Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Kabul, guerra,rapimenti e retroscena Italiani in Afghanistan, anticipazione del libro di Nicola Minasi, commenti di Fausto Biloslavo e Gian Micalessin
Testata:Il Foglio - Il Giornale Autore: Nicola Minasi - Fausto Biloslavo - Gian Micalessin Titolo: «La barca di Kabul - Militari, feluche e civili. Ecco l’Afghanistan degli italiani - Le armi dei talebani? Tutte americane»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 21/05/2009, a pag. II, l'anticipazione del libro di Nicola Minasi dal titolo " La barca di Kabul " e il commento di Fausto Biloslavo dal titolo " Militari, feluche e civili. Ecco l’Afghanistan degli italiani ". Dal GIORNALE, a pag. 18, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " Le armi dei talebani? Tutte americane ". Ecco gli articoli:
Il FOGLIO - Nicola Minasi : " La barca di Kabul "
Il rapimento del Sig. M. (Daniele Mastrogiacomo ndr) Nel frattempo, e ormai sono le 17:00, arriva una telefonata urgente da Isaf, la missione militare della Nato: il consigliere politico vuole vedere l’ambasciatore, ha un messaggio urgentissimo. In pochi minuti tutti convergono sulla residenza dell’ambasciatore, il consigliere politico, la sua numero due e l’uomo degli inglesi. (…) L’inglese spiega che sanno benissimo dov’è il giornalista. Hanno individuato il distretto. Il gruppo non è criminale, ma talebano, e dipende da un comandante temibile (Dadullah ndr). Consigliano che sarebbe il caso di intervenire subito con un’azione militare, altrimenti rischia di essere spacciato. Mano a mano che ascolto, faccio avanti e indietro con l’altro salone, passando dalla cucina, per aggiornare l’ambasciatore. Arrivo nel salone nel momento più interessante: Isaf ha individuato il gruppo e lo tiene sotto controllo con gli aerei spia. Possono intervenire in qualsiasi momento con le Forze speciali. Sta al governo italiano decidere che fare. (…) Poco dopo arriva una telefonata dal ministero: meglio soprassedere circa l’operazione delle Forze speciali. Chiamo la mia corrispondente a Isaf e lei ne prende nota. “Va bene”, fa senza troppi commenti. “Allora chiamerò il Comando sud per fermarli”. (…) Non ho idea perché stiamo andando a Pol-i-Charki, la prigione più infame di tutto l’Afghanistan, aperta negli anni 70 e inaugurata sbattendoci dentro i parenti di Daud nel colpo di stato del 1978. Un posto terribile. Una volta ci sono entrato e la prima cosa che ho notato sono stati sei pali di cemento lungo il muro di cinta. Orribile. Ogni regime, incluso quello talebano, ha contribuito a farne il luogo prediletto del terrore e della repressione. Ormai siamo sul ponticello. Lungo la strada ci siamo ricongiunti con le macchine dell’Ambasciatore, ora procediamo insieme. Squilla il telefono, è di nuovo lui. Stavolta sembra molto più tranquillo. “Senti Nicola, dobbiamo fare una cosa. Tu adesso dovrai entrare nella prigione e poi aspettare lì. Bisogna parlare con un prigioniero, ma ci sarà qualcuno dall’ospedale, nell’infermeria. Tu devi solo stare lì a vedere quello che succede. Io aspetto fuori e, a seconda di come va, poi magari entro anch’io”. Va bene, passiamo il ponticello e proseguiamo. Ho capito di che si tratta. Il prigioniero è uno di quelli chiesti in cambio. Solo che lui, per ragioni sue, non vuole uscire, o non lo lasciano uscire. Bisogna verificare meglio. L’idea è di portarlo via e curarlo. Io dovrei andare per primo e aspettare gli eventi. (…) La prigione si fa mano a mano più grande. Mentre ci avviciniamo, le sentinelle di guardia si allertano. “Chi siete?”