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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale-Corriere della Sera Rassegna Stampa
04.06.2009 Obama e la forza del dialogo, lui ci crede, ma il problema sono gli altri
opinioni a confronto

Testata:Il Giornale-Corriere della Sera
Autore: Marcello Foa-Alessandra Coppola-Viviana Mazza-Antonio Ferrari
Titolo: «E ora l' America si interroga sul presidente pro-islam-Ma Barack non è Bush, arabi pronti ad ascoltarlo-Rispetto e cooperazione, ecco le parole chiave dell'appello all' islam-La forza del dialogo»

Cronache, commenti  e interviste sul viaggio di Obama sono in larga parte improntate sull'importanza del dialogo, che Obama avrebbe riportato sugli altari. Ci chiediamo che cosa non sia avvenuto in tutti questi anni da parte occidentale se non il tentativo di dialogare con il nemico, un dialogo che si è interrotto solo per responsabilità del terrorismo fondamentalista. Marcello Foa sul GIORNALE  analizza i dubbi che cominciano a farsi strada in Usa, Alessandra Coppola e Viviana Mazza  sul CORRIERE della SERA intervistano il politologo Michael Walzer e Dalia Mogahed, collaboratrice di Obama per i rapporti con l'islam, due articoli nei quali si riaffermano i valori civili di coesistenza, peccato che  questi valori  siano negati dall'islamismo che ha in serbo ben altri progetti. Corretta l'analisi dell'editoriale di Antonio Ferrari, vedremo se il titolo " La forza del dialogo " avrà seguito migliore di quelli che abbiamo visto in questi ultimi decenni. Ecco gli articoli:

IL GIORNALE-Marcello Foa: " E ora l' America si interroga sul presidente pro-islam "

Qual è il vero Obama? Quello che in campagna elettorale si presentava come un ex ateo convertito al cristianesimo e convinto sostenitore dello Stato ebraico o quello di oggi, fiero delle proprie origini islamiche e sempre più esigente nei confronti di Gerusalemme? Tra i due c’è un abisso. E l’America inizia a interrogarsi sul significato autentico della spettacolare apertura del presidente verso il mondo musulmano, enfatizzata dalla visita di ieri e oggi a Riad e al Cairo. È solo realismo politico dettato dalla necessità di ricostruire in Medio Oriente il prestigio di un Paese scalfito dall’era Bush o è il sintomo di una convinzione personale, profonda, duratura, ma fino ad oggi sapientemente celata?
Di certo nel 2008 Obama faceva di tutto per nascondere le proprie radici religiose. Quando declamavano il suo nome per intero - Barack Hussein Obama - reagiva furiosamente, accusando i suoi nemici di voler spaventare gli elettori. Già, Hussein come Saddam Hussein. Nella sua biografia aveva descritto il padre come un idealista che, sebbene formalmente musulmano, non praticava la religione; anzi, non era nemmeno credente. Sapeva che questo era il suo punto debole (e potenzialmente fatale), in un’America ancora traumatizzata dall’11 settembre e dall’incubo del fondamentalismo islamico.
Ma a salvarlo fu, paradossalmente, John McCain, che, da gentiluomo qual è, decise che la religione non doveva diventare un tema di campagna. Niente fango sulla fede. E costrinse i suoi spin doctor a disarmare.
Trascorsi cinque mesi dall’insediamento alla Casa Bianca, Obama può essere finalmente se stesso e i suoi portavoce parlare liberamente dei suoi trascorsi. Oggi ricordano che il presidente «ha avuto esperienze di islam in tre continenti», ha dichiarato il viceconsigliere per la Comunicazione strategica Denis McDonough. Quali? «Ha vissuto parte dell’infanzia in Indonesia», con il secondo marito della madre, frequentando le scuole locali. «Suo padre, africano, era musulmano», come «i numerosi islamici dell’Illinois e del Chicago». Una realtà che Barack evidentemente conosceva bene.
Obama non nasconde più le proprie origini, ma le esalta. «Così può conquistare la fiducia e il rispetto dei governi arabi», assicurano i suoi collaboratori. Come dire: niente paura, si tratta solo di un’operazione simpatia. Marketing diplomatico, insomma.
Ma i dubbi aumentano, soprattutto considerando la sua politica nei confronti di Israele, che al Congresso molti giudicano squilibrata. Ben 329 parlamentari hanno firmato un appello, promosso da una lobby filoebraica, che chiede al presidente di collaborare intensamente e, soprattutto, privatamente con il governo di Gerusalemme, rinunciando a esercitare pressioni in pubblico, come avvenuto recentemente.
E tra i 329, molti erano democratici. «Penso che il presidente difenderebbe meglio gli interessi dell’America se obbligasse gli iraniani a eliminare la minaccia nucleare iraniana, anziché imbarazzare i nostri alleati e soprattutto l’unica democrazia in Medio Oriente», lo ha sferzato la compagna di partito Shelley Barkley.
In realtà il presidente si è limitato a chiedere il congelamento delle colonie israeliane in Cisgiordania e a difendere il diritto dei palestinesi ad avere uno Stato. Nulla di rivoluzionario, ma colpisce la differenza di toni. Agli arabi riserva lusinghe e attenzioni, anche a regimi che calpestano i diritti umani, come l’Arabia Saudita, o formalmente nemici, come l’Iran. Agli israeliani avvertimenti e critiche indispettite. Due pesi e due misure. A che cosa mira davvero Obama?
 
