Abu Mazen ieri in visita alla Casa Bianca. Riportiamo dalla STAMPA,di oggi, 29/05/2009 a pag. 16, la cronaca di Maurizio Molinari dal titolo " Obama a Israele: stop ai coloni ", dalla REPUBBLICA, a pag. 16, la cronaca di Alberto Stabile dal titolo " Ma Netanyahu dice no : ' Le colonie non si toccano ' " e dal MANIFESTO, a pag. 8, l'articolo di Michele Giorgio dal titolo " Abu Mazen s’afferra a Obama " preceduti dal nostro commento. Dal GIORNALE , a pag. 15, il commento di R. A. Segre dal titolo " La forza di Bibi è la debolezza di Barack ", Pubblichiamo inoltre un commento tratto da PALESTINIAN MEDIA WATCH. Ecco gli articoli:
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Obama a Israele: stop ai coloni "
Barack Obama accoglie il presidente palestinese Abu Mazen alla Casa Bianca e chiede a Israele di «porre fine all’espansione degli insediamenti in Cisgiordania» perché «questo aiuterà il processo di pace».
Seduto nello Studio Ovale a fianco di Abu Mazen, Obama ha vestito i panni del mediatore fra israeliani e palestinesi, sottolineando l’impegno «a lavorare alla soluzione del conflitto senza aspettare la conclusione dei mio mandato». Rivolgendosi a Israele, Obama ha sottolineato a più riprese la necessità di «bloccare la crescita gli insediamenti» rispondendo così a quanto poche ore prima il governo di Gerusalemme aveva affermato con il portavoce Mark Regev sul diritto a «proseguire la crescita naturale di queste comunità» in attesa «della conclusione dei negoziati sullo status permanente». Il disaccordo fra Washington e Gerusalemme sugli insediamenti è evidenziato dal fatto che il ministro della Difesa Ehud Barak sta arrivando negli Stati Uniti con un piano per «smantellare gli avamposti illegali» mentre la Casa Bianca chiede il blocco delle costruzioni «anche se dovute all’incremento demografico». Ad Abu Mazen il presidente americano ha invece chiesto di impegnarsi «contro la campagna di odio anti-israeliano che a volte si sviluppa nelle scuole e nelle moschee rendendo più difficile raggiungere la pace», lodando inoltre il suo «forte impegno» per arrivare ad un governo di unità nazionale con Hamas. Il leader dell’Autorità nazionale palestinese da parte sua ha presentato un «piano di pace» che si articola su due proposte. Primo: la creazione di un «supercomitato» alle dipendenze del Quartetto (Usa, Russia, Unione Europea e Onu) per risolvere i contenziosi esistenti fra Israele e Anp sull’applicazione della Road Map del 2003. Secondo: dare vita ad una «connessione» fra il piano di pace saudita del 2002 e la composizione del conflitto israelo-palestinese per arrivare ad una soluzione «regionale» che porti alla nascita dello Stato di Palestina in contemporanea con il riconoscimento di Israele da parte di tutte le nazioni arabe. Quest’ultimo suggerimento di Abu Mazen va nella stessa direzione auspicata dal presidente americano, Barack Obama, convinto che proprio la fine dello stato di guerra con i Paesi arabi possa spingere Israele a maggiori concessioni territoriali nei confronti dei palestinesi.
Obama e Abu Mazen hanno discusso anche della questione del ritorno dei profughi palestinesi del 1948 - che ha già fatto fallire i negoziati sullo status finale nel 2000 e nel 2008 - ma il leader palestinese ha assicurato che «non sarà di ostacolo» perché «non vogliamo distruggere Israele».
Alla conclusione dello colloquio nello Studio Ovale Obama ha fatto sapere che in occasione dell’imminente viaggio in Egitto sfrutterà il «discorso all’Islam» in programma al Cairo per affrontare anche il conflitto israelo-palestinese in quanto «sarebbe inappropriato farlo in ragione dell’importanza che ha per molti arabi e musulmani».
