Apriamo la rassegna di oggi, 23/05/2009, con un film presentato al Festival di Cannes, "Il tempo che resta" di Elie Suleiman, le cui recensioni hanno riempito le pagine di moltissimi quotidiani, unendo in un coro di applausi, testate politicamente lontane, ad esempio IL MANIFESTO e il GIORNALE, ma questo non deve stupire, quando si tratta di stangare Israele, Maurizio Cabona va giù più pesante del quotidiano comunista. Le altre testate sono il CORRIERE della SERA e la REPUBBLICA. Il nostro mestiere non è la critica cinematografica, il film non l'abbiamo ancora visto, quindi ci asterreemo da qualunque giudizio estetico. Ci limiteremo ad alcune riflessioni di carattere generale, facendole precedere alle recensioni che abbiamo scelto per non privare i nostri lettori di qualche buona polemica. Eccole:
IL MANIFESTO- Mariuccia Ciotta: " La Palestina epica supera ogni muro "
La lettura del film di Suleiman è essenzialmente politica, in tutte le recensioni che abbiamo letto. Poteva non essere il quotidiano comunista, in cima alla manipolazione della storia che lo contraddistingue da sempre ? L'inviata Mariuccia Ciotta scrive " quando nasce lo stato di Israele, centinaia di palestinesi vengono uccisi, migliaia sono trasformati in «rifugiati» e poi, l’anno seguente, quelli rimasti in territorio israeliano saranno sottoposti a un’amministrazione militare, cittadini di serie B sotto libertà vigilata. ". Se avessimo a che fare con un giornale onesto, soltanto ignorante, potremmo consigliare alla Ciotta la lettura di un buon libro di Storia e un viaggio in Israele, per rendersi conto delle enormi falsità che scrive. Ma non è il nostro caso, quelle pagine, da 39 anni, sono la rappresentazione del falso come verità, sappiamo che non c'è nulla da fare. La retorica politica sui palestinesi diventa qui cinematografica, in un film è possibile far vedere il bianco come se fosse nero, è sufficiente raccontare favole per intenerire il giudizio di chi non attende altro per deformare il percorso della storia. In questo, la Ciotta, è veramente abile. Ecco l'articolo:
Ultimo giorno di Cannes n.62 e in attesa dei palmares, la nostra Palmad’oro va a Elia Suleiman, regista palestinese di The Time that Remains. Ex-aequo con Vincere di Marco Bellocchio. In conferenza stampa, subito dopo la proiezione, fioccheranno domande e ringraziamenti commossi da parte di molti colleghi arabi, tunisini e egiziani soprattutto, che si riconoscono in questo poetico gesto di resistenza, «l’arte è speranza, e si sprigiona dall’urgente necessità di cambiare ilmondo, e non solo la Palestina ». Ondate di applausi fino all’ultimo titolo di coda, in sala, per questo film su «ciò che resta» dei ricordi, di una Palestina che va oltre la dimensione politica, la cronaca, la storia, si espande e diventa mondo. Lo stato che non c’è, e che secondo il governo attuale israeliano di estrema destra non ci sarà mai, nel film di Suleiman sbaraglia ogni esercito e supera ogni muro, potente entità immaginaria che vince sul reale. Suleiman sfoglia il diario di suo padre, combattente della resistenza nel 1948 («è la prima volta che ho adattato un testo storico»), quando nasce lo stato di Israele, centinaia di palestinesi vengono uccisi, migliaia sono trasformati in «rifugiati» e poi, l’anno seguente, quelli rimasti in territorio israeliano saranno sottoposti a un’amministrazione militare, cittadini di serie B sotto libertà vigilata. A Nazareth, la città di Suleiman, gli arabo-israeliani vivono in una dimensione sospesa, stranieri nel loro paese, e da qui che la memoria ricostruisce i giorni del bellissimo padre Fuad (Salek Bakri, che è il figlio della star di Jenin, Mohamed Bakri), che adatta a mitragliatrice una vecchia arma inglese a pallottole tedesche, un «giocattolo » fatto in casa contro la grande armata, ed è subito preso, spezzato e vinto. Il cinema di Elia scarta la narrazione realistica e, come in Intervento divino (2002), arreda i ricordi con un tocco surreale, e