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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Ilaria Pavan e Francesca Pelini, La doppia epurazione. L'Università di Pisa e le leggi razziali tra guerra e dopoguer­ra 05/06/2009

 La doppia epurazione. L'Università di Pisa e le leggi razziali tra guerra e dopoguerra      Ilaria Pavan e Francesca Pelini
Il Mulino    Euro 21

Con l’estromissione degli ebrei a segui­to delle leggi razziali del ’38, l’univer­sità italiana ha conosciuto una dop­pia vergogna. Una, quella più nota an­che se con attenzione tardiva, è l’espulsione nel­­l’Italia fascista (ma il bilancio della «dispensa di servizio» è ancora impreciso) di «96 profes­sori ebrei ordinari e straordinari, 141 professori incaricati, 207 liberi docenti e 4 lettori allonta­nati dalle università, cui si andavano ad affian­care i 727 studiosi ebrei espulsi dalle accade­mie e dalle numerose istituzioni culturali del Paese». L’altra, ancora coperta da un velo di re­ticenza o addirittura di imbarazzata omertà, ri­guarda non l’Italia fascista ma quella democrati­ca che ostacolò il rientro nei ranghi accademici degli ebrei perseguitati. È la «doppia epurazio­ne » di cui scrivono Francesca Pelini e Ilaria Pa­van. «La lacerazione prodotta dalla persecuzio­ne antisemita nel dopoguerra non si rimargi­nò », si legge nel loro libro. Oggi questa doppia lacerazione viene finalmente affrontata senza remore, suscitando molti interrogativi sulla no­stra capacità di fare finalmente i conti con il passato.

Il libro è firmato da due autrici che però non ne sono le coautrici in senso stretto. La prima è Francesca Pelini, una giovane e valente studio­sa di Pisa che ha perso la vita nel 2005 (lo rac­conta nella commossa prefazione Paolo Pezzi­no). L’altra è Ilaria Pavan, che ha ripreso la tesi di laurea dell’amica scomparsa, l’ha ritoccata per darne una veste adatta alla pubblicazione e ha aggiunto una postfazione in cui riassume il senso non solo storiografico del lavoro della Pe­lini.

Ambedue prendono però le mosse dall’epu­razione antiebraica nell’ateneo pisano. Rico­struiscono i profili dei docenti di Pisa costretti ad emigrare, o ad adattarsi a lavori dequalifica­ti, o a cadere nella disperazione della disoccu­pazione. Storie terribili eppure tragicamente si­mili a quelle dei tanti professori italiani (cono­sciute soprattutto grazie ai lavori di Roberto Finzi) che persero cattedre, lavoro, paternità di libri, «sebbene l’esatta dimensione della ferita inferta all’accademia italiana dalle leggi razziali appare ancora oggi lontana». Meno nota è la dimensione dell’acquiescenza e del «complessi­vo silenzio indifferente con cui fu accolta e vis­suta l’espulsione di professori e studenti ebrei dall’accademia». Meno noto è che ci fu «un uni­co dignitoso diniego a succedere al professore ebreo cacciato», quello dello scrittore Massimo Bontempelli, «sino a quel momento fascista convinto e perfettamente integrato, che, chia­mato per chiara fama presso l’ateneo fiorenti­no, rifiutò di coprire l’insegnamento di lettera­tura italiana che era stato sino a quel momento di Attilio Momigliano». Meno noto è che a Pi­sa, nel novembre del ’44, il nuovo prorettore Luigi Russo nel suo discorso d’inaugurazione dell’anno accademico «non menzionò neppure per inciso, in quella prima simbolica occasio­ne, la cancellazione dalla turris eburnea dell’ac­cademia dei colleghi e degli alunni ebrei»: pro­prio l’«antifascista» Russo che nel ’42, scriven­do di Attilio Momigliano, sottolineava ambi­guamente in un momento storico delicatissi­mo «le sue particolari origini semitiche» che «ci possono aiutare a intendere certe attitudini ascetico-contemplatrici della sua mente, la soli­tudine fisica del suo stile e però anche qualche tiepidezza e distanza storica dalla sua opera let­teraria ».

Meno noto ancora è che nel dopoguerra molti docenti che erano subentrati nelle cattedre la­sciate vacanti dagli ebrei espulsi non solo non le restituirono ai loro legittimi titolari, ma si impe­gnarono allo stremo per evitare il reintegro dei colleghi vittime della legislazione razzista. «Nes­sun docente pisano», ha scritto la Pelini, «risultò
in qualche modo sanzionato». E soprattutto «dei venti professori ebrei che a Pisa nell’autunno 1938 erano stati sospesi dall’insegnamento, a guerra finita solo cinque poterono tornare — no­minalmente e temporaneamente — a occupare la cattedra forzatamente abbandonata». A quasi dieci anni di distanza il rientro conobbe difficol­tà psicologiche e pratiche. La reintegrazione dei docenti ebrei veniva registrata con estrema fred­dezza dalle autorità accademiche pisane, che af­frontarono la questione con il distaccato stile bu­rocratico di chi doveva risolvere una complicata e molesta incombenza. Inoltre si trattava di risar­cire i docenti con gli stipendi non corrisposti ne­gli anni dell’allontanamento forzato. Per di più la distanza fisica aveva impedito ai docenti ebrei di avanzare nei gradini della scala accademica proficuamente percorsi dai colleghi che ne aveva­no usurpato il posto.

Rientrò il giurista Renzo Bolaffi, che poi però decise di abbandonare definitivamente la carrie­ra universitaria dopo che gli era stato negato il ruolo di professore ordinario. Rientrò dal Ve­nezuela, dove aveva lavorato presso una impresa di olii minerali, Bruno Paggi, che però conobbe
talmente tanti ostacoli burocratici da consigliar­ne il trasferimento presso l’ospedale Santa Chia­ra di Pisa: dove morì, appena cinquantenne, nel 1951.

Conobbe una seconda persecuzione burocrati­ca l’otorinolaringoiatra Aldo Lopez, cui venne ne­gato persino il dovuto pagamento degli stipendi arretrati. E analoghi soprusi vennero inflitti al chirurgo Giorgio Millul e al medico legale Emdin Naftul. Il fisico Giulio Racah e Renzo Toaff scelse­ro alla fine Israele come loro nuova e definitiva patria. Non ebbero possibilità di scegliere altri docenti ebrei espulsi nel 1938: Enrica Calabresi, arrestata dai nazisti e morta suicida nel 1944; Raf­faello Menasci, arrestato a Roma nella retata del 16 ottobre del 1943 e deporta­to ad Auschwitz; Ciro Raven­na, ordinario di Chimica agraria, condotto nel campo di Fossoli e poi ucciso ad Au­schwitz.

Ma la lacerazione non fu sanata con la riconquista del­la democrazia. I professori ebrei trovarono spesso la strada sbarrata. Gli usurpato­ri non rinunciarono alle loro carriere abusive. Scrive la Pavan che la «comunità accademica ita­liana non ha avvertito l’urgenza di pronunciare autocritiche, neppure autocritiche di rito» e solo nel 1998, primo in Italia, l’ateneo bolognese «sen­tì il bisogno di ricordare con una lapide» l’igno­minia delle leggi razziali attuate «nel silenzio ac­quiescente della comunità scientifica».

La seconda epurazione, quella intollerabile perché messa in atto nell’Italia democratica, su­scita ancora reazioni autodifensive. Da Pisa parte la ricerca di una verità troppo a lungo taciuta.

Pierluigi Battista - Corriere della Sera


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