OBAMA, please, GUARDA I CONFINI E RIFLETTI !
Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 20/05/2009, a pag. 17, il commento di R. A. Segre dal titolo " Obama-Netanyahu, mezza vittoria per due ", dal RIFORMISTA, a pag. 10, l'articolo di Luigi Spinola dal titolo " Obama vuole i due Stati? Per Hamas è un truffatore ", dalla REPUBBLICA, a pag.19, l'articolo di Alberto Stabile dal titolo " È gelo tra Israele e Stati Uniti 'Quel vertice è stato un fallimento' ", dall'UNITA', a pag. 26, l'articolo di Umberto De Giovannangeli dal titolo " Lo strappo da Obama inquieta Israele. L’Anp: bene l’alt Usa alle colonie " e dal MANIFESTO, a pag. 1-10, l'articolo di Zvi Schuldiner dal titolo "Come ai tempi di Carter " preceduti dal nostro commento. Ecco gli articoli:
Il GIORNALE - R. A. Segre : " Obama-Netanyahu, mezza vittoria per due "
L'incontro fra Obama e Netanyahu alla Casa Bianca è stato lungo. È durato quattro ore, più di quanto un presidente americano abbia mai dedicato, in un primo incontro, a un leader straniero. Questo dimostra quanta attenzione Obama dia alla questione israeliana. Ma il fatto che nessuna dichiarazione congiunta sia stata pubblicata dopo l'incontro dimostra che le posizioni sono ancora distanti. Una «battaglia fra titani», come aveva intitolato un giornale, però non c'è stata. Obama doveva pensare all'economia più che al Medio Oriente; Netanyahu doveva evitare una rivolta all'interno della sua coalizione se avesse accettato pubblicamente l'idea dei due Stati in Terra Santa. Il presidente americano non voleva scontrarsi con il solo alleato sicuro nel Medio Oriente e Netanyahu non poteva rischiare di alienarsi l'unico potente amico di cui dispone. Ciascuno ha così ottenuto almeno in parte ciò che voleva in questa prima mano di un gioco tutt'altro che finito.
Come prevedeva avant'ieri il Giornale, Netanyahu ha ottenuto un termine per l'inizio delle pressioni serie sull'Iran. Sei mesi, il tempo necessario per vedere come andranno le elezioni in Libano e in Iran, cioè se gli Hezbollah riporteranno la vittoria che tutti prevedono e se Ahmadinejad resterà al potere. Sei mesi sono inoltre necessari alla diplomazia americana per organizzare delle sanzioni economiche contro l'Iran assieme agli europei. È il tempo di cui Israele ha bisogno per mettere a punto con gli americani eventuali piani operativi contro l'Iran, anche se appare evidente che Obama farà tutto per impedirlo. Fra sei mesi la campagna per il rinnovo di un terzo dei seggi al Senato e al Congresso di Washington sarà in corso. Il presidente americano deve occuparsi del Congresso, che controlla i fondi e dove i sostenitori di Israele sono molti.
Obama ha ottenuto per parte sua quello che voleva. Far sapere agli israeliani e agli arabi che lo Stato palestinese ci sarà e che Netanyahu deve iniziare subito negoziati con i palestinesi. Negoziati per cosa? Per la creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele, ha detto Obama; per la creazione di un’ampia autonomia, ha invece detto Netanyahu nella dichiarazione alla stampa. Non ha pronunciato la parola Stato palestinese e ha sottolineato invece che il presidente americano comprende i bisogni di sicurezza e che Israele non intende «dare senza ricevere». È probabile che nessuna colonia ebraica in Cisgiordania sarà smantellata, ma lo saranno molti blocchi stradali che ostacolano la vita economica e sociale dei palestinesi. Anche a causa della crisi economica i fondi per la colonizzazione saranno congelati e questo avrà un effetto concreto su nuove costruzioni nelle zone occupate.
Non è detto che questo soddisfi gli arabi. Certo non soddisfa l'opposizione israeliana, che da questo incontro con Obama sperava che Netanyahu uscisse ammaccato. Non è stato così, anche se la destra si rende conto che i tempi sono cambiati da quando Bush sedeva alla Casa Bianca. In altre parole un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto a seconda di chi lo guarda.