In coincidenza con le tensioni crescenti fra Usa e Israele la Camera dei Rappresentanti ha inviato un chiaro segnale alla Casa Bianca approvando con tre quarti dei voti una risoluzione che chiede all’amministrazione Obama di dimostrarsi «tanto un mediatore credibile quanto un devoto amico di Israele» durante i negoziati, auspicando «determinazione per indurre i palestinesi a porre fine a terrorismo e odio».
La REPUBBLICA - Alberto Stabile : " Ma Netanyahu dice no : ' Le colonie non si toccano ' "
Il titolo dell'articolo è poco credibile. Difficile che il premier israeliano si sia espresso in questi termini riguardo città israeliane come Maalè Adumim, Alfei Menashè, Ariel,...tutte CITTA' israeliane, non colonie. Netanyahu, come i suoi predecessori, condanna gli insediamenti illegali. che sono ben altra cosa.
Nell'articolo, poi, si legge : " nonostante l´appello lanciato da Hillary Clinton, a nome e per conto del presidente, di fermare tutte le attività edilizie negli insediamenti, senza eccezione, Israele continuerà a costruire per consentire quella «crescita naturale», che è stata finora l´abile sotterfugio per proseguire a colonizzare i Territori.". La popolazione nelle città cresce, perciò c'è bisogno di costruire nuove case. Non è una scusa per "colonizzare" un bel niente. E' il normale corso delle città: col passare degli anni aumentano di dimensioni. Ma, non è una novità che a REPUBBLICA e ad Alberto Stabile non interessi dare informazioni veritiere ai propri lettori. Ciò che conta è la propaganda antiisraeliana a priori. Ecco l'articolo:
GERUSALEMME - La risposta di Netanyahu ad Obama arriva attraverso il suo portavoce Mark Regev ed equivale ad una sfida: «Il destino egli insediamenti sarà deciso nei negoziati di pace tra Israele e i palestinesi. Nel frattempo, in quelle comunità deve essere permessa una vita normale». Il che significa che, nonostante l´appello lanciato da Hillary Clinton, a nome e per conto del presidente, di fermare tutte le attività edilizie negli insediamenti, senza eccezione, Israele continuerà a costruire per consentire quella «crescita naturale», che è stata finora l´abile sotterfugio per proseguire a colonizzare i Territori.
Quest´ultima presa di posizione di Netanyahu conferma e, se possibile, acutizza i contrasti tra il premier e il presidente emersi nel loro primo incontro di qualche giorno fa, alla Casa Bianca, e di cui il rifiuto del premier israeliano di fare propria la formula dei «due Stati» come ipotesi di soluzione del conflitto rappresenta la manifestazione più evidente.
In quell´occasione Obama ha detto a Netanyahu che considera il blocco degli insediamenti come un punto chiave per raggiungere un accordo di pace coi palestinesi. Per inciso, questa questione sarà al centro dell´incontro tra il presidente Obama e il leader palestinese Abu Mazen, previsto in tarda serata, a Washington. Val la pena di ricordare che Abu Mazen ha respinto le vaghe offerte di riallacciare il dialogo avanzate da Netanyahu, condizionando la ripresa del negoziato allo stop totale delle attività edilizie nelle colonie.
Netanyahu, d´accordissimo in questo con il ministro della Difesa Barak, ha risposto ad Obama che non intende stabilire nuovi insediamenti, salvo l´ampliamento di quelli esistenti in ragione della «crescita naturale» della popolazione, offrendosi nel contempo di smantellare 22 avamposti (le cellule di base delle colonie) illegali. Gli stessi 22 avamposti, va aggiunto, che Sharon, prima e Olmert, dopo, avevano promesso a George W. Bush di evacuare. Ma Obama, a quanto pare non s´accontenta.
Non soltanto non s´accontenta, il presidente americano, ma vuole di più. Martedì scorso a Londra, una delegazione israeliana ad alto livello, comprendente anche il ministro per i Servizi Segreti e l´Energia Atomica, non che fine diplomatico, Dan Meridor, s´è incontrata con un gruppo di diplomatici americani guidati dall´inviato di Obama per il Medio Oriente, George Mitchell. Mitchell ha respinto l´argomento della «crescita naturale», confermando la richiesta di una sospensione totale negli insediamenti, ma ha aggiunto che Obama s´aspetta che Israele apra i varchi che isolano Gaza per permettere di avviare la ricostruzione nella Striscia devastata da tre settimane di guerra.