. “Ambasciata d’Italia”. “Ah, ok”, e alzano le sbarre. Non ho mai visto tanta solerzia. Il ministro della Giustizia, avvertito poco prima, ha dato via libera al nostro ingresso. Costeggiamo il lungo, lunghissimo muro di cinta. Poi giriamo un angolo, sotto una torre di guardia. Infine raggiungiamo l’entrata principale, un cancellaccio. Entriamo. Sulla sinistra, ancora una volta, i famosi pali di cemento. Poco più avanti ci fermiamo in un parcheggio fangoso, davanti a una sorta di porticato, anche quello di cemento, con l’intonaco scrostato. Appena sceso dalla macchina mi viene incontro il direttore della prigione, un generale della Polizia smilzo e con lo sguardo intelligente, asciutto, efficiente e di poche parole, con un sorriso abbagliante e un fare anche eccessivamente gentile. Gli occhi grigioazzurri, simili all’uniforme, si muovono svelti. Mi introduce in un corridoio buio, con poche lampadine penzolanti, dove ci sono gli uffici della direzione. Veloce, mi fa entrare in un ufficio sulla sinistra, poi ancora a destra, in quella che dovrebbe essere una sala d’aspetto. Ci sono un divano, una scrivania, uno scaffale e un televisore. Mi accomodo sul divano e lui alla scrivania. A giudicare dalla polvere, non ci entra nessuno da mesi. (…) Bussano alla porta. La spalancano ed entra subito un omone con baffi e capelli neri, l’aria arruffata, fumante. Il direttore scatta in piedi e, con l’aiuto dell’interprete Jabbar, fa le presentazioni: è il capo delle investigazioni dei servizi segreti afghani, il National Directorate for Security (NDS). Non sapevo che dovesse arrivare. Si siede dietro la scrivania e arriva tè per tutti, assieme a uno degli immancabili vassoietti con mandorle, noci, caramelle e miglio tostato. Anche il nuovo arrivato mi chiede: “Allora, vogliamo vedere il prigioniero?”. “La ringrazio – sono costretto a replicare – ma sono in attesa di una telefonata. Appena mi diranno che fare, possiamo procedere”. “Va bene”, concorda l’ospite con aria leggermente rassegnata. Un attimo dopo, però, un trambusto: rumori fuori e poi, in un lampo, la porta aperta e compare lui, il prigioniero, che entra a grandi passi, stringe la mano a tutti e viene a sedersi sul divano, dall’altro lato rispetto a me e con in mezzo l’interprete. Ora la situazione è più imbarazzante. Tutti ci guardiamo senza sapere che fare ma è chiaro che ognuno aspetta qualche novità da me. Il personaggio più interessante è senz’altro il prigioniero che, scopro dopo poco, è soprannominato “Mullah Mujahed”, il “mullah combattente”. Ha un vestitone verde, è grande e grosso, i capelli come Sandokan e uno sguardo penetrante affilato dal kajal, la polvere nera che gli borda gli occhi. La sua stretta di mano è stata convinta, ma al momento di lasciare la presa ha avuto un tremito infido e inaspettato. Mi pare quasi un profeta impazzito, un personaggio letterario. Mi ha stupito com’è entrato: senza manette, senza niente, come se fosse uno di casa. Il direttore della prigione gli sta seduto di fronte dall’altra parte della stanza. Parlano e con l’aiuto dell’interprete capisco alcune cose. Il direttore gli dice: “Ora che sarai libero non tornare a fare quello che facevi prima, mi raccomando”. “Ma come fanno a dare per scontato che sarà libero?”, mi domando. Intanto il prigioniero annuisce, non è chiaro se in maniera convinta. Anche l’uomo dei servizi si lascia andare agli stessi discorsi e insiste: “Basta, cambiate vita! La prigione serve a cambiare!”. L’intero contesto è totalmente surreale, per un attimo mi assale la sensazione che sia uno spettacolo messo in scena apposta per me. Starebbe a me reagire, ma non posso farlo. Ancora non mi ha chiamato nessuno. Prendo io l’iniziativa e chiamo l’Unità di Crisi. Il telefono continua a non funzionare e… chiamo dal cellulare dell’uomo dei Servizi. “Salve… questi me lo hanno portato qua... che devo fare?”. “Ma come? Non c’è nessun altro?”