Il RIFORMISTA - Luigi Spinola : " Obama vuole i due Stati? Per Hamas è un truffatore "
Il razzo è piombato nel cortile di casa intorno alle cinque e mezzo del pomeriggio. «Era da tempo che non scattava l’allarme rosso...ci ha sorpreso» racconta il proprietario della casa sfiorata dal fuoco nemico. Non ci sono stati feriti ma lo shock è stato forte. Sderot ieri è tornata nel mirino dei lanciarazzi di Gaza. La calma relativa degli ultimi tempi aveva fatto sperare in un possibile cessate il fuoco. L’armistizio rimane fragile: sei razzi ad aprile, un qassam e un colpo di mortaio a inizio mese. E l’esplosione di ieri che fa da eco all’escalation della tensione politica-diplomatica intorno a Hamas. Da Gaza gli islamisti hanno usato parole dure nei confronti di Obama. Hamas è delusa - ha detto il portavoce Fauzi Barhoum - dalle posizioni espresse dal presidente Usa dopo l’incontro con Netanyahu. «Obama inganna l’opinione pubblica e vuole preservare l’esistenza di Israele come Stato razzista». La bocciatura è in linea con il lessico del movimento, ma non era scontata. E contrasta con il plauso che giunge dai rivali di Fatah, che si dicono incoraggiati dalle dichiarazioni dell’americano. Anche Hamas potrebbe trarre motivo di soddisfazione dal “braccio di ferro” Stati Uniti - Israele (sebene in parte addolcito nell’ultimo giorno di Bibi a Washington) sul rapporto tra dossier iraniano e dossier palestinese. Al netto delle preclusioni ideologiche del Likud, Netanyahu motiva la volontà di legare il via libera allo Stato palestinese a progressi sul fronte iraniano con il pericolo che alle frontiere di Israele possa nascere uno Stato targato Hamas e manovrato da Teheran. Obama si oppone a questa subordinazione della “questione palestinese” alla “questione iraniana”. Hamas peraltro negli ultimi tempi ha ripreso a corteggiare l’occidente. Perfino il duro Meshal (nella foto) rivolgendosi di recente via video ai parlamentari britannici ha assicurato che il movimento è aperto a «una vera pace» chiedendo all’Europa di spingere Obama verso un nuovo approccio. Meshal definisce «un’opportunità d’oro» la “Iniziativa di pace araba” (riconoscimento di Israele in cambio di un ritorno ai confini del ’67) che costituisce tutt’ora il nocciolo del possibile accordo. Altre dichiarazioni flautate sono fioccate da Gaza la settimana scorsa senza indurre gli Usa a “sdoganare” il movimento. A Washington come in altre cancellerie d’occidente però, la linea “aperturista” si stava rafforzando. Almeno fino alla frenata di ieri. Obama è un illusionista per Hamas. I razzi continuano a cadere su Sderot. Ed è difficile smentire il capo di Shin Bet che ieri alla Knesset ha spiegato che «non ci sono speranze di pace finche Hamas controlla Gaza»
La REPUBBLICA - Alberto Stabile : " È gelo tra Israele e Stati Uniti 'Quel vertice è stato un fallimento' "
Stabile scrive, riferendosi a Netanyahu : " un primo ministro che secondo la tradizione della destra israeliana non vuol sentir parlare di Stato palestinese". Questa affermazione è inesatta. Ricordiamo aStabile che proprio un premier della "destra israeliana " è stato responsabile della restituzione della Striscia di Gaza. Dopo, Stabile scrive : "Naturalmente, le aperte divergenze emerse dal vertice di Washington, sono musica per le orecchie dei palestinesi moderati la cui reiterata disponibilità a riprendere il negoziato non ha quasi trovato audience nel nuovo governo israeliano". Palestinesi moderati...a chi si riferisce Stabile? Di certo non ad Hamas. E nemmeno all'Anp, il cui leader Abu Mazen ha, poco tempo fa, dichiarato di non essere intenzionato a riconoscere Israele come Stato ebraico. Stabile non è molto attendibile per quanto riguarda la "reiterata disponibilità a riprendere il negoziato ". Per ora notiamo che il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza continua e che gli attacchi terroristici non si sono fermati nemmeno nella "moderata" Cisgiordania (ricordiamo ai lettori il caso del tredicenne ucciso a colpi d'accetta da un terrorista palestinese a Bat Ein ai primi di aprile).
Ecco l'articolo:
GERUSALEMME - "Disaccordo!" (Maariv). "Dopo tre ore di colloqui (Obama e Netanyahu) si sono ritrovati d´accordo quasi su niente" (Yediot Ahronot). Non è un giudizio, quello espresso concordemente nei titoli dei maggiori giornali israeliani, ma una constatazione obiettiva. Ed inevitabile.
