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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa Rassegna Stampa
20.05.2009 BHL sul programma nucleare pakistano: è più pericoloso di quello iraniano perchè già compiuto
Con un'articolo su Zalmay Khalilzad e il suo ruolo nelle prossime elezioni afghane

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa
Autore: Bernard-Henri Lévy - La redazione del Foglio
Titolo: «Prima dell’Iran, il Pakistan talebano. Da lì arriva la minaccia nucleare - Khalilzad, il 'prescelto dell’impero' come ceo per Kabul - Napolitano: più Europa a Kabul»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 20/05/2009, a pag. 10, l'analisi di Bernard-Henri Lévy dal titolo " Prima dell’Iran, il Pakistan talebano. Da lì arriva la minaccia nucleare ",  dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Khalilzad, il 'prescelto dell’impero' come ceo per Kabul " e dalla STAMPA, a pag. 16, l'articolo di Paolo Passarini dal titolo " Napolitano: più Europa a Kabul ". Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Bernard-Henri Lévy : " Prima dell’Iran, il Pakistan talebano. Da lì arriva la minaccia nucleare "

Il Pakistan è la polveriera del mondo contemporaneo. L’ho scritto sei anni fa nell’inchiesta sulla morte di Daniel Pearl. L’ho ribadito il 12 settembre 2003 in un testo pubblicato sul Washington Post e la cui tesi era che la guerra in Iraq, per questo, per aver grossolanamente sbagliato bersaglio, sarebbe rimasta nelle memorie come uno dei peggiori errori strategici commessi da molto tempo a questa parte dall’amministrazione americana.
L’ho ripetuto ogni volta che il governo pachistano, in linea di principio nostro alleato, faceva di tutto per attirare l’attenzione sull’arresto di questo o quell’alto dirigente di Al Qaeda (Khalid Sheikh Mohammed, Yasser Jazeeri, Abu Zubeida, Ramzi Binalshibh, Abu Faraj Libbi…) confessando così, in maniera implicita, di tenerli gelosamente a portata di mano in attesa del momento propizio per ricavarne il prezzo migliore (la concessione di un prestito dal Congresso, una visita di Stato a Washington, l’autorizzazione a dare un voto sfavorevole al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite…). Non posso che confermarlo, ora più che mai, mentre è in pieno svolgimento l’offensiva dell’esercito di Islamabad, nella valle di Swat, contro gli insorti talebani, più coriacei di quanto sembrasse, di cui nessuno può prevedere dove e quando si fermeranno.
Infatti, di cosa si tratta? E come mai la situazione pakistana è oggi così angosciante? Innanzitutto, quando in Pakistan si parla di «talebani», è come parlare di Al Qaeda, letteralmente Al Qaeda, poiché gli elementi costitutivi di questo movimento, i gruppi come Lashkar-e-Toïba, Lashkar-e-Janghvi o Jaish e Mohammed, costituiscono il nucleo centrale dell’organizzazione stessa di Bin Laden.
Inoltre, questi gruppi, anche se sembrano minoritari in seno a una società che in linea di principio è più moderata, sanno di poter contare sull’appoggio di organizzazioni di massa come la Al-Rashid Trust, di cui avevo rivelato il ruolo nel rapimento di Daniel Pearl e che troviamo di nuovo — come del resto all’epoca del terremoto dell’ottobre 2005 — in prima fila fra gli assistenti «umanitari» che portano acqua, viveri e buone parole alle centinaia di migliaia di civili che fuggono dalle zone di combattimento.
Infine, malgrado le gentili menzogne con cui si tenta d’incantarci, tutta questa brava gente — gruppi militari più
associazioni «umanitarie» — non opera soltanto nella valle di Swat o, in maniera generale, in quelle che pudicamente son chiamate «zone tribali» di frontiera con l’Afghanistan, ma è presente in tutto il Paese, nel cuore delle sue grandi città, a poche centinaia di metri (la Moschea Rossa) da un’ambasciata, a un chilometro appena dal Consolato americano di Karachi (la madrasa di Binori Town che, quando la visitai, funzionava anche come area di addestramento militare e come ospedale da campo, dove lo stesso Osama Bin Laden veniva indisturbato a farsi curare e forse operare).
A questo si aggiunge il problema dell’arsenale nucleare pachistano. Si aggiunge il fatto che il Paese, corrotto dall’integralismo islamico, non è, diversamente dall’Iran, sul punto di dotarsi della bomba atomica, ma ne è già dotato. E questa, in Pakistan, non è una faccenda soltanto militare, ma è una vera causa nazionale, quasi santa, sostenuta da un movimento popolare in cui si ritiene del tutto normale che i missili appartengano non solo al Paese dei Puri, ma all’Umma, all’intera comunità dei Credenti.
Possiamo sempre dire, per rassicurarci, che tali arsenali sono sotto controllo.
Intanto, nessuno sa niente. Nessun responsabile può dire con certezza, e in coscienza, dove si trovino esattamente le sessanta testate di missili registrate né, ancor meno, cosa sia il famoso sistema
della «doppia chiave» che sarebbe stato imposto agli apprendisti stregoni dell’Isi (Inter-Services Intelligence). Ma soprattutto non dobbiamo dimenticare il caso di Abdul Qadeer Khan — il dottor Stranamore, padre della bomba atomica, che Daniel Pearl stava per smascherare— sul cui conto oggi sappiamo che stava per svelare i propri segreti non solo alla Corea del Nord e all’Iran, ma a gruppi afghano-pachistani legati all’organizzazione Al-Rashid Trust.
E io comunque ricordo la manifestazione popolare alla quale assistetti a Karachi, con migliaia di uomini che sfilavano con striscioni su cui non appariva il volto di un leader, né il nome di un martire e nemmeno il testo di uno slogan, ma il ritratto del dottor Khan, con il disegno gigantesco di un missile che, secondo la gente venuta a manifestare, era l’inalienabile proprietà della comunità musulmana nel suo insieme, compresi i commando della jihad.
Che l’amministrazione Obama abbia infine valutato la portata del pericolo è, naturalmente, una buona notizia. Che la Francia si sia dotata del «rappresentante speciale» Pierre Lellouche, noto, anch’egli, per la lucidità su tali problemi, è ugualmente confortante. Ma questo non ci dice, purtroppo, né quel che è bene fare né quel che è consentito sperare: in Pakistan, è la mezzanotte del secolo.
Bisogna rendersene conto al più presto.