. “No, non è venuto nessuno…”. “Va bene, prendi tempo, vediamo un po’…”. (…) Mullah Mujahed continua a rimuginare silenzioso guardandosi i piedoni nelle ciabatte nere. Io cerco di prendere tempo e scambio qualche parola con il direttore dei Servizi. Ostenta disponibilità e dice che sta bene e, tanto, “non ha niente da fare”, ma un po’ alla volta si sta mangiando tutte le noci e caramelle. Sarà passata un’ora dal mio arrivo. Siamo oltre le 12:30. All’uomo dei Servizi portano alcune carte e lui le esamina. Poi firma qualcosa ed esce. Anche il direttore della prigione fa per uscire, ma faccio capire che non mi sembra il caso che mi lascino da solo nella stanza con Mullah Mujahed. E’ tutto sempre più confuso. Jabbar, l’interprete, ha capito che in realtà Mullah Mujahed è stato graziato da Hamid Karzai e che tra poco sarà libero. Però il Mullah non lo sa. Anzi, forse ha paura che, se venisse restituito ai suoi, i vecchi compagni gli facciano la pelle come spia. Tuttavia se è stato graziato, a maggior ragione è impossibile che possa essere scambiato! (…) Mentre (l’uomo dei servizi afghani, ndr) mi parla mi accorgo all’improvviso di un particolare spaventoso: quando fissa l’interprete per capire quello che gli sto dicendo, ha due espressioni sul volto. La parte destra ascolta con calma, quasi rilassata e bene intenzionata; l’altra, a sinistra, è sfigurata in un’immagine abominevole, con l’occhio che strabuzza e un’espressione al limite della pazzia. I baffi folti e neri corrono da una parte all’altra seguendo il cambiamento dei lineamenti e la sopracciglia a sinistra crea un arco che rende il viso terribile. Due espressioni sullo stesso volto, follemente diverse. Mi appare ancora più temibile di Mullah Mujahed e attraversato da fantasmi, se possibile, ancora più atroci. Qualche ora più tardi sono quasi le 17:00 e in ambasciata cominciano ad arrivare i fedeli per la Messa delle 17:30. D’un tratto mi arriva un messaggio sul cellulare. E’ dell’ambasciatore ed è la copia di quello che ha appena mandato a un alto responsabile della sicurezza afghana: “Gentile sig. WZ, se gli altri tre non saranno liberati entro un’ora, il sig. M sarà trucidato”. * * * L’ambasciatore americano si accende la pipa, segno che è sinceramente tranquillo e si sta godendo la serata. Il rappresentante dell’Ue si è seduto sul divano e parlotta con i suoi ammiratori. La vicerappresentante di Kofi Annan è pacifica e, con naturalezza, cerca di evitare un altro ospite, maledettamente in rotta con tutto il mondo delle Nazioni Unite a Kabul. A un tratto Carla, l’italiana, anzi la romana di Unodc che si occupa di riforma penitenziaria e ha diretto varie carceri in Italia, comincia a chiedermi ad alta voce di suonare il pianoforte. La vice capo della missione Onu, che è una vera amante della musica, insiste decisa; il rappresentante dell’Ue è curioso ma non preme. Vorrei davvero evitare, ma temo di sembrare arrogante, e alla fine l’ambasciatore americano, che è un signore gentile, mi incoraggia a procedere. Attacco il solito Notturno di Chopin, il 2°, e tutto sommato mi viene meglio di quanto mi aspettassi. (…) Con la coda dell’occhio vedo che la rappresentante di Unama si è avvicinata a una colonna alla sinistra del piano e, appoggiatasi, sorseggia concentrata il suo liquore. (…) Accanto a lei si è unito Alistair Corbett, un inglese simpaticone, capo del programma antinarcotici dell’ambasciata britannica. Capelli bianchi, ma giovane, è uno che ispira capacità e in fondo amore per la vita. Il giorno prima ho scoperto il perché, in un suo incontro con il generale dei Carabinieri: Corbett è cattolico e quindi, in termini britannici, un tipo “mediterraneo”. E’ stato chierichetto alla messa con cui Papa Wojtyla fu insiedato e quand’è morto è tornato a Roma per presenziare alla funzione. Ha dormito per strada ed era a San Pietro il giorno della celebrazione. In effetti non l’avrei mai immaginato guardando quella faccia furba. Verso la fine del pezzo mi avvio a chiudere e do un’occhiata verso il fondo del salone dove trovo il capo dei servizi, che ricambia. Termino il trillo e su due accordi finali sto bene attento a distanziarli bene per dare soddisfazione, ed evitare altre richieste. Un applauso breve ma convinto completa l’intermezzo, e inizia l’ultimo giro di chiacchierate. Accanto al piano prendo a parlare con Corbett e il