Netanyahu rilancia, sostenendo che ad ogni mossa israeliana i palestinesi devono rispondere con reciprocità. Se vogliono che Israele evacui gli avamposti, i palestinesi devono combattere il terrorismo. Cosa che, non hanno fatto, aggiunge il premier.
Il MANIFESTO - Michele Giorgio : " Abu Mazen s’afferra a Obama "
Il sottotitolo dell'articolo è : " Ma da Israele arriva l’attesa doccia gelata: avanti con le colonie ". Israele non ha dichiarato niente del genere, anzi. Netanyahu ha confernato, come i suoi predecessori, che gli insediamenti illegali non sarnno tollerati. Per quanto riguarda le città già esistenti, è normale che, con la crescita della loro popolazione, aumenti anche il numero di abitazioni. Ma è ormai cosa nota che, per il MANIFESTO, tutto lo Stato di Israele non è altro che una colonia illegale da sradicare, perciò non ci stupiamo del tono dell'articolo e della scelta del sottotitolo. Ecco l'articolo:
Ha pesato come un macigno sull’incontro tra Barack Obama e Abu Mazen, ieri in tarda serata, il secco no di Israele alla perentoria richiesta dell’amministrazione americana di mettere fine «senza eccezioni» alle costruzioni negli insediamenti colonali nei Territori occupati. Sulla fermezza, almeno apparente, contro l’espansione delle colonie ebraiche Abu Mazen punta buona parte della sua strategia rispetto al governo israeliano, dominato dalla destra ultra-nazionalista e contrario alla creazione di uno Stato palestinese sovrano. In queste settimane il presidente dell’Anp ha ripetuto che non negozierà con il premier israeliano Netanyahu sino quando non cesserà l’espansione degli insediamenti. Ora Abu Mazen rischia di finire sotto pressione. Obama potrebbe chiedergli di rinunciare al congelamento degli insediamenti israeliani per non «aggravare» la tensione tra Washington e Tel Aviv. Andare alla ripresa delle trattative con Israele mentre i bulldozer continuano a spianare terreni palestinesi per le nuove case dei coloni, sarebbe un suicidio politico per il leader dell’Anp. «Abu Mazen non ha titolo di parlare a nomedei palestinesi», ha avvertito ieri il movimento islamico Hamas. Il presidente dell’Anp si è presentato alla Casa bianca offrendo ad Obama piena collaborazione e proponendo l’istituzione di una commissione che dovrà lavorare per conto del Quartetto per il Medio Oriente (Usa, Russia, Onu e Ue) per assicurare che israeliani e palestinesi rispettino i loro impegni. Abu Mazen ha insistito molto sull’applicazione del piano arabo – ritiro totale di Israele dai Territori occupati in cambio della normalizzazione dei rapporti con il mondo arabo – confermando le indiscrezioni che riferiscono dell’intenzione dell’Anp di inserire la questione palestinese all’interno di una cornice più ampia, quella dei rapporti tra l’intero mondo arabo e Israele. Una mossa che presenta vantaggima anche rischi notevoli, come la possibile «svendita » delle aspirazioni palestinesi di fronte agli interessi di leader arabi che in non pochi casi sono controllati da Washington o puntano all’apertura rapida di relazioni ufficiali con Israele. Da Obama, l’Anp si attende un rinnovato sostegno alla soluzione dei «due Stati» dopo l’esito negativo dell’incontro di pochi giorni fa tra il presidente americano e Netanyahu che aveva messo in luce divergenze sulla strada per giungere alla ripresa dei negoziati tra israeliani e palestinesi. La posizione Usa sarà più chiara il 4 giugno, quando al Cairo Obama leggerà il suo atteso discorso al mondo arabo-islamico con cui dovrebbe delineare i punti principali della strategia per il conflitto israelo- palestinese. Da parte sua Netanyahu non si scompone di fronte alla intimazione americana di bloccare «senza eccezioni» l’espansione degli insediamenti ebraici. Ai toni (apparentemente) fermi del segretario di Stato Hillary Clinton ha replicato ieri Mark Regev, portavoce di Netanyahu, chiarendo che il governo a congelare totalmente le colonie non ci pensa nemmeno. Israele - ha sottolineato Regev - si è impegnato a «non costruire nuovi insediamenti » e a rimuovere gli avamposti colonici,ma non accetta di rinunciare allo sviluppo di alcuni grandi insediamenti già esistenti per far fronte, ha detto, alla «crescita naturale» del numero degli abitanti e alle «necessità della vita normale». Esigenze destinate a perpetuarsi per anni, ha lasciato intendere il portavoce, fino a quando «la sorte dell’intero complesso degli insediamenti – costruiti dopo il 1967 in aperta violazione della legalità internazionale - non sarà determinata da accordi di pace fra israeliani e palestinesi ». Dietro questo paravento sono state costruite negli ultimi anni case destinate ad almeno un terzo dei nuovi coloni israeliani. Nella Cisgiordania occupata nel frattempo non cessano le operazioni dell’esercito israeliano, spesso all’interno di città e villaggi formalmente sotto il pieno controllo di AbuMazen.Un palestinese, definito «esponente di primo piano dell’alamilitare di Hamas», è stato ucciso ieri da reparti speciali israeliani a Dura, alle porte di Hebron.