Cos´altro ci si poteva aspettare dall´incontro tra un presidente americano considerato eccentrico rispetto agli "interessi israeliani" e un primo ministro che secondo la tradizione della destra israeliana non vuol sentir parlare di Stato palestinese? Ma il dissenso non si limita alla mancata adozione da parte di Netanyahu della ipotesi dei "due Stati" per porre fine ad un conflitto che dura da 60 anni. Tre temi spiccavano nell´agenda del faccia a faccia: il nucleare iraniano, il congelamento degli insediamenti nei Territori occupati, la ripresa del negoziato. E su nessuno di questi argomenti s´è registrata un´intesa significativa.
Prendiamo l´Iran, che è il cardine su cui ruota e da cui dipende la strategia israeliana. Netanyahu non è riuscito a trasmettere ad Obama quel senso di urgenza che promana dalle prese di posizione del vertice israeliano quando si affronta il nodo iraniano. Il premier avrebbe voluto imporre un limite di tre mesi al dialogo che Obama vuole intavolare con gli iraniani per cercare di dissuaderli dal perseguire il loro disegno. Ma Obama s´è detto contrario a imporre "limiti artificiali" al confronto, riservandosi un riesame verso la fine dell´anno. Al contrario, parlando del processo di pace, è stato Obama ad avvertire che non ha senso sprecare parole e che, invece, per israeliani e palestinesi è arrivato il momento di "rimboccarsi le maniche" per riprendere il negoziato. Netanyahu, richiamato al dovere, ha risposto: «Sono pronto». Ma pronto a discutere di che cosa?
Naturalmente, le aperte divergenze emerse dal vertice di Washington, sono musica per le orecchie dei palestinesi moderati la cui reiterata disponibilità a riprendere il negoziato non ha quasi trovato audience nel nuovo governo israeliano. Il capo negoziatore Saeb Erekat avverte che soltanto «un capovolgimento delle politiche condotte da Israele sul terreno può ridare credibilità al processo di pace». Il che vuol dire: immediato congelamento degli insediamenti, ristabilimento della libera circolazione all´interno dei Territori, apertura dei valichi e fine dell´"assedio" di Gaza.
Congelare degli insediamenti? La risposta dei coloni suona come una minaccia politica. «L´elettorato - ha detto il portavoce del Consiglio degli insediamenti - ha posto delle linee chiare a questo governo. Le cose che sentiamo alla Knesset ci incoraggiano a pensare che, se Netanyahu bloccherà gli insediamenti, il Parlamento sarà con noi».
Ma se non accetta lo Stato palestinese ai confini d´Israele, perché teme che possa cadere nelle mani di Hamas - che continua a non fidarsi di Obama e bolla le su dichiarazioni come un «tentativo di ingannare l´opinione pubblica» - di che cosa è disposto a discutere Netanyahu? «Vogliamo parlare su tutto - dice il vicepremier e ministro per i Servizi Segreti, Dan Meridor - e in tutte le direzioni. Come abbiamo fatto finora. Non so se Netanyahu ha un sistema brevettato per convincere Abu Mazen a rinunciare al diritto al ritorno o alla divisione di Gerusalemme. Vogliamo però proseguire perché lo status quo non è un´alternativa».
L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " Lo strappo da Obama inquieta Israele. L’Anp: bene l’alt Usa alle colonie "
Udg scrive che le parole di Obama hanno fatto arrivare: " qualche spunto d'ottimismo persino ad Ahmed Yussef, voce diplomatica di Hamas. «Obama è stato molto chiaro sulla formula dei due Stati - rileva Yussef - Obama è un uomo politico saggio ed onesto, assistito da una squadra di consiglieri che ben comprendono le radici del conflitto mediorientale ed in particolare che la causa palestinese è la “madre” di tutte le cause in questa regione». ". Sulla ragioni israeliana nemmeno una parola. Che al portavoce di Hamas importi poco della situazione degli ebrei israeliani non ci stupisce, ma che Udg non commenti le sue dichiarazioni ricordando, per esempio, che Israele deve combattere guerre di difesa contro terroristi palestinesi e Paesi arabi da quando è nato, è sconcertante. La causa palestinese di cui parla Yussef, poi, non è dovuta alla presunta occupazione israeliana, ma alla volontà dei Paesi arabi di annientare Israele per principio. Nel finale dell'articolo, Udg riporta una bufala pubblicata da Haaretz : " un articolo dello storico Tom Segev che si fa beffe della scelta della delegazione israeliana di regalare a Obama una riedizione del diario di viaggio di Mark Twain in Palestina, datato 1867 e grondante pregiudizi anti-arabi d’epoca. ". Udg dovrebbe controllare meglio le sue fonti. Comprendiamo che l'occasione era troppo ghiotta (far passare Netanyahu per razzista antiarabo e cafone), ma Netanyahu ha negato di aver regalato il libro a Obama. Ecco l'articolo di Udg:
Una vignetta per raccontare di un flop diplomatico. La vignetta - pubblicata dal quotidiano progressista israeliano Haaretz - mostra Barack Obama che si congeda da Benjamin Netanyahu all’uscita dalla Casa Biana: «C’è qua vicino una fermata della metropolitana che la porta direttamente all’albergo - dice Obama. - Se passerà di nuovo nei dintorni, mi faccia una telefonata».