suo omologo americano, Douglas Wankel, un interessante personaggio che ha lavorato negli ultimi 28 anni con l’agenzia antinarcotici americana, la famigerata Dea, che è già stato in Afghanistan nel 1978-1979. Intanto M., il numero due del rappresentante dell’Ue, che fino a ora se n’è stato in disparte su una poltrona, mi raggiunge mentre chiacchiero con loro. M. è un personaggio curioso e a suo modo inquietante: è uno dei pochissimi occidentali che conoscono perfettamente il dari, la versione locale del farsi, cioè del persiano. Tra l’altro, naturalmente con una grammatica in persiano, sta studiando anche il pashto, la lingua delle tribù tra Pakistan e Afghanistan. E’ un irlandese rossiccio con dei bellissimi occhi verdi, alto, nella seconda metà dei trent’anni, con una capigliatura degna dei migliori studenti di Oxford degli anni Settanta. Sotto i capelli però ha una barba folta, arruffata e completamente incolta. Nel complesso, potrebbe anche sembrare un afghano (“un tagiko”, dice lui). Insomma, un personaggio quasi mitologico, una specie di Pan mezzo inglese e mezzo pashtun, che come il dio dei boschi si diverte a fare scherzi e alla sua anima afghana unisce quella irlandese con la stessa impertinenza degli elfi. In realtà studia il Pakistan e l’Afghanistan almeno dal 1985 e ha lavorato a lungo all’ambasciata britannica a Islamabad. Forse anche per motivi familiari si è convertito all’islam, alla corrente sciita. Oltre ad avere questa doppia vita, ha anche modi suoi particolari che lo rendono abbastanza speciale. Parla con un accento molto “british”, di cui va fiero, ma alle parole aggiunge espressioni facciali e sguardi estremi, che lo mostrano insolitamente coinvolto in ciò che spiega. M. è la fonte da cui si abbeverano quasi tutti gli stranieri per sapere un po’ cosa succede davvero tra gli afghani, in città, nelle campagne, nel sistema giudiziario, tra i talebani e i mendicanti, tra i criminali e i signori della guerra. Conosce tutti e tutti lo conoscono. E’ lui che scrive i rapporti dell’ufficio dell’Ue e con le sue analisi fissa il ritmo delle discussioni nella comunità internazionale, i fatti del giorno, le novità. Si diverte incredibilmente in questo ruolo e nel parlare si prende la libertà di essere anche originale: fa battute e rimandi a cose e persone che praticamente nessuno conosce, ride sguaiatamente se dice qualcosa di intelligente, che obbliga gli altri a ridere con lui anche se non capiscono; emette giudizi e sentenze trancianti su cose e persone del luogo, che tutti raccolgono come detti da custodire gelosamente, informazioni annotate mentalmente per il lavoro di ogni giorno. Con il suo stile in parte spontaneamente e in parte studiatamente sciolto e pettegolo gioca la parte dell’epigono dell’Impero britannico in terra d’Afghanistan: un fine conoscitore del posto e allo stesso tempo un protagonista degli intrighi, l’erede di una grande tradizione culturale ma allo stesso tempo il figlio di questi luoghi. In pochi altri posti al mondo la conoscenza è potere come in Afghanistan ed è raro che in altre aree professori ed esperti, con una provenienza accademica, possano influire tanto sull’azione politica in un’area così strategica. Proprio questo fa chiedere di lui dove stia in realtà: somma la figura del funzionario imperiale a quella dell’infiltrato. Potrebbe essere un Kim Philby, la spia inglese al servizio dei sovietici, il “quarto uomo” del circolo di Oxford che da Beirut scriveva per l’Economist. Eppure in tante occasioni l’ho visto estremamente umano quando l’ho sorpreso a organizzare giochi e a divertirsi: una volta ci ha portati con alcuni amici a un laghetto a nord di Kabul, dove ci ha invitati a un barbecue offerto dal signore del posto. Al laghetto tiene tra l’altro la piccola barca a vela del padre, che si è fatto venire fin dall’Irlanda, e mi ha fatto fare un bellissimo giretto con lui. E’ l’unico proprietario di una barca a vela in Afghanistan.