Il GIORNALE - R. A. Segre : " La forza di Bibi è la debolezza di Barack "
Gli ebrei celebrano oggi la "festa delle settimane", il pellegrinaggio che raduna davanti al Muro del Pianto, il tempio distrutto dall’imperatore Tito nel 70, migliaia di persone. È l'occasione per riaffermare - come ha appena fatto il premier Netanyahu - il legame millenario degli ebrei con Gerusalemme che deve rimanere capitale indivisa di Israele. Lo scontro con l'amministrazione Obama, impegnata a creare «due Stati in Palestina con Gerusalemme capitale per entrambi», sembra inevitabile. Ma non per uno stretto collaboratore del premier che mi parla in anonimato per spiegarne le ragioni:
1. Debolezza di Obama. Terrà al Cairo l'atteso discorso di politica mediorientale, con in tasca l'impegno di Gerusalemme ad eliminare 10 piccoli insediamenti «illegali». Di eliminare i grandi non se ne parla e a controllare il loro sviluppo ci penserà la crisi economica non il governo. Nel frattempo gli schiaffi provocatori di Teheran a Washington si accumulano assieme a quelli della Corea del Nord. All'incontro in Olanda dove la Clinton avrebbe per la prima volta incontrato un rappresentante iraniano è stato mandato un ambasciatore in pensione. A Teheran , invece, il presidente iraniano ha convocato quelli di Afghanistan e Pakistan (alleati di Washington) per discutere della cacciata dell'America dalla regione. Washington avrà altro da fare nei prossimi mesi che occuparsi delle colonie ebraiche in Cisgiordania e dello stato palestinese.
2. I rapporti internazionali di Israele in fase di profonda revisione. Il ministro degli esteri Lieberman è già stato due volte a Mosca. Ha chiesto di incontrare il dittatore bielorusso noto per la sua poca simpatia per gli ebrei. Ha ricevuto i soldi per aprire un’ambasciata a Minsk e un'altra nell'ex Asia sovietica. Il suo vice Danny Ayalon, ex ambasciatore a Washington, in visita all'America latina, rilancia la presenza attiva israeliana in quel continente e in Africa, politica messa in sordina dalla polarizzazione su Washington.
3. Il tallone d'Achille d'Israele, cioè l'accettazione della falsa credenza di un controllo mondiale ebraico sul mondo. Questa credenza, nata dal sempre più diffuso falso dei «Protocolli dei Saggi di Sion» inventata dalla polizia zarista e contro cui gli ebrei e la propaganda israeliana hanno invano lottato, ha enormemente danneggiato la posizione dello Stato d'Israele. Ha diffuso non solo nel mondo arabo l'idea che lo Stato sionista sia «la coda che fa muovere il cane americano». La tensione fra Netanyahu e Obama viene cosi percepita come una benedizione del Cielo nella misura in cui incrina senza drammatici cambiamenti di politica nei confronti dei palestinesi un’immagine che per Israele si è rivelata catastrofica.
4. L’Iran. Israele è l'unico paese in grado di danneggiare le sue strutture atomiche. Fa i preparativi necessari ma non si muoverà prima che Obama dimostri agli arabi e in primo luogo ai sauditi cosa è deciso a fare per proteggerli dalla minaccia iraniana sciita. Netanyahu, per avvicinarsi al Cairo, non ha esitato nel suo recente incontro con il presidente Mubarak a impegnarsi a rimuove il veto israeliano alla nomina alla testa dell'Unesco di Faruk Hosni, ministro della Cultura egiziana, ostile alla normalizzazione dei rapporti con Israele e noto per alcune dichiarazioni di tono antisemita che hanno sollevato le ire di una schiera di influenti intellettuali ebrei - da Wiesel a Henry Levy. Sarà un caso ma in seguito a questo incontro a Sharm el Sheik, l'Egitto ha intensificato la sua azione contro il contrabbando palestinese di armi attraverso la frontiera di Gaza. Fra gli Stati - diceva De Gaulle - non esistono amicizie permanenti. Solo interessi permanenti.
PALESTINIAN MEDIA WATCH
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Palestinian Media Watch ha diffuso un importante articolo pubblicato dal Jerusalem Post il 25 maggio, in vista del prossimo incontro tra i presidenti Obama e Mahmoud Abbas. Esiste una legge americana (2008 Foreign Operations Bill Sec. 657.B-C.1) che non permette agli USA di assistere in alcun modo chiunque, nella West Bank come a Gaza, onori coloro che hanno commesso atti di terrorismo. Il presidente Obama, e con lui il Congresso, intende concedere all'Autorità palestinese, della quale Abbas è il leader, 900 milioni di dollari. Il Jerusalem Post ha voluto ricordare a colui che è reduce da un incontro col primo ministro israeliano, che Abbas non può ricevere questi aiuti dagli USA, e proprio in base alla legge americana. Infatti Abbas ha inaugurato un centro informatico dedicato "al martire Dalal Mughrabi"; è opportuno ricordare che questo martire è il colpevole del più sanguinoso attentato compiuto in Israele, nel 1978, che ha ucciso 37 civili, tra i quali 12 bambini, e anche un cittadino americano (sarà il caso che il presidente ed i congressisti abbiano ben presente almeno questo fatto!). E a questo assassino di nome Mughrabi l'Autorità palestinese ha già intitolato anche un campionato di calcio, un campo estivo ed un party per studenti meritevoli. E, tanto per essere più chiaro su quel che pensa, il presidente Abbas ha fatto programmare, dalla sua televisione, un programma celebrativo di questo attentato, definito "una delle operazioni più importanti ed eminenti, eseguita da un gruppo di eroi e guidata dall'eroico combattente Dalal Mughrabi" (trasmissione dell'11 marzo scorso della TV della PA). Sarà poi bene che Obama non creda alle vane promesse delle quali Abbas è sempre stato gran dispensatore. Nel 2004 gli USA gli diedero 400.000 dollari per costruire un campo di calcio dedicato a Salakh Khalaf. Quando Palestinian Media Watch fece osservare che Khalaf era uno dei terroristi che uccisero 11 atleti alle olimpiadi di Monaco, gli USA chiesero ad Abbas di scusarsi e di cambiare nome al campo di calcio. Ma il nome non venne mai cambiato. Identico iter nel 2002 per una scuola per ragazzine, creata con denaro americano e dedicata al martire Mughrabi. Abbas promise, nel giro di 24 ore, di cambiare nome. Ma poi se ne dimenticò, e la scuola porta tuttora il nome del terrorista. Il Segretario di Stato Hillary Clinton conosce a fondo questo problema, per averne, tra l'altro, discusso in una recente audizione. Vedremo che cosa succederà durante questo incontro tra i due presidenti, al quale collaborerà anche la Clinton. Ma se questo problema non verrà affrontato e risolto una volta per tutte, Obama darà una nuova ragione di seri, gravi dubbi sulle sue reali intenzioni a coloro che già dubitano per le sue recenti mosse. Ma la legge americana, negli USA, si dovrebbe applicare anche agli atti del presidente e del Congresso. Seguiamo tutti con attenzione quanto avverrà!
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