CORRIERE della SERA-Alessandra Coppola: " Ma Barack non è Bush, arabi pronti ad ascoltarlo "
Un’altra retorica, un’altra po­litica: rispetto agli anni di Bu­sh, è un nuovo corso. Che al fi­losofo liberal americano Micha­el Walzer, apertamente, piace.
Le minacce di Al Qaeda pos­sono mettere in difficoltà le aperture al mondo islamico del presidente democratico Barack Obama?
«Mi pare un errore politico mandare un messaggio prima del discorso cruciale sul Medio Oriente (oggi al Cairo, ndr) — osserva il professore —. Quella di Osama è una dichiarazione di guerra continua. Mentre Obama sta cercando chiara­mente una miscela di diploma­zia e forza, diversa da quella adottata dall’amministrazione Bush. Credo che le persone in­telligenti in Medio Oriente do­vrebbero aspettare di vedere qual è la ricetta prima di criti­carla. È presto per dirlo, ma probabilmente ora nel mondo islamico c’è più gente disposta ad ascoltare gli Stati Uniti».
Alla vigilia del viaggio, Oba­ma ha già dato alcune indica­zioni sulla nuova formula, marcando una distanza dalla precedente amministrazione repubblicana e dalla dottrina dell’esportazione della demo­crazia. Solo forma, come dico­no i detrattori?
«Il modo in cui la gente par­la influenza il modo in cui si comporta. Mi chiedete se è an­che un cambiamento politico. Non ho mai avuto fiducia nella seria convinzione dei bushiani di imporre la democrazia: han­no spinto per le elezioni e poi, scontenti dei risultati, hanno smesso di fare pressioni. La po­litica estera si svolge nell’ambi­to della società internazionale, che include ogni sorta di Stati, anche brutali e barbari: sono comunque membri di questa che è la più tollerante delle so­cietà. I diplomatici vanno in ca­pitali come Mosca, Teheran, Pe­chino e stringono mani di fun­zionari che rappresentano go­verni anche sgradevoli. Ma è così che la comunità internazio­nale funziona: devi cercare di farla andare avanti e mantene­re la pace. Militanti di sinistra e attivisti per i diritti umani han­no un’agenda diversa: sono im­pegnati per il cambiamento dei regimi».
E criticano la stretta di ma­no di Obama con il re saudita Abdallah o con il presidente egiziano Mubarak...
«Abbiamo bisogno di una vi­sione complessa dei regimi au­toritari come quello di Muba­rak. Pensiamo al passato, ad Atatürk: anche se autoritario, ha reso possibile la democrazia turca moderna. Bisogna mante­nere questa doppia visione: da un lato questi regimi hanno un necessario ruolo storico; dall’al­tro noi liberal e democratici dobbiamo opporci».
Obama è interessato a un ruolo da mediatori per Riad e il Cairo nel conflitto ara­bo- israeliano. Anche in que­sto contesto, soprattutto nei confronti dello Stato ebraico, la politica americana è cam­biata...
«L’amministrazione Obama non sembra volere negoziare la pace con un governo che sostie­ne gli insediamenti. Ed è giu­sto fare forti pressioni su Israe­le, così come sui palestinesi per il terrorismo. È un lavoro che va necessariamente fatto al­l’interno, prima di un accordo. Dopo la vittoria sui coloni e sul terrorismo, la pace sarà facile».
Se in Iraq l’amministrazio­ne Obama cerca un ritiro a breve, in Afghanistan è sem­pre più coinvolta. Una «guer­ra giusta», per usare una sua espressione?
«L’amministrazione Bush ha lanciato l’attacco dopo l’11 set­tembre 2001 come pura guerra di combattimento, ma combat­tuta molto male, con poche ri­sorse e nessun impegno per la ricostruzione. Obama ha eredi­tato un disastro. Non può sem­plicemente andarsene: erava­mo lì per delle buone ragioni, è stata una guerra giusta, ora ab­biamo degli obblighi nei con­fronti degli afghani. Ed è im­portante che riesca: un buon ri­sultato può avere ripercussioni in tutto il mondo islamico».
CORRIERE della SERA-Viviana Mazza: " Rispetto e cooperazione, ecco le parole chiave dell'appello all' islam "
Dalia Mogahed, la consulente di Obama per i rapporti con il mondo musulmano, che in Egitto è nata, ha raccomandato al presidente tre te­mi: «Rispetto, empatia e cooperazio­ne », dice al telefono da Washin­gton. Ma nota anche che contribui­re alla risoluzione di conflitti come quello tra Israele e i palestinesi è fon­damentale se gli Stati Uniti vogliono migliorare i rapporti con il mondo musulmano. E aggiunge che «sono necessarie delle scadenze, altrimen­ti il processo di dialogo perde credi­bilità ».

