillary e tutti quanti dicevano che una bomba iraniana sarebbe stata ‘inaccettabile’, ora si stanno spostando su una posizione, che prima respingevano, secondo cui possiamo convivere con un Iran nucleare e che la deterrenza funzionerà, così come ha funzionato con potenze ben più grandi come Russia e Cina durante la Guerra fredda”. Secondo Podhoretz è “un errore terribile” paragonare gli ayatollah iraniani ai leader comunisti, perché “non si tiene conto dell’elemento suicida” che è presente nella storia del regime islamico. Russia e Cina, aggiunge, non volevano essere distrutti da un’escalation militare, mentre se si ascolta cosa dicono gli iraniani non c’è questa preoccupazione: “L’ex presidente Rafsanjani, che tutti considerano un moderato, ha detto che in caso di scontro nucleare Israele verrà distrutto, ma l’islam sopravviverà. Non ha detto l’Iran, ha detto l’islam”. La cosa che Obama e i suoi non capiscono, dice Podhoretz, è che “gli ayatollah e l’islam non riconoscono l’importanza degli stati-nazione, ma soltanto la ‘dar alre Islam’, la casa dell’islam”. L’idea stessa alla base della deterrenza, cioè che i leader iraniani metteranno al centro gli interessi dello stato invece che quelli dell’islam, secondo Podhoretz, è “ridicola”, perché quello di Teheran è un regime abituato a “mandare i bambini a suicidarsi” sui campi minati di Saddam “con una chiave di plastica attaccata al collo, la chiave per il paradiso”. In occidente, spiega Podhoretz, “molta gente non comprende la religione, pensa sia impossibile che ci possa essere qualcuno che davvero creda a queste cose, che agisca di conseguenza e che sacrifichi la sua vita”. Se c’è qualcuno che lo fa notare, dice Podhoretz, cominciano a “ridicolizzare quella che chiamano ‘reductio ad hitlerium’, dimenticandosi però che nel 1938-39 si diceva esattamente quello che si dice oggi degli ayatollah, e cioè che in realtà Hitler non intendeva fare quello che poi invece ha fatto, ma che parlava e basta”. Podhoretz ricorda, inoltre, che “gli sciiti credono che il loro messia, il Mahdi, il dodicesimo Imam, tornerà dopo una guerra apocalittica e che per il loro punto di vista uno scontro nucleare è una cosa positiva”. A chi teme che un Iran con la bomba possa scatenare una corsa mediorientale al nucleare, Podhoretz risponde che “saremo fortunati se ci sarà il tempo per una corsa nucleare, perché una volta che gli ayatollah si faranno la bomba saremo vicinissimi al pericolo di uno scontro nucleare tra Iran e Israele”. Podhoretz sostiene che “quando l’Iran avrà le testate nucleari, Israele dovrà decidere se aspettare un attacco o prevenirlo, e gli iraniani faranno lo stesso ragionamento e alla fine uno di loro lancerà un missile nucleare e solo Dio sa che cosa succederà dopo”. Tra tutte le cose terribili che potranno accadere, secondo Podhoretz, “la migliore resta che Israele o l’America attacchino i siti nucleari iraniani adesso che Teheran non ha la bomba. Anche immaginando i peggiori scenari possibili di un attacco, non sarebbero paragonabili alle conseguenze di uno scontro nucleare”. Podhoretz spera nel governo israeliano. “Non conosco i programmi di Netanyahu, ma credo che colpirà i siti nucleari iraniani. Non ha alternativa. Non so come potrà fare, militarmente, strategicamente e politicamente, senza il consenso americano, ma non ha molto da perdere perché il sostegno americano lo perderà in ogni caso se Obama imporrà un impossibile ultimatum sulla questione degli insediamenti.

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