l’umorismo incantato delle strisce dei fumetti, una situation comedy della catastrofe. Piccole cose ordinarie che compongono la partitura della nostalgia, «qualcosa di proustiano», dice il regista, indietro verso il sole che illuminava gli oggetti saccheggiati dai soldati israeliani, un quadro, un orologio a pendolo, un grammofono amanovella, i suoni e le parole della musica araba, quella amata da Fuad (le canzoni di l’ebrea Leila Mourad e di Mohamed Abdel Wahab, le star del musical egiziano) mentre il piccolo Elia preferirà i Led Zeppelin... L’Haganah che «profana» la città dove è nato Cristo, e che disubbidisce agli ordini di Ben Gourion, si traveste da feddayn, inganna e massacra i resistenti del nord. Ancora echimusicali... «Perché non ha voluto tradurre le parole di queste canzoni, in un film quasi senza dialoghi», chiedono i critici arabi. «Perché la musica è universale e intraducibile, i testi delle canzoni non avrebbero aggiunto altri contenuti». Contro lo sguardo «feticista» sulla Palestina, The Time that remains è un film epico fuori genere, che avanza in linea verticale, non seguendo la superficie, ma sprofonda nell’intimità. Suleiman mette in fila le sue figurine, le ritaglia dal tempo, istantanee disincarnate e luminose, la violenza mai esibita mapresenza costante... Il padre e un amico pescano di notte, il buio trafitto dal faro della jeep di pattuglia israeliana, una, due, tre volte, dialoghi demenziali tra guardie e sorvegliati, fino all’arresto per traffico di armi via mare, un vassoio di tabulè spacciato per polvere esplosiva. Un anziano vicino di casa minaccia di darsi fuoco regolarmente e suggerisce a Fuad mille strampalatimodi per liberare il paese. Il cannone di un blindato segue con effetto esilarante un ragazzo al cellulare, su e giù per la strada. Il coro dei bambini arabi a scuola intonano inni israeliani davanti ai maestri e funzionari ipocriti e soddisfatti, e poi l’insegnante apostrofa lo scolaro Elia: «Chi ti ha detto che l’America di Mohamed Abdel Wahab, le star del musical egiziano) mentre il piccolo Elia preferirà i Led Zeppelin... L’Haganah che «profana» la città dove è nato Cristo, e che disubbidisce agli ordini di Ben Gourion, si traveste da feddayn, inganna e massacra i resistenti del nord. Ancora echimusicali... «Perché non ha voluto tradurre le parole di queste canzoni, in un film quasi senza dialoghi», chiedono i critici arabi. «Perché la musica è universale e intraducibile, i testi delle canzoni non avrebbero aggiunto altri contenuti». Contro lo sguardo «feticista» sulla Palestina, The Time that remains è un film epico fuori genere, che avanza in linea verticale, non seguendo la superficie, ma sprofonda nell’intimità. Suleiman mette in fila le sue figurine, le ritaglia dal tempo, istantanee disincarnate e luminose, la violenza mai esibita mapresenza costante... Il padre e un amico pescano di notte, il buio trafitto dal faro della jeep di pattuglia israeliana, una, due, tre volte, dialoghi demenziali tra guardie e sorvegliati, fino all’arresto per traffico di armi via mare, un vassoio di tabulè spacciato per polvere esplosiva. Un anziano vicino di casa minaccia di darsi fuoco regolarmente e suggerisce a Fuad mille strampalatimodi per liberare il paese. Il cannone di un blindato segue con effetto esilarante un ragazzo al cellulare, su e giù per la strada. Il coro dei bambini arabi a scuola intonano inni israeliani davanti ai maestri e funzionari ipocriti e soddisfatti, e poi l’insegnante apostrofa lo scolaro Elia: «Chi ti ha detto che l’America è imperialista?». Haiku, schegge emozionali alla ricerca del tempo perduto... le lenticchie di una eccentrica zia gettate nella spazzatura giorno dopo giorno, e l’inattività forzata, il deambulare catatonico sempre vestiti in pigiama, il sequestro in casa della famiglia, la madre (Samar Qudha Tanus) che scrive ai parenti fuggiti lontano, i capelli imbiancati del padre... Poi il ritorno di Elia Suleiman nella parte di se stesso