Musulmana, velata, Mogahed ha lasciato Il Cairo a 5 anni con la fami­glia borghese. Cittadina americana, laurea in ingegneria e master in bu­siness administration, è il capo del Centro Gallup per gli Studi musul­mani. I suoi consigli a Obama sono basati sul sondaggio più ampio mai realizzato nei Paesi islamici, rappre­sentativo
di un miliardo di musul­mani. Mogahed e John Esposito han­no pubblicato i risultati nel libro Who Speaks for Islam? che uscirà in Italia a ottobre ( Il libro che l’Islam non ti farebbe mai leggere,

Newton Compton editori). Secondo la ricerca, solo il 7% dei musulmani sono estremisti (identificati come coloro che giustificano l’11 settem­bre). Ma anche tra la maggioranza moderata, il 60% ha una visione ne­gativa degli Usa. «Le ragioni princi­pali sono tre — dice Mogahed —: la percezione di una mancanza di ri­spetto, la rabbia per conflitti acuti come quello israelo-palestinese, le guerre in Iraq e Afghanistan, e altre come quella tra Hezbollah e Israele nel 2006 e l’ultima a Gaza, in cui vie­ne percepito un coinvolgimento di­retto o indiretto degli Usa. E infine la percezione che l’America manipo­li la realtà politica della regione. Per­ciò ho proposto al presidente di con­tinuare a dare enfasi al tema del rispetto, e poi di puntare sull’empa­tia, perché negli ultimi 8 anni i soli a mostrare comprensione per i pro­blemi della gente sono stati gli estremisti, e sul tema della coopera­zione con la comunità musulmana globale, che chiede un rapporto di uguaglianza con l’Occidente». Una cooperazione in vista di un nuovo piano di pace per il Medio Oriente? Sono il presidente e il suo team di politica estera a decidere i contenu­ti precisi del discorso, dice Mo­gahed. Il suo parere: «I discorsi crea­no uno spazio psicologico per il dia­logo, ma alimentano anche aspetta­tive che devono servire da base per azioni successive». Re Abdallah di Giordania, con il quale la Casa Bian­ca avrebbe discusso del coinvolgi­mento nel processo di pace di 57 Stati musulmani (che dovrebbero ri­conoscere Israele), ha detto che in assenza di un piano entro un anno, il Medio Oriente rischia di cadere nelle mani degli estremisti. In effet­ti, osserva Mogahed, «sono le perce­zioni politiche e non l’ideologia reli­giosa a portare all’estremismo. La minoranza che si dice favorevole al terrorismo cita il conflitto israe­lo- palestinese per giustificarlo, ol­tre all’imperialismo americano e al desiderio di vendicarsi per le vitti­me civili. Ciò suggerisce che i cam­biamenti politici potrebbero modifi­care il loro punto di vista». La con­sulente di Obama non ha ricevuto finora solo applausi: i conservatori Usa l’hanno attaccata perché ritiene giusto dialogare con la Fratellanza musulmana (mentre crede che si debba parlare con Hamas solo dopo la rinuncia alle armi e il riconosci­mento di Israele), e in Egitto c’è chi ha obiettato che al primo posto do­vrebbe mettere l’Islam mentre lei si dichiara fedele prima di tutto agli Stati Uniti. Ma Mogahed crede fer­mamente nel dialogo, anche con l’Iran.