Il FOGLIO - Fausto Biloslavo : " Militari, feluche e civili. Ecco l’Afghanistan degli italiani "
Soldati in prima linea, giovani diplomatici che si fanno le ossa in uno dei posti più pericolosi al mondo e volontari delle organizzazioni umanitarie che non demordono dalla loro missione nonostante attentati e rapimenti. Questi sono gli italiani in Afghanistan, che dopo il 2001 vanno e vengono da un paese disgraziato che ti resta nel cuore, o che cancelli per sempre. I militari sono i più numerosi, con 3.100 uomini a giugno in vista delle elezioni presidenziali. A Kabul e nell’Afghanistan occidentale ci provano a garantire un po’ di sicurezza. Con basi avanzate e avamposti perduti combattono una guerra nel nome di una missione di pace. Come nel fortino di Bala Murghab dove difendono i ruderi di un ex cotonificio. Prima di loro c’erano stati i sovietici e la leggenda vuole che siano finiti tutti sgozzati. L’ultima battaglia è scoppiata domenica scorsa, alle 7.30 del mattino, quando una pattuglia dei parà della Folgore è finita in un’imboscata a soli due chilometri dal fortino. La zona, nella provincia di Badghis, è vicina al confine con il Turkmenistan, un “rifugio” dei fondamentalisti dove scambiano droga con armi. I parà hanno risposto al fuoco e lo scontro è durato un’ora. Fra i soldati italiani non si sono registrati feriti, ma due dei tre blindati hanno subito danni. Si tratta dei Lince, i mezzi “salvavita” del contingente italiano, che i talebani hanno soprannominato “mostri” per il loro aspetto minaccioso e possente. Quando butta male si chiama via radio Trinity, il controllo aereo regionale, per l’appoggio dal cielo. Talvolta gli elicotteri d’attacco Mangusta ci mettono troppo per arrivare, mentre i caccia possono piombare sull’obiettivo anche in 15-20 minuti. Non sempre sganciano le bombe, a volte è sufficiente un volo radente. Dietro le quinte della sfida afghana che non possiamo permetterci di perdere, lavorano altri italiani in prima linea: un manipolo di diplomatici. Sempre a ranghi ridotti, ma solitamente giovani ed entusiasti. Il fortino che presidiano è l’ambasciata italiana nella zona di Kabul dove gli attentatori suicidi vanno a caccia di prede. Uno di loro è Nicola Minasi, classe 1973, che dopo tre anni in Afghanistan ha scritto “Mille giorni a Kabul”, un’immagine personale e autentica del retroscena quotidiano in Afghanistan. Dai sequestri degli italiani alla Babele del mondo internazionale, fra attentati, storie stile Lawrence d’Arabia, ma pure di ogni giorno con gli afghani. La luce verde della Farnesina alla pubblicazione fa onore al ministero solitamente paludato nel far raccontare ai propri diplomatici le esperienze in prima linea. In Afghanistan ci sono 170 civili, in gran parte esperti o volontari delle ong. Il più famoso è Alberto Cairo, che il New York Times ha soprannominato “l’angelo di Kabul”, per i “miracoli” che compie fra gli afghani. Un po’ artigiano, un po’ missionario laico, un po’ manager, il fisioterapista italiano di 54 anni è riuscito a mettere in piedi in Afghanistan, grazie alla Croce rossa internazionale, sei centri ortopedici. Attraverso i quali passano 20 mila mutilati o disabili ogni anno. Nel 2009 l’immagine di Cairo scattata dal grande fotografo di guerra James Nachtwey, è la prima di un album per i 150 anni della Croce rossa. Oltre a Cairo sono sbarcati in Afghanistan italiani che lavorano come funzionari della Banca mondiale o giovani architetti della fondazione Aga Khan, che vuole conservare e riabilitare il patromonio culturale del paese. Clementina Cantoni dell’ong Care è stata rapita, altri sono scampati al sequestro, o hanno evitato per un soffio di saltare in aria per un attentato.
