Qual è il vero Obama? Quello che in campagna elettorale si presentava come un ex ateo convertito al cristianesimo e convinto sostenitore dello Stato ebraico o quello di oggi, fiero delle proprie origini islamiche e sempre più esigente nei confronti di Gerusalemme? Tra i due c’è un abisso. E l’America inizia a interrogarsi sul significato autentico della spettacolare apertura del presidente verso il mondo musulmano, enfatizzata dalla visita di ieri e oggi a Riad e al Cairo. È solo realismo politico dettato dalla necessità di ricostruire in Medio Oriente il prestigio di un Paese scalfito dall’era Bush o è il sintomo di una convinzione personale, profonda, duratura, ma fino ad oggi sapientemente celata?
Di certo nel 2008 Obama faceva di tutto per nascondere le proprie radici religiose. Quando declamavano il suo nome per intero - Barack Hussein Obama - reagiva furiosamente, accusando i suoi nemici di voler spaventare gli elettori. Già, Hussein come Saddam Hussein. Nella sua biografia aveva descritto il padre come un idealista che, sebbene formalmente musulmano, non praticava la religione; anzi, non era nemmeno credente. Sapeva che questo era il suo punto debole (e potenzialmente fatale), in un’America ancora traumatizzata dall’11 settembre e dall’incubo del fondamentalismo islamico.
Ma a salvarlo fu, paradossalmente, John McCain, che, da gentiluomo qual è, decise che la religione non doveva diventare un tema di campagna. Niente fango sulla fede. E costrinse i suoi spin doctor a disarmare.
Trascorsi cinque mesi dall’insediamento alla Casa Bianca, Obama può essere finalmente se stesso e i suoi portavoce parlare liberamente dei suoi trascorsi. Oggi ricordano che il presidente «ha avuto esperienze di islam in tre continenti», ha dichiarato il viceconsigliere per la Comunicazione strategica Denis McDonough. Quali? «Ha vissuto parte dell’infanzia in Indonesia», con il secondo marito della madre, frequentando le scuole locali. «Suo padre, africano, era musulmano», come «i numerosi islamici dell’Illinois e del Chicago». Una realtà che Barack evidentemente conosceva bene.
Obama non nasconde più le proprie origini, ma le esalta. «Così può conquistare la fiducia e il rispetto dei governi arabi», assicurano i suoi collaboratori. Come dire: niente paura, si tratta solo di un’operazione simpatia. Marketing diplomatico, insomma.
Ma i dubbi aumentano, soprattutto considerando la sua politica nei confronti di Israele, che al Congresso molti giudicano squilibrata. Ben 329 parlamentari hanno firmato un appello, promosso da una lobby filoebraica, che chiede al presidente di collaborare intensamente e, soprattutto, privatamente con il governo di Gerusalemme, rinunciando a esercitare pressioni in pubblico, come avvenuto recentemente.
E tra i 329, molti erano democratici. «Penso che il presidente difenderebbe meglio gli interessi dell’America se obbligasse gli iraniani a eliminare la minaccia nucleare iraniana, anziché imbarazzare i nostri alleati e soprattutto l’unica democrazia in Medio Oriente», lo ha sferzato la compagna di partito Shelley Barkley.
In realtà il presidente si è limitato a chiedere il congelamento delle colonie israeliane in Cisgiordania e a difendere il diritto dei palestinesi ad avere uno Stato. Nulla di rivoluzionario, ma colpisce la differenza di toni. Agli arabi riserva lusinghe e attenzioni, anche a regimi che calpestano i diritti umani, come l’Arabia Saudita, o formalmente nemici, come l’Iran. Agli israeliani avvertimenti e critiche indispettite. Due pesi e due misure. A che cosa mira davvero Obama?
CORRIERE della SERA-Alessandra Coppola: " Ma Barack non è Bush, arabi pronti ad ascoltarlo "
Un’altra retorica, un’altra politica: rispetto agli anni di Bush, è un nuovo corso. Che al filosofo liberal americano Michael Walzer, apertamente, piace.
Le minacce di Al Qaeda possono mettere in difficoltà le aperture al mondo islamico del presidente democratico Barack Obama?
«Mi pare un errore politico mandare un messaggio prima del discorso cruciale sul Medio Oriente (oggi al Cairo, ndr) — osserva il professore —. Quella di Osama è una dichiarazione di guerra continua. Mentre Obama sta cercando chiaramente una miscela di diplomazia e forza, diversa da quella adottata dall’amministrazione Bush. Credo che le persone intelligenti in Medio Oriente dovrebbero aspettare di vedere qual è la ricetta prima di criticarla. È presto per dirlo, ma probabilmente ora nel mondo islamico c’è più gente disposta ad ascoltare gli Stati Uniti».
Alla vigilia del viaggio, Obama ha già dato alcune indicazioni sulla nuova formula, marcando una distanza dalla precedente amministrazione repubblicana e dalla dottrina dell’esportazione della democrazia. Solo forma, come dicono i detrattori?