Il FOGLIO - " Khalilzad, il 'prescelto dell’impero' come ceo per Kabul "

Washington. Per mesi si è scritto che l’afghan- statunitense Zalmay Khalilzad avrebbe conteso la poltrona di presidente afghano a Hamid Karzai nelle elezioni previste per la prossima estate. Nel frattempo, però, la deadline per la presentazione delle candidature, fissata per l’8 maggio, è trascorsa senza iniziative elettorali da parte di Khalilzad. Eppure, secondo una notizia diffusa dal New York Times, “Zal” – come è confidenzialmente chiamato nella sua cerchia – avrebbe forse semplicemente scelto una strada più informale e sottotraccia per contare politicamente nel suo paese d’origine. Khalilzad, ex ambasciatore americano a Kabul, poi a Baghdad e in seguito alle Nazioni Unite, avrebbe discusso con Karzai la possibilità di ricoprire il ruolo non elettivo di “chief executive officer” dell’Afghanistan. Cioè una specie di para-premier svincolato dalle incombenze parlamentari (e dalla necessità di rinunciare al passaporto americano ottenuto nel lontano 1984). Questi abboccamenti sarebbero da inscrivere nel tentativo di Karzai di presentarsi alle elezioni senza avversari di peso. Alcune personalità in odore di candidatura alle presidenziali hanno rinunciato in zona cesarini, in alcuni casi dopo un incontro con l’attuale capo di stato afghano. Si sono fatti prendere da timidezza elettorale sia il governatore della provincia di Nangarhar, Gul Agha Sherzai, sia l’ex ministro degli Esteri Ali Ahmad Jalali, sia l’ex ministro delle Finanze Anwar al Haq Ahady. Il controverso Mohammed Qasim Fahim, che ha un curriculum non specchiato da signore della guerra ma è anche stato ministro della Difesa, è stato invece sfilato dalla corsa grazie al carezzevole atteggiamento includente (pochissimo approvato nelle cancellerie occidentali) di Karzai, che lo ha accolto nei suoi ranghi come candidato alla vicepresidenza. Karzai, che è sempre meno popolare in patria e che deve il suo residuo modesto apprezzamento all’estero più che altro alle prosue celebrate mise etnochic, anche grazie a queste rinunce, ma soprattutto alla frammentazione dei suoi oppositori, corre verso la rielezione in un voto che si annuncia come non trasparentissimo. Anche se l’eventuale pulsione al broglio da parte di singoli potentati sia per certi versi un indiretto riconoscimento del meccanismo elettorale e sia comunque preferibile a un boicottaggio. La pur dissimulata presenza di un abile tessitore come Khalilzad potrebbe aiutare Karzai nel complesso orizzonte politico afghano. Senonché le autorità americane e britanniche smentiscono un loro ruolo dietro a Khalilzad. Infatti, se già molti afghani ritengono Karzai corpo estraneo per il suo surplus di occidentalismo, la presenza di Zal in Afghanistan potrebbe creare più di un imbarazzo alla Casa Bianca, visto che potrebbe facilmente rinfocolare le accuse di imperialismo. Perché Khalilzad, che pure è afghanissimo d’origine, in quanto è nato nel 1951 a Mazar i Sharif da una mamma analfabeta sposatasi a dodici anni con un funzionario statale e parla oltre al dari (la sua lingua madre imparentata con il persiano) anche il pashto, è percepito come totalmente americanizzato, fin dal suo primo assaggio di California, assaporato durante l’adolescenza grazie a un programma di scambi per studenti meritevoli. Dopo aver studiato all’Università americana di Beirut, Khalilzad ha trascorso tutta la sua vita negli Stati Uniti, collaborando intensamente con l’Amministrazione fin dalla metà degli anni Ottanta. E grazie al suo profilo di conoscitore di prima mano di una delle zone più calde del mondo, è stato utilizzato a fondo dalla diplomazia americana. Specie negli anni della guerra al terrore che lo hanno visto in perenne prima fila. Ambasciatore a Kabul dal 2003 al 2005 è stato poi trasferito a dirigere la rappresentanza diplomatica americana in Iraq dal 2005 al 2007 e poi al Palazzo di vetro dal 2007 al gennaio di quest’anno. E per quanto sia stato sempre restio a farsi applicare l’etichetta di neocon, negli anni di Bush è stato in loro compagnia, pur riuscendo a farsi riconoscere un atteggiamento più arrotondato. Un falco morbido, insomma, ma pur sempre falco. Un americano di origini afghane, ma pur sempre un americano. E ora un suo ruolo di primo piano (e per di più non elettivo) nell’organigramma dello stato afghano secondo molti contribuirebbe a fornire combustibile a chi descrive le truppe straniere dislocate nel paese in funzione antitalebana come eserciti di occupazione imperialista. Lontani da casa, poi rientrati Non sono rari i casi di uomini che entrano nella vita politica del loro paese d’origine dopo una vita intera passata oltreconfine. E’ il caso ad esempio del canadese (di ascendenze russe) Michael Ignatieff che dopo tre decenni in Gran Bretagna e negli Stati Uniti a lavorare come professore, storico e giornalista ha deciso di rientrare in patria e guidare l’opposizione alla guida del Partito liberale. Oppure è il caso di Simeone II di Bulgaria che, escluso dalle leve politiche (e dal territorio) del suo paese da quasi cinquanta anni di regime comunista, rinunciò poi alle velleità monarchiche, presentò alle elezioni un suo partito e divenne nel 2001 premier della Bulgaria democratica. Ma l’Afghanistan è una cosa molto diversa e Kahlilzad, specie nella propaganda antioccidentale affamata di spunti per parlare di imperialismo, rischierebbe di assomigliare di più se non proprio a quel britannicissimo Glubb Pascià (al secolo John Bagot Glubb) che guidò negli anni Quarnta e Cinquanta la Legione araba di Transgiordania, perlomeno a Konstantin Rokossovsky. Pur di famiglia polacca e nato a Varsavia, Rokossovsky, dopo 35 anni all’estero, si era completamente russificato (cioè sovietizzato) tanto da preferire che gli si rivolgesse la parola nella lingua di Tolstoi a lui più familiare. E quando Stalin nel 1949 lo spinse verso la carica di ministro della Difesa nazionale di Varsavia (nonché di Maresciallo di Polonia) fu percepito dalla popolazione, a dispetto del suo albero genealogico e del suo certificato di nascita, come un corpo estraneo, cioè un agente straniero dell’imperialismo sovietico.