dopo anni di esilio. Non pronuncerà una parola. Il «silenzio è molto cinegenico», dice, è un’arma di resistenza, destabilizza, rende folle i potenti. E lui, un Buster Keaton dai grandi occhi fissi («ma non ho mai pensato che Keaton o Jacques Tati mi abbiano influenzato più di Primo Levi»), tace, ritorno al cinema delle origini, al cinema dell’intuizione, tace e con un’asta in plexiglas prende la ricorsa per scavalcare la barriera grigia del muro segregazionista. Volo riuscito. Elia è tornato e se ne sta seduto al tavolino di un bar all’aperto insieme agli amici come in Fa’ la cosa giusta di Spike Lee, in fondo alla strada i ragazzi dell’Intifada lanciano pietre, i carrarmati sparano, una giovane signora spinge una carrozzella e all’alt di un soldato risponde «Torna tu a casa tua!». La silhouette di Elia Suleiman e in trasparenza i fotogrammi della crudeltà, distillata in mille piccole e gigantesche ingiustizie. Un cinema il suo che dà il piacere «di non essere più solo se stessi ma di essere anche l’altro», qualcuno «di tutti i colori e le nazionalità», palestinesi senza terra ma dovunque.
LA REPUBBLICA-Natalia Aspesi: " Vita in Palestina, con grazia e malinconia "
La Aspesi non è la Ciotta, ma non conosce i termini della questione, per lei Gaza è addirittura circondata da un muro ! Glielo fa vedere il regista, per cui "deve" essere vero. Nell'ambiete della "gauche caviar", che supponiamo frequentato dalla nostra cara amica Aspesi, essere contro Israele è la norma, meglio adeguarsi. Per nostra fortuna il pezzo è breve, eccolo:
CANNES - Dal 1948 a oggi, a Nazareth e a Ramallah, l´esercito israeliano e la resistenza palestinese, la storia di una famiglia, quella di Elia Suleiman, regista palestinese al suo terzo lungometraggio: The time that remains è un film che inizia nel dramma e prosegue nella malinconia, ironia, grazia, di una quotidianità che potrebbe essere disperata e invece è forse rassegnata, forse in attesa che qualcosa cambi. Il padre Fuad è in pessima salute per le violenze subite, il piccolo Elia a scuola viene sgridato perché dice che l´America è imperialista, il vecchio vicino ogni tanto tenta di darsi fuoco, la mamma scrive ai parenti emigrati, da adolescente studia e la polizia lo tiene d´occhio. Convivono i carri armati e i ragazzi che frequentano discoteche, a una giovane donna con figlioletto un soldato israeliano ordina di tornare a casa, lei gli risponde, torna tu. Sembra sottile il confine di guerra che potrebbe diventare pace, ma la pace non c´è. Il Suleiman di oggi, capelli grigi e grandi occhi neri, muto di disagio, osserva dalla finestra sprazzi di Intifada, guarda l´alto grigio muro di Gaza e immagina di superarlo con il salto con l´asta. Film di grande commozione, politico senza parlare di politica, mette a disagio e rende partecipi con la sua semplicità più dei tanti telegiornali di guerra.
CORRIERE della SERA-Giuseppina Manin: " Noi palestinesi trattati come gay ? Un complimento "
Anche la Manin non è la Ciotta, ma anche lei confone la fiction con la Storia, quella vera, non quella immaginata. Il palestinese Suleiman, che vive a Parigi, inevnta delle storie, sapendo che sono quelle che il pubblico europeo si aspetta. E lui gliele dà, evidentemente ben confezionate, se gli apprezzamenti sono così unanimi. O forse al Corriere, con il cambiamento di direzione, è arrivata quell'aria fresca di rinnovamento che alcuni aspettavano. Ecco l'articolo:
CANNES — L'auto nera s'inerpica su per la collina. Dal finestrino sventola una bandiera bianca. Dal cielo un piccolo aereo giallo la punta, la insegue, la sfiora. Come a volerla fermare, a strappare quel drappo. Perché porta il sindaco di Nazareth a firmare la resa della città a Israele, a diventare parte del suo territorio. «Mi sono divertito a controllare il tragitto, ho intervistato decine di persone. Ma tutte mi hanno dato una versione diversa. Così ho deciso di privilegiare la verità del cinema: piazzare al meglio la cinepresa».
Con lo humour desolato che già lo ha fatto apprezzare nel precedente Intervento divino, Elia Suleiman racconta la prima scena di The time that remains, ieri in concorso, storia della sua famiglia dal 1948 a oggi ispirata ai diari del padre, resistente palestinese, e alle lettere della madre ai parenti obbligati a espatriare.
Memorie private intrecciate a un'epica quotidianità fatta di sofferenza, rabbia, disincanto. Ritratto di una comunità, gli arabi-israeliani, che sono rimasti nel loro paese come minoranza. «Cronaca di un assente presente», recita il sottotitolo, alludendo a un' identità espropriata e alla condizione stessa del regista- attore, nato a Nazareth 48 anni fa, poi emigrato a Beyruth e quindi a Parigi. «I palestinesi in esilio sono sempre di più — assicura — ma è proprio la lontananza che rafforza le radici e la voglia di raccontarci. La nostra storia somiglia a quella di tante altre occupazioni».
Suleiman qui privilegia la strada dell'intimità domestica: «La casa che si vede è quella dei miei genitori, è stata una grande emozione tornarci ». E rivedersi, grazie alla magia del cinema, bambino, poi adolescente, infine come è ora. Colui che torna per riannodare le fila del passato e degli affetti: il padre Fuad, amatissimo, bello e coraggioso, picchiato a sangue dai soldati israeliani, ma mai domato. La madre ironica, dolcemente autoritaria. E lui bambino, ripreso dal maestro perché in classe ha detto che gli Usa sono un Paese colonialista. Chi ti insegna queste cose? lo sgrida. Il piccolo Elia china il capo ma dopo qualche giorno si fa di nuovo tirar le orecchie perché ha dato degli imperialisti agli americani. Flash back drammatici, pallottole che volano per strada, posti di blocco, umiliazioni. Ma anche istantanee tragicomiche, grottesche: il padre che di notte va a pesca e regolarmente arriva la ronda a chiedergli se ha i documenti e se il pesce abbocca. Ogni volta un paziente sorriso, poi ciascuno per la propria strada.
O la giovane madre con la carrozzina fermata durante l'Intifada da un soldato con il mitra spianato che le intima di tornarsene a casa. «Ma torna tu a casa», replica lei tirando dritto.
O ancora la divertente gag del carro armato con il cannone puntato su un uomo che parla al telefonino.
Annotazioni da caricaturista politico. O degne di quello stile surreale alla Tati o alla Buster Keaton. «I loro film li ho visti tardi. Credo piuttosto alle affinità tra artisti di diverse parti del mondo». Per esempio il gusto del silenzio.
Il film spesso racconta senza parole. «Nel silenzio c'è posto per la verità, la resistenza, la poesia. È un momento democratico che permette allo spettatore di partecipare, di mettere qualcosa di suo in ciò che accade sullo schermo».
Poi ci sono le struggenti melodie arabe, corpo della colonna sonora. «E' stato mio padre a iniziarmi a questo repertorio. Io ero tutto rock. Mi ha insegnato ad ascoltare con un'altro orecchio. Tra noi c'era una forte simbiosi, lui mi rubava i vestiti e io ancora oggi indosso alcuni dei suoi».
Un accumulo di identità, quasi per tener più salde le origini. «Essere palestinese è una sfida, non un'etichetta. La rifiuto. È come quando si fanno i festival delle registe donne. Ragionare per categorie è riduttivo e discriminatorio. Ma, se essere palestinese è inteso come essere donna o gay, allora lo prendo come un complimento».
CORRIERE della SERA-Francesco Battistini: " Loach. boicottate quel festival, finanziato da Israele "
Non riguarda Suleiman, ma abbiamo inserito la corrispondenza di Battistini da Israele perchè l'argomento è il cinema. Leggere il pezzo per convincersi quanto le posizioni di Loach siano l'opposto dell'idea di libertà della cultura. Espresse invece dalla regista israeliana, la quale, dimostrando di avere i nervi molto saldi, ha dichiarato " Ho sempre considerato Loach un grande. Continuerò ad ammirarlo per quel che filma, non per quel che dice". Noi, che registi non siamo, di Loach abbiamo un'altra opinione. Ecco l'articolo:
GERUSALEMME —- «Inorridisco! ». «Demonizzatore!». Dagli applausi della Croisette, alla doccia fredda scozzese. Dal calcio sentimentale del film su (e con) Eric Cantona, appena presentato a Cannes, al calcio nei sentimenti politici di un regista che non sta mai in un cantone.
Piovono pietre su Ken Loach. Per un pugno di sterline, 300 per l'esattezza, che il Film Festival di Edimburgo ha accettato dal governo israeliano e che il rosso Kenneth considera «il prezzo della vergogna ».
Nei giorni scorsi il regista era andato giù pesante e aveva invitato al boicottaggio, se i curatori della rassegna scozzese non avessero restituito subito «quei maledetti soldi sporchi del sangue di Gaza». Non fosse mai: pur facendo notare che ogni Paese versa denaro a sostegno delle proprie pellicole in concorso (e che Israele l'aveva fatto per pagare le spese di soggiorno della regista Tali Shlaom Ezer, in cartellone con Surrogate), pur di non perdere il grande Loach, gli organizzatori s'erano rassegnati a restituire il contributo.
Sembrava finita lì. Finché non s'è mosso il ministero degli Esteri di Gerusalemme, tramite l'ambasciata a Londra, biasimando il festival per aver ceduto alle pressioni «di elementi che cercano di delegittimare e di demonizzare lo stato d'Israele».
E ricordando allo stesso ken Loach che «il nostro è un Paese pluralistico, nel quale coesistono voci e opinioni diverse, alcune anche molto critiche ».
Il pane salato del festival, le rose spinose della polemica. Il settantaduenne Ken non ha voluto sentire ragioni, furibondo per essere finito in proiezione accanto a film finanziati dal governo israeliano: «Una manifestazione che prende i soldi da Israele! Sono sicuro che, come me, sarebbero inorriditi molti altri registi. I massacri e il terrorismo di Stato praticato contro Gaza rendono questo denaro inaccettabile. Mi rincresce, ma ho dovuto invitare a stare alla larga da Edimburgo».
La direzione della rassegna un po' se l'aspettava — perché Loach aveva già minacciato il boicottaggio ai danni del Festival di San Francisco, proprio per la presenza israeliana, e dopo Gaza aveva ripetuto di «non essere sorpreso» se nel mondo cresce l'antisemitismo —, ma ora si dichiara «apolitica», prende atto della protesta e garantisce che Shlaom Ezer sarà comunque ospite «a spese della comunità di Edimburgo».
La rissa al cinema è solo l'ultima, fra Israele e Gran Bretagna. Da tempo, le associazioni di consumatori rifiutano l'ortofrutta prodotta dai coloni. E non si contano le proteste israeliane per gli inviti a conferenzieri di Hamas e di Hezbollah.
Proprio ieri, è stata tolta dal metrò di Londra una pubblicità turistica che mostrava una mappa d'Israele con dentro il Golan e i Territori palestinesi.
Stavolta, però, la retromarcia di Edimburgo è criticata anche fra i laburisti: «Vietare al governo israeliano di sostenere il festival — pensa Lord Braunstone, già leader dei deputati d'origine ebraica — è come escludere Israele dalla cultura inglese». L'unica a non prendersela troppo è lei, Shalom Ezer, la regista contesa: «Ho sempre considerato Loach un grande. Continuerò ad ammirarlo per quel che filma, non per quel che dice».
IL GIORNALE-Maurizio Cabona: " Nel bell'affresco israeliano di Suleiman il patriottismo si nutre nel silenzio"
Nessun stupore nel leggere il pezzo di Cabona, che conosciamo da sempre prigioniero del pregiudizio anti-israeliano. Qualunque cosa si riferisca allo Stato ebraico è male. Per cui, se Suleiman fa un film contro Israele, il risultato deve per forza essere buono. Non ne evidenziamo nessuna frase in particolare, è tutto il pezzo a sprizzare veleno.
Chi ha seguito il Festival, che oggi finisce le proiezioni, ricorderà quattro o cinque film. Fra questi c’è Il tempo che resta di Elia Suleiman, storia di famiglia e solidarietà, ma soprattutto storia malinconica e buffa, di patria oppressa e patriottismo sommesso.
Cristiano-palestinese, Suleiman aveva già proposto a Cannes sette anni fa Intervento divino, sul contrastato amore fra giovani arabi d’Israele e dei Territori occupati. Il tempo che resta è invece l’evocazione di sessant’anni di Israele, visti non nell’ottica delle celebrazioni occidentali dell’anno scorso, ma in quella degli arabi cristiani e musulmani di Nazaret, diventati dal 1948 cittadini israeliani a sovranità limitata. Caduto il Muro di Berlino, è sorto il Muro d’Israele, ma anche per chi l’ha costruito sarà duro bollare Suleiman come «terrorista»: il più esplicito atto di resistenza, nel suo film, è afferrare silenziosamente - il silenzio, ecco la chiave del film - un’asta, prendere la rincorsa e saltare il Muro!
Ma Suleiman non cela mai la realtà dietro la poesia: si vedono anche la guerra del 1948 e l’Intifada del 1989-90, perché il futuro padre (Saleh Bakri) di Elia Suleiman aveva adattato armi inglesi a munizioni tedesche nel 1948. Lui è il protagonista della prima parte del film. Anche se aveva dovuto arrendersi, aveva continuato a essere sorvegliato: infatti ogni tanto bruciava una bandiere israeliana... Quando il piccolo Elia (Zuhair Abu Hanna) va a scuola, a Nazaret, ha le sue peripezie, perché dice agli altri bambini che «gli americani sono colonialisti». E il maestro insiste: «Chi ti insegna queste cose?».
Già, chi? Un padre che invecchiava senza rassegnarsi, educando il figlio, che a sua volta è invecchiato senza rassegnarsi. Con qualche ragione, dicono i rapporti di forza demografici. Davanti alle nascite tre volte più importanti degli arabi rispetto agli ebrei israeliani, il destino di Israele rimanda a quello dell’Algeria francese e del Sud Africa bianco.
Poi c’è la parte familiare. Borghesi, i Suleiman sono una famiglia con vicini molto peculiari, tutti più o meno condizionati dall’occupazione. Infatti i palestinesi non sono tutti guerri(gli)eri e c’è chi s’è adattato al dominio ebraico, così come i genitori e nonni s’erano adeguati a quello ottomano. C’è per esempio chi denuncia il cugino (Suleiman padre, cioè) all’Haganah, poi chi fa cantare ai bambini arabi le canzoni patriottiche israeliane, chi entra nella polizia israeliana...
Suleiman non condanna i collaborazionisti e nemmeno gli occupanti, non ha il gelido rigore giacobino di Vercors nel suo romanzo sull’occupazione tedesca, Il silenzio del mare, poi portato sullo schermo da Jean-Pierre Melville. Gli ebrei di Suleiman sono invasori, non mostri. Il tempo che resta non è manicheo. Al nemico qui si spara, da parte araba, per aver migliori posizioni dalle quali trattare quando non si sparerà più. Ma poi magari si perde e ci si trova alla mercé dell’altro. Probabilmente questa concezione realistica e non ideologica della guerra valeva anche per certi ebrei del 1948. Ci sarebbe voluta la guerra del 1967 perché Israele negasse la qualifica di nemico al medesimo, per ridurlo a «terrorista». Ma come fare la pace con qualcuno di cui si nega la parità politica? La Francia, che ha tuttora ambizioni sul Libano e dintorni, ospita a Cannes il film di Suleiman anche perché le permette di sostenere una posizione intermedia nel conflitto mediorientale. I giornalisti hanno ampiamente applaudito il film di Suleiman per la gioia sua, ma anche per quella di Nicolas Sarkozy.
Invitiamo i nostri lettori ad inviare la loro opinione ai giornali sopra citati, cliccando sulle e-mail sottostanti.