«Il modo in cui la gente parla influenza il modo in cui si comporta. Mi chiedete se è anche un cambiamento politico. Non ho mai avuto fiducia nella seria convinzione dei bushiani di imporre la democrazia: hanno spinto per le elezioni e poi, scontenti dei risultati, hanno smesso di fare pressioni. La politica estera si svolge nell’ambito della società internazionale, che include ogni sorta di Stati, anche brutali e barbari: sono comunque membri di questa che è la più tollerante delle società. I diplomatici vanno in capitali come Mosca, Teheran, Pechino e stringono mani di funzionari che rappresentano governi anche sgradevoli. Ma è così che la comunità internazionale funziona: devi cercare di farla andare avanti e mantenere la pace. Militanti di sinistra e attivisti per i diritti umani hanno un’agenda diversa: sono impegnati per il cambiamento dei regimi».
E criticano la stretta di mano di Obama con il re saudita Abdallah o con il presidente egiziano Mubarak...
«Abbiamo bisogno di una visione complessa dei regimi autoritari come quello di Mubarak. Pensiamo al passato, ad Atatürk: anche se autoritario, ha reso possibile la democrazia turca moderna. Bisogna mantenere questa doppia visione: da un lato questi regimi hanno un necessario ruolo storico; dall’altro noi liberal e democratici dobbiamo opporci».
Obama è interessato a un ruolo da mediatori per Riad e il Cairo nel conflitto arabo- israeliano. Anche in questo contesto, soprattutto nei confronti dello Stato ebraico, la politica americana è cambiata...
«L’amministrazione Obama non sembra volere negoziare la pace con un governo che sostiene gli insediamenti. Ed è giusto fare forti pressioni su Israele, così come sui palestinesi per il terrorismo. È un lavoro che va necessariamente fatto all’interno, prima di un accordo. Dopo la vittoria sui coloni e sul terrorismo, la pace sarà facile».
Se in Iraq l’amministrazione Obama cerca un ritiro a breve, in Afghanistan è sempre più coinvolta. Una «guerra giusta», per usare una sua espressione?
«L’amministrazione Bush ha lanciato l’attacco dopo l’11 settembre 2001 come pura guerra di combattimento, ma combattuta molto male, con poche risorse e nessun impegno per la ricostruzione. Obama ha ereditato un disastro. Non può semplicemente andarsene: eravamo lì per delle buone ragioni, è stata una guerra giusta, ora abbiamo degli obblighi nei confronti degli afghani. Ed è importante che riesca: un buon risultato può avere ripercussioni in tutto il mondo islamico».
CORRIERE della SERA-Viviana Mazza: " Rispetto e cooperazione, ecco le parole chiave dell'appello all' islam "
Dalia Mogahed, la consulente di Obama per i rapporti con il mondo musulmano, che in Egitto è nata, ha raccomandato al presidente tre temi: «Rispetto, empatia e cooperazione », dice al telefono da Washington. Ma nota anche che contribuire alla risoluzione di conflitti come quello tra Israele e i palestinesi è fondamentale se gli Stati Uniti vogliono migliorare i rapporti con il mondo musulmano. E aggiunge che «sono necessarie delle scadenze, altrimenti il processo di dialogo perde credibilità ».
Musulmana, velata, Mogahed ha lasciato Il Cairo a 5 anni con la famiglia borghese. Cittadina americana, laurea in ingegneria e master in business administration, è il capo del Centro Gallup per gli Studi musulmani. I suoi consigli a Obama sono basati sul sondaggio più ampio mai realizzato nei Paesi islamici, rappresentativo di un miliardo di musulmani. Mogahed e John Esposito hanno pubblicato i risultati nel libro Who Speaks for Islam? che uscirà in Italia a ottobre ( Il libro che l’Islam non ti farebbe mai leggere,
Newton Compton editori). Secondo la ricerca, solo il 7% dei musulmani sono estremisti (identificati come coloro che giustificano l’11 settembre). Ma anche tra la maggioranza moderata, il 60% ha una visione negativa degli Usa. «Le ragioni principali sono tre — dice Mogahed —: la percezione di una mancanza di rispetto, la rabbia per conflitti acuti come quello israelo-palestinese, le guerre in Iraq e Afghanistan, e altre come quella tra Hezbollah e Israele nel 2006 e l’ultima a Gaza, in cui viene percepito un coinvolgimento diretto o indiretto degli Usa. E infine la percezione che l’America manipoli la realtà politica della regione. Perciò ho proposto al presidente di continuare a dare enfasi al tema del rispetto, e poi di puntare sull’empatia, perché negli ultimi 8 anni i soli a mostrare comprensione per i problemi della gente sono stati gli estremisti, e sul tema della cooperazione con la comunità musulmana globale, che chiede un rapporto di uguaglianza con l’Occidente». Una cooperazione in vista di un nuovo piano di pace per il