Il GIORNALE - Gian Micalessin : " Le armi dei talebani? Tutte americane "
Sospetti e voci girano da mesi, ma ora un giornalista del New York Times ha in mano la pistola fumante, la prova inconfutabile. In Afghanistan più di 215mila armi donate all’esercito afghano da Usa e Nato sono andate perdute e i talebani sparano alle truppe della coalizione usando armi e munizioni destinate originariamente all’esercito e alla polizia. La pistola fumante emerge da un campo di battaglia sopra Korangal, uno sperduto avamposto della prima divisione di fanteria americana nella provincia di Kunar. John C. Chivar, un ex capitano dei marines diventato dopo il congedo inviato del New York Times, ci arriva qualche settimana fa per raccogliere le testimonianze dei soldati protagonisti di un’imboscata costata la vita a 13 talebani. Annotate le testimonianze, Chivar sfrutta la sua esperienza militare per verificare armi e munizioni recuperate accanto ai nemici caduti. A insospettirlo sono i marchi “Wolf” e “bxn” con cui sono contrassegnati i proiettili contenuti in 17 dei 30 caricatori calibro 7,62 per kalashnikov. Il primo identifica la “Wolf Performance Ammunition”, una ditta specializzata nella fabbricazione di munizionamento russo messa a contratto dal Pentagono per rifornire gli arsenali afghani. L’abbreviazione “bxn” identifica le vecchie partite cecoslovacche acquistate dopo la guerra fredda da Washington e destinate al riarmo dell’esercito afghano. Almeno 17 dei trenta caricatori trovati addosso ai talebani sono dunque usciti dai magazzini del governo e arrivati grazie a corruzione e assenza di controlli in mano talebana. A dimostrarlo ci ha già pensato un rapporto siglato dagli ispettori federali mandati in Afghanistan per indagare sulla sorte delle oltre 242mila armi leggere donate dagli Stati Uniti al governo di Hamid Karzai tra il 2004 e il 2008. A dar retta agli ispettori, un terzo di quella partita è letteralmente svanita assieme a 135mila armi provenienti dagli altri Paesi Nato. Secondo gli ispettori le forniture erano state ammassate in arsenali privi di controlli e sistemi di sicurezza chiusi da semplici cancelli di legno e dotati di registri manuali in cui non venivano neppure appuntati i numeri di serie di armi e munizioni. Assieme agli oltre 200mila fra mitragliatori e pistole potrebbero esser finiti nelle mani dei talebani anche centinaia di preziosi visori notturni indispensabili alle truppe straniere per garantirsi la supremazia tattica nel corso di operazioni su terreni sconosciuti. Secondo un altro rapporto commissionato dal Pentagono «le forze statunitensi e alleate hanno completamente ignorato il mandato che le obbliga a garantire verificabilità, controllo e sicurezza fisica» delle forniture di armi per un valore di circa 11, 7 miliardi di dollari messi a disposizione delle forze afghane. Secondo quel rapporto a vigilare su tutte le partite erano stati messi soltanto un maggiore e nove ufficiali a fronte del team di 77 militari guidati da un generale prescelti per vigilare sulle forniture in Arabia Saudita. E come sa chiunque abbia messo piede anche una sola volta in Afghanistan era ben difficile aspettarsi che a controllare ci pensassero i responsabili locali. Il generale messo dal governo di Kabul al comando dell’unità logistica responsabile della custodia e della distribuzione delle armi ha candidamente confessato agli ispettori americani di non aver assolutamente idea di dove siano stati immagazzinati o trasferiti gli arsenali dispersi.
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