Le sfumature sono numerose e i tentativi dell'establishment di trovare il bicchiere mezzo pieno non mancano. Ma per la stampa e la gran maggioranza degli analisti israeliani non c'è molto da arzigogolare: il primo incontro di Netanyahu col presidente americano della nuova era, è andato male. Molto male.
Dalle prospettive di uno Stato palestinese, al congelamento degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, fino alla percezione della minaccia nucleare iraniana: i due leader si sono ritrovati «d’accordo solo sul fatto di non essere d'accordo», rileva Yediot Ahronot, il giornale più diffuso di Tel Aviv. L'alleanza non è certo in discussione, ma la sensazione generale in Israele - all'indomani di un vertice atteso con ansia - appare quella d’un amico americano meno amico del solito. Di un asse strategico forse in fase di riesame. E comunque d’una rara mancanza di sintonia con l’Alleato principe sulle priorità del momento. Mentre da Ramallah l’Anp del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) - invitato a Washington per il 28 maggio - non cela un moto di soddisfazione: registrando il divario fra «l’incoraggiante» fermezza di Obama sull’obiettivo dei due Stati e sulla necessità di rimettere in riga i coloni (apertamente irritati con l’amministrazione Usa) e «il deludente» silenzio ostentato da Netanyahu.
Un silenzio che «finalmente sembra non trovare più sponde a Washington», dice l’ex negoziatore Yasser Abed Rabbo, cui da Gaza trova il modo di fare eco con qualche spunto d'ottimismo persino Ahmed Yussef, voce diplomatica di Hamas. «Obama è stato molto chiaro sulla formula dei due Stati - rileva Yussef - Obama è un uomo politico saggio ed onesto, assistito da una squadra di consiglieri che ben comprendono le radici del conflitto mediorientale ed in particolare che la causa palestinese è la “madre” di tutte le cause in questa regione».
Obama divide Hamas: «L’appoggio di Obama a Netanyahu, soprattutto sulla questione dello Stato ebraico, ignorando le sofferenze della popolazione e la fine dell'embargo, non dimostra nessun sostanziale cambiamento della politica statunitense nei confronti della nostra gente», sentenzia Fawzi Barhoum, portavoce del movimento islamico a Gaza.
Dallo staff del premier israeliano l’interpretazione del colloquio dell’altro ieri è un po' diversa. Netanyahu - si spiega - può considerare come «un successo» l’aver ottenuto da Obama l’indicazione del termine di «fine anno» per fare il punto sugli abboccamenti diplomatici avviati con l’Iran. Anche se l’inquilino della Casa Bianca ha escluso seccamente di essere disposto a farsi imporre «scadenze artificiali» per un eventuale inasprimento delle sanzioni. Men che meno i tre mesi auspicati durante il recente tour in Europa dal ministro degli Esteri di Netanyahu, Avigdor Lieberman, per evitare che la trattativa si risolva in ciò che la leadership israeliana unanimamente sospetta: l'occasione per Teheran di guadagnare tempo sulla strada della realizzazione di un arsenale atomico in grado - si sostiene - di mettere in pericolo l’esistenza stessa dello Stato ebraico.