Medio Oriente? Sono il presidente e il suo team di politica estera a decidere i contenuti precisi del discorso, dice Mogahed. Il suo parere: «I discorsi creano uno spazio psicologico per il dialogo, ma alimentano anche aspettative che devono servire da base per azioni successive». Re Abdallah di Giordania, con il quale la Casa Bianca avrebbe discusso del coinvolgimento nel processo di pace di 57 Stati musulmani (che dovrebbero riconoscere Israele), ha detto che in assenza di un piano entro un anno, il Medio Oriente rischia di cadere nelle mani degli estremisti. In effetti, osserva Mogahed, «sono le percezioni politiche e non l’ideologia religiosa a portare all’estremismo. La minoranza che si dice favorevole al terrorismo cita il conflitto israelo- palestinese per giustificarlo, oltre all’imperialismo americano e al desiderio di vendicarsi per le vittime civili. Ciò suggerisce che i cambiamenti politici potrebbero modificare il loro punto di vista». La consulente di Obama non ha ricevuto finora solo applausi: i conservatori Usa l’hanno attaccata perché ritiene giusto dialogare con la Fratellanza musulmana (mentre crede che si debba parlare con Hamas solo dopo la rinuncia alle armi e il riconoscimento di Israele), e in Egitto c’è chi ha obiettato che al primo posto dovrebbe mettere l’Islam mentre lei si dichiara fedele prima di tutto agli Stati Uniti. Ma Mogahed crede fermamente nel dialogo, anche con l’Iran.
CORRIERE della Sera-Antonio Ferrari: " La forza del dialogo "
Mai una missione nel Medio Oriente di un presidente degli Stati Uniti aveva calamitato tante speranze ed era stata caricata di tante aspettative. A Barack Obama, che in meno di 48 ore visita due soli paesi, Arabia Saudita ed Egitto, tradizionali alleati di Washington, tutti hanno qualcosa da chiedere. Esiste poi il motivato timore che molti siano pronti a piegare le sue parole, individuandovi le coordinate di sempre: più amico degli arabi e meno amico di Israele, o viceversa.
Errore grave, perché Obama ha già anticipato quel che dirà oggi all'università del Cairo: volontà di dialogare con tutti, rinuncia all' imposizione ma appello alla condivisione di valori che sono universali, come la libertà, i diritti umani e una democrazia che, germogliando su basi culturali diverse, educhi al rispetto dell'altro. Messaggio semplice ma assai importante, perché non è rivolto alle passioni, alle appartenenze, ma va diritto alle menti di tutti i protagonisti: moderati ed estremisti.
Parlare alla mente può essere più incisivo e devastante di una guerra. Quindi non stupisce, anzi era quasi scontato che dalle catacombe della ragione si alzassero le minacce registrate del redivivo Osama bin Laden, capo-terrorista a comando, contro Barack Obama, appena giunto a Riad, accusato di «spargere i semi dell'odio». Ben sapendo che l'appello del presidente Usa punta a prosciugare le cause che, nel passato, avevano consentito di far lievitare proprio il fronte dell' odio.
Obama non è paragonabile al filo-arabo Jimmy Carter, che benedisse la pace di Camp David tra Israele ed Egitto ma poi favorì il rientro in Iran di Khomeini, diventando alla fine la vittima politica della stessa rivoluzione degli ayatollah. Non è Bill Clinton, che pensava con frettolosa determinazione di risolvere tutti i conflitti del Medio Oriente (dagli accordi di Oslo al fallito vertice di Ginevra con il presidente siriano Hafez el Assad, fino al fiasco di Camp David con il premier israeliano Barak e Arafat). Non è ovviamente Bush jr. ma non somiglia neppure a Bush padre, che nel '91, per costringere Israele a partecipare alla conferenza di pace di Madrid, non esitò a ricorrere ad un quasi-ricatto finanziario, negando le garanzie su un prestito di 10 miliardi di dollari.
Al contrario, Obama punta tutto sulla diplomazia: «Che - sono sue parole - ha tempi lunghi, lenti, ma sicuramente proficui. Non si possono mai avere risultati immediati». Vale per il congelamento degli insediamenti, per rilanciare la formula dei «Due stati», nonostante l'opposizione del premier israeliano Netaniahu. Vale per l'Iran di Ahmadinejad e le sue ambizioni nucleari offensive. Che la forza del dialogo, coniugata con la determinazione a combattere chi lo rifiuta, risulti vincente si vedrà.
Ma alla richiesta dello scrittore e accademico egiziano Ezzedine Choukri Fishere dalle colonne di «Al Ahram weekly» («Lei non ha bisogno di visitare moschee, di partecipare a celebrazioni esotiche, di abbracciare leader religiosi. Se vuole conquistare i nostri cuori conquisti prima le nostre menti»), Barack Obama ha già risposto. E' quel che si propone di fare.

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