La STAMPA - Paolo Passarini : " Napolitano : più Europa a Kabul "

LONDRA
In un lungo e articolato discorso dal taglio dichiaratamente obamiano, pronunciato ieri nella sede dell’Istituto Internazionale di Studi Strategici, Giorgio Napolitano si è detto convinto che occorra un maggiore impegno europeo, e quindi anche italiano, in Afghanistan. «Sono fermamente convinto - ha sostenuto il presidente della Repubblica - che una partecipazione europea più attiva nelle operazioni di mantenimento e ristabilimento della pace in Afghanistan, come energicamente suggerito dall’amministrazione americana, dovrebbe essere seriamente presa in considerazione». Si è trattato di una presa di posizione insolitamente netta, poiché riguarda una materia delicata come la politica estera, costituzionalmente preclusa al presidente; e rafforzata dall’uso di quei due avverbi («energicamente» e «seriamente»), il primo per sottolineare quanto sia forte la pressione americana al riguardo e il secondo per significare il carattere quasi imperativo della sua raccomandazione. Conoscendo lo scrupoloso stile di lavoro di Napolitano, si tratta certamente di una posizione concordata con il governo e quindi destinata ad avere un seguito operativo. Del resto, anche il ministro degli Esteri Franco Frattini si era più volte pronunciato in questo senso.
Napolitano ha parlato della situazione in Afghanistan come di una delle «tre cruciali aree di crisi» da cui provengono attualmente le maggiori minacce per la sicurezza mondiale, le altre due essendo il Medio Oriente («allargato», ha aggiunto per includere l’Iran) e il Corno d’Africa (focolaio, tra l’altro, della pirateria navale).
Dopo aver definito poco «incoraggiante» l’andamento delle operazioni in Afghanistan, Napolitano ha motivato l’invito a un maggior impegno europeo facendo proprio «il monito del presidente Obama, secondo il quale l’Europa potrebbe trovarsi sotto una minaccia di terrorismo più grave rispetto a quella che incombe sugli stessi Stati Uniti». Un maggior impegno europeo in quell’area è dunque «innanzitutto nel nostro interesse».
Più in generale, secondo il presidente italiano, «il nuovo corso politico» avviatosi negli Stati Uniti con l’elezione di Barack Obama è stato senz’altro uno dei tre più «importanti» eventi mondiali dell’ultimo anno. Ed l’unico positivo, poiché gli altri due sono stati il rischio di un riaprirsi della Guerra Fredda (a causa soprattutto della decisione di George Bush di creare nuove basi per la difesa missilistica in Polonia e Repubblica ceca, cui sono seguite «avventate minacce» da parte della Federazione russa) e l’esplodere della crisi economico-finanziaria mondiale. Ma fortunatamente l’elezione di Obama si è subito materializzata in «risolute e innovative iniziative in politica estera» che «sembrano aprire nuove prospettive».
Quest’ultima visita del presidente nel Regno Unito non aveva alcun carattere ufficiale ed è stato quindi un segno di notevole considerazione (e di «cordialità») l’invito a colazione a Buckingham Palace rivolto dalla regina Elisabetta II a lui e alla signora Clio. Nel corso del pranzo, rallegrato dalle evoluzioni dei «corgys» reali, i cagnolini prediletti dalla Regina, Elisabetta ha espresso, oltre che profonda solidarietà per l’Abruzzo, un sincero apprezzamento per la decisione di spostare il prossimo G8 da Roma a L’Aquila, decisione che anche il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha detto ieri di condividere, definendola «importante».

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