Riportiamo da PANORAMA n°22 del 29/05/2009, a pag. 110, l'analisi di Fiamma Nirenstein dal titolo " Piano Obama: la buona volontà non basta ". Dal CORRIERE della SERA di oggi, 01/06/2009, a pag. 15, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo "Israele e i contrasti con Obama «Le colonie non si toccano» " e la sua intervista a Benny Morris dal titolo " Netanyahu deve decidere: l’amico Usa o il governo ". Ecco gli articoli:
PANORAMA - Fiamma Nirenstein : " Piano Obama: la buona volontà non basta "

Democratico, contiguo, demilitarizzato: con queste tre parole magiche, il giornale londinese in lingua araba AlQuds al-Arabi ha presentato il piano di Barack Obama per il futuro stato palestinese. Lo ha fatto a dispetto dei santi: il premier israeliano Benjamin Netanyahu si era appena incontrato con il presidente Usa e, per quel che se ne sa, non aveva avuto alcuna rivelazione diretta. Abu Mazen, il presidente dell'Autonomia palestinese, stava dirigendosi a Washington e i palestinesi si sono detti stupiti per il piano. Obama il 4 di giugno al Cairo dovrebbe rendere ben chiaro che le piramidi non faranno da sfondo al piano di pace. E che il suo discorso sarà tutto una mano tesa dall'Occidente all'Islam. Ma la sensazione è che anche il piano uscito su Al-Quds al-Arabi sia in rodaggio, perché Obama comprende che i sogni non sempre si possono avverare e compie verifiche. Che se ne farà Obama della buona volontà se, come previsto, gli hezbollah, bnga manus dell'Iran, il 7 giugno otterranno un grande successo elettorale in Libano e il confine con Israele sarà sotto il controllo a distanza di Teheran? E che ne sarà del tanto pubblicizzato dialogo con l'Iran? Il 12 giugno potrebbe rivincere Mahmoud Ahmadinejad, che ha usato come simbolo della campagna il lancio del missile da 3 mila chilometri di gittata in grado di distruggere Israele. E continua ad accusare i rivali di attuare una politica di «détente» verso l'Occidente, accettando di esserne dominati. Inoltre il supremo leader degli ayatollah, Ali Khamenei, ha chiamato a votare il leader pi antioccidentale e, chiunque sia il prossimo eletto, dovrà attenersi all'estremismo della leadership religiosa, che per tutti questi anni ha sostenuto il nucleare e avallato la promessa di distruggere Israele e dominare l'Occidente. Dun que il Medio Oriente potrebbe essere animato da una foga islamista sempre più attiva e inflessibile. Se veniamo al piano di Obama, esso è pieno di buona volontà bipartisan. Le tre parole magiche tengono conto dell'esigenza di sicurezza di Israele (uno stato palestinese demilitarizzato), della necessità palestinese di uno stato contiguo e quindi liberato dagli insediamenti, infine della necessità, soprattutto di Israele, ma del mondo intero, di avere a che fare con un potere strutturato democraticamente e quindi responsabile. Obama dà segno di precisione e sensibilità e dice chiaramente che il nuovo stato palestinese non potrà essere armato, ci che George W Bush non aveva mai detto. Ma un Medio Oriente così fortemente legato all'Iran potrebbe mai accettarlo? amas si inchinerebbe all'idea di uno stato demiitarizzato? Obama, inoltre, prevede la soluzione del problema dei profughi con il loro definitivo inserimento nei paesi ospitanti (Libano, Siria e altri) o il ritorno nel nuovo stato palestinese. Ma tutti i paesi arabi, fuorché la Giordania, hanno sempre rifiutato questa ipotesi. E Abu Mazen ha già detto che non ci starebbe. Quanto alla contiguità, gli israeliani evacueranno gli insediamenti? Il governo Netanyahu aspetta garanzie per dare il via ai lavori di smantellamento e Obama vorrebbe che cominciassero subito. Da ultimo: Obama vede la città vecchia di Gerusalemme sotto il controllo di un organismo internazionale. Tutto l'Islam ha già detto che non se ne parla. E Israele, che a suo tempo aveva accettato la condivisione, oggi è pi scettico. L'unica possibilità di pace è una rassicurazione sullo stop al nucleare iraniano, che faccia piegare la testa degli alleati di Teheran e spinga Israele a concessioni.
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CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Israele e i contrasti con Obama «Le colonie non si toccano» "
GERUSALEMME — Un paio di settimane fa, in centro, tre muratori lavoravano a un muretto di Gerusalemme. Attaccavano una lapide: «George W. Bush Plaza. In honor of the 43rd Us President, loyal partner to the State of Israel». Non c'era nessuno a tagliare il nastro, a fare discorsi. Calce, cazzuola e via. Perché l’amico Bush è ormai preistoria. E oggi Israele ha ben altra pietra nel cuore: Obama.
Pietra pesante, ha fatto capire il ministro dei Trasporti di Netanyahu, Israel Katz, all’uscita del consiglio domenicale: «Voglio dire in modo molto chiaro che il governo israeliano non accetterà in nessun modo che la colonizzazione legale sia congelata in Giudea e Samaria». Dove per Giudea e Samaria s'intende la Cisgiordania. E dove per «legali» intende, Katz e non la comunità internazionale, gl'insediamenti più antichi: «Obama non rispetta gl'impegni presi da Bush — ha detto il ministro —, perché c'è una lettera del 2004 dell'allora presidente Usa a Sharon, in cui s'invitava a tener conto dei coloni che già sono lì. Obama non ha ancora riconosciuto quell'accordo. E questo suscita inquietudine».
S'erano tanto amati: «L'altro giorno Netanyahu è sbottato scrive Ben Caspit, notista di Ma'ariv —: 'Che cosa diavolo vuole da me la Casa Bianca? Che il mio governo cada?'. Ma deve solo prendersela con se stesso: il dilettantismo con cui ha trattato la nuova amministrazione Usa gli sta esplodendo in faccia». Il grande freddo fra Israele e Stati Uniti dura da un paio di mesi. Dai dispetti Obama-Netanyahu sul quando incontrarsi («vengo i primi di maggio», «spiacente, c'è prima il re di Giordania: dopo?», «non posso io, va bene il 15?», «non sono in città...») e dalla reciproca presa d'atto, il 18 maggio, che l'incontro era solo per scontrarsi. Un tema su tutti: il ritiro dagli insediamenti, 200 villaggi nei Territori costruiti dal 1967 a oggi, quasi 500mila persone (se si considera anche Gerusalemme Est) che in base alla Roadmap devono andarsene. Dopo Obama, anche Hillary Clinton è stata durissima: nessuna eccezione. Netanyahu non ha detto un totale no, e infatti è pronto per l'esercito l'ordine di smantellamento di 22 avamposti, ma sa che i rabbini estremisti già invitano i soldati a disobbedire e intanto chiede tempo, che si tenga conto della «naturale crescita» di questi posti: «Non posso impedire alla gente che ci abita di fare figli». I suoi ministri più estremi già strappano: Obama è «irragionevole», dice il rabbino Daniel Hershkowitz, si comporta come «il Faraone che ributtò nel Nilo il popolo di Mosé».
Obama in realtà, sostiene il Sunday Times, s'è dato due anni per arrivare alla soluzione dei due Stati. Perché sa che «passa per Gerusalemme la via che porta a Teheran», anche se qualche suo consigliere lo considera un illuso. E che è con Teheran, non coi palestinesi, che Israele si gioca la vera partita. Da ieri e fino a giovedì, tanto per ricordarlo, il Paese è impegnato nella più grande esercitazione d'allarme dalla sua fondazione. Domani suoneranno le sirene di 250 città, la gente dovrà simulare la fuga nei rifugi, il soccorso ai feriti, la messa in sicurezza delle fabbriche. Il governo si riunirà nel bunker antiatomico. L’aviazione sarà nella massima allerta. Tutti, come se l’Iran attaccasse. Tutti meno noi: nessuno ci ha spiegato che fare. «Beh, lei è straniero», ha spiegato un poliziotto. Giusto, che c'entriamo?
CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Netanyahu deve decidere: l’amico Usa o il governo "

GERUSALEMME — Era dai tempi di James Baker che non si sentiva questo gelo tra Israele e gli Stati Uniti...
«Povero Netanyahu: mi sembra fra l’incudine e il martello...».
Tre popoli e una terra. Benny Morris, 61 anni, è cresciuto a New York e conosce bene la triangolazione arabi- americani-israeliani. Caposcuola dei Nuovi storici, s’aspettava questo capitolo: «Obama chiede di congelare le colonie. Ma anche se Bibi lo volesse, e comunque sono dieci anni che non lo vuole, non potrebbe mai farlo. Il suo governo si scioglierebbe, sarebbe costretto a chiedere il sostegno di Tzipi Livni, che rivendicherebbe il diritto di fare la premier. È in una situazione molto difficile: o perde la maggioranza, o perde l’amico americano».
Allora ha ragione lui, quando si sfoga contro Obama che «vuole far cadere il mio governo»?
«La cosa che più preoccupa è che Clinton e George W. Bush avevano comunque Israele nel cuore. Amavano questo Paese e l’idea di sostenerlo in ogni caso. Si vede dalla politica che hanno fatto. Obama, no. Non ha nessun legame culturale con Israele. E nessuna remora a costruire una politica anti-israeliana».
Giovedì, si capirà qualcosa dal discorso che farà al Cairo?
«Quel che conta, non è che cosa dirà al Cairo, ma quel che ha fatto finora. È interessato a far pace con l’Islam, anche sulle spalle d’Israele. Fin dove può arrivare? È questione di momentum e di tono. Obama è al limite e deve stare molto attento: se momento e tono saranno sbagliati, se Israele si sentirà alle strette, la credibilità degli Usa e anche l’amicizia potrebbero rompersi.
E allora, addio abbandono degli insediamenti e tutto il resto».
Quale resto?
«L’Iran. Il nocciolo della questione. Molto più importante della questione palestinese. Obama non ha scelta: o usa altre sanzioni, o attacca militarmente oppure può chiedere che lo faccia Israele. Questo però ha un prezzo. E allora dovrà tornare qui e dire se appoggia la soluzione dei due Stati o dirà 'due Stati, due popoli'. C’è differenza: nel primo caso, i palestinesi non sarebbero costretti a riconoscere Israele; nel secondo, vorrebbe dire che sposa la filosofia di Bill Clinton, più favorevole agli israeliani».
Abu Mazen sembra sfruttare bene il nuovo amico americano...
«Obama ha capito che tra Fatah e Hamas non s’arriverà mai a un accordo. Ha scelto Fatah, ha interrotto ogni dialogo con Hamas, l’ha reso di nuovo invisibile. È un grave errore. È rischioso puntare su Abu Mazen: i morti di queste ore servono solo a dimostrare a Washington che Fatah vuole combattere il terrorismo. E il bello è che Obama ci crede».
Arrivano giorni decisivi: il voto iraniano, quello libanese...
«Una rielezione di Ahmadinejad sarebbe un problema. In realtà, chiunque venga eletto a Teheran non cambia la sostanza. Cambia solo il tono. Loro vogliono il nucleare ed è il leader religioso a decidere: qualunque presidente continuerà su quella via. Obama ha detto che il dialogo con l’Iran resta aperto per tutto il 2009. I giochi cominciano dopo ».
E se domenica a Beirut vince Hezbollah?
«Ci sono due possibilità. O diventano più aggressivi. Oppure, se sono intelligenti, e io credo che lo siano, fanno attenzione a non mostrarsi estremisti. Nasrallah è uno stratega raffinato, non cercherà lo scontro a breve. L’unico problema è la sua falange armata: ha un conto aperto con Israele, non si sa come si possa comportare. Né quanto lui la controlli».
A proposito di controllo: ma come fa Israele, con un ministro degli Esteri che viene tenuto fuori da tutti gl’incontri decisivi?
«Il vero problema di Lieberman non è la politica: è la polizia. Se la magistratura proverà le sue frodi, dovrà dimettersi da ministro. Non sarà una gran perdita: è solo il portavoce d’una certa destra. La politica estera la fa Netanyahu».
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