CORRIERE della Sera-Antonio Ferrari: " La forza del dialogo "

Mai una missio­ne nel Medio Oriente di un presidente de­gli Stati Uniti aveva calami­tato tante speranze ed era stata caricata di tante aspet­tative. A Barack Obama, che in meno di 48 ore visita due soli paesi, Arabia Saudi­ta ed Egitto, tradizionali al­leati di Washington, tutti hanno qualcosa da chiede­re. Esiste poi il motivato ti­more che molti siano pron­ti a piegare le sue parole, in­dividuandovi le coordinate di sempre: più amico degli arabi e meno amico di Isra­ele, o viceversa.
Errore grave, perché Oba­ma ha già anticipato quel che dirà oggi all'università del Cairo: volontà di dialo­gare con tutti, rinuncia all' imposizione ma appello al­la condivisione di valori che sono universali, come la libertà, i diritti umani e una democrazia che, ger­mogliando su basi culturali diverse, educhi al rispetto dell'altro. Messaggio sem­plice ma assai importante, perché non è rivolto alle passioni, alle appartenen­ze, ma va diritto alle menti di tutti i protagonisti: mo­derati ed estremisti.
Parlare alla mente può essere più incisivo e deva­stante di una guerra. Quin­di non stupisce, anzi era quasi scontato che dalle ca­tacombe della ragione si al­zassero le minacce registra­te del redivivo Osama bin Laden, capo-terrorista a co­mando, contro Barack Oba­ma, appena giunto a Riad, accusato di «spargere i se­mi dell'odio». Ben sapendo che l'appello del presidente Usa punta a prosciugare le cause che, nel passato, ave­vano consentito di far lievi­tare proprio il fronte dell' odio.
Obama non è paragona­bile al filo-arabo Jimmy Car­ter, che benedisse la pace di Camp David tra Israele ed Egitto ma poi favorì il rientro in Iran di Khomei­ni, diventando alla fine la vittima politica della stessa rivoluzione degli ayatollah. Non è Bill Clinton, che pen­sava con frettolosa determi­nazione di risolvere tutti i conflitti del Medio Oriente (dagli accordi di Oslo al fal­lito vertice di Ginevra con il presidente siriano Hafez el Assad, fino al fiasco di Camp David con il premier israeliano Barak e Arafat). Non è ovviamente Bush jr. ma non somiglia neppure a Bush padre, che nel '91, per costringere Israele a parte­cipare alla conferenza di pa­ce di Madrid, non esitò a ri­correre ad un quasi-ricatto finanziario, negando le ga­ranzie su un prestito di 10 miliardi di dollari.
Al contrario, Obama pun­ta tutto sulla diplomazia: «Che - sono sue parole - ha tempi lunghi, lenti, ma si­curamente proficui. Non si possono mai avere risultati immediati». Vale per il con­gelamento degli insedia­menti, per rilanciare la for­mula dei «Due stati», nono­stante l'opposizione del pre­mier israeliano Netaniahu. Vale per l'Iran di Ahmadi­nejad e le sue ambizioni nu­cleari offensive. Che la for­za del dialogo, coniugata con la determinazione a combattere chi lo rifiuta, ri­sulti vincente si vedrà.
Ma alla richiesta dello scrittore e accademico egi­ziano Ezzedine Choukri Fishere dalle colonne di «Al Ahram weekly» («Lei non ha bisogno di visitare moschee, di partecipare a celebrazioni esotiche, di ab­bracciare leader religiosi. Se vuole conquistare i no­stri cuori conquisti prima le nostre menti»), Barack Obama ha già risposto. E' quel che si propone di fare.

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