Di «divergenze inconciliabili» sull’Iran, oltre che sulle prospettive del negoziato con i palestinesi, scrive il Jerusalem Post. Mentre Maariv sintetizza tutto in prima pagina con una parola: «Disaccordo». L'evidenza di «profondi» contrasti è riconosciuta pure da Israel ha-Yom, quotidiano di destra vicino al Likud (il partito di Netanyahu), il quale non esclude peraltro che la nuova politica Usa possa portare sviluppi positivi per Israele sul fronte di un’offerta di «pace regionale» con l’insieme degli Stati arabi. Haaretz sottolinea invece la richiesta perentoria del presidente Usa di «bloccare la colonizzazione». E ironizza sul clima del vertice: sia con la vignetta che mostra Netanyahu accompagnato all'uscio come un ospite qualunque e invitato a fare «un colpo di telefono» laddove mai dovesse ripassare «nei dintorni» della Casa Bianca; sia con un articolo dello storico Tom Segev che si fa beffe della scelta della delegazione israeliana di regalare a Obama una riedizione del diario di viaggio di Mark Twain in Palestina, datato 1867 e grondante pregiudizi anti-arabi d’epoca.
Il MANIFESTO - Zvi Schuldiner : " Come ai tempi di Carter "
Schuldiner scrive che : " Netanyahu non si azzarda neppure ad arrivare alla proclamazione retorica dei due stati perché deve preservare la sua coalizione anche quando questo obiettivo potrebbe essere al costo della pace e al prezzo di nuove spirali sangue-repressione-più sangue ". Netanyahu ha dichiarato in precedenza che si sarebbe impegnato per la nascita dello Stato palestinese. Le considerazioni di Schuldiner, quindi, sono infondate. Arrivare a sostenere che per Netanyahu sia più importante la sua poltrona di premier che la pace e la sicurezza degli israeliani è solo l'opinione dello scrivente.
Ecco l'articolo:
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu non ha potuto nascondere l’acre sapore del suo primo faccia a faccia con il presidente americano Barack Obama. Il capo del governo d’Israele comincia ad avventurarsi su una strada che potrebbe condurre a serie differenze con l’amministrazione Usa dopo essersi lasciato andare, prima del viaggio a Washington, a grandi professioni di fiducia sul successo della missione. Netanyahu è considerato un artista delle relazioni pubbliche. Per questo credeva che il suo eccellente inglese più le sue posizioni rispetto all’Iran e al terrorismo avrebbero portato a una discussione pragmatica con Obama senza dover arrivare necessariamente ai nodi della questione. Netanyahu si è presentato come capofila di una coalizione governativa destinata a durare poco se la pressione internazionale si fa seria. Le promesse suimiglioramenti economici nei territori occupati e le dichiarazioni del tipo «non vogliamo governare i palestinesi» non riescono a nascondere una questione di fondo: la coalizione di governo israeliana include elementi razzisti di estrema destra, anche nello stesso partito del premier, che lomanderebbero in pezzi nel caso pronunci le cinque fatidiche parole «due stati per due popoli». La vera questione va molto oltre la formula: si tratta di sapere se il governo israeliano sia disposto a interrompere l’incessante colonizzazione della Cisgiordania e Gerusalemme, si tratta di espellere i coloni israeliani dai territori occupati, si tratta di vedere una Gerusalemme unificata macome capitale dei due popoli. E si tratta di trovare una formula che faccia riferimento ai profughi. Netanyahu non si azzarda neppure ad arrivare alla proclamazione retorica dei due stati perché deve preservare la sua coalizione anche quando questo obiettivo potrebbe essere al costo della pace e al prezzo di nuove spirali sangue-repressione-più sangue. La mattina di martedì il governo israeliano si è affrettato a dichiarare che non sta pensando all’apertura di nuovi insediamenti, ma il problema vero non è se ce ne saranno dei nuovi bensì se sospenderà tutti i progetti di costruzione di nuove case che sta portando avanti. Il segretario del governo Hauser ha fatto queste dichiarazioni perché gli americani hanno cominciato a parlare più chiaro. Nelle ultime settimane a Washington hanno ribadito più volte che chiedono un cambio consistente nella regione e in Israele già si parla di un ritorno ai «brutti tempi di Carter e della sua brutale pressione su Begin». Benjamin Netanyahu confidava in una carta di ricambio da giocare nei colloqui con Barack Obama, «la bomba iraniana», ma questa non ha dato i risultati sperati. Ok, dicono gli americani, noi non detteremo agli israeliani la loro agenda strategica, però Obama ha reso del tutto chiaro a Netanyahu che i colloqui con Tehran sono una realtà e che gli israeliani dovranno attendere per lo meno fino alla fine dell’anno per vedere se daranno risultati. In altre parole, gli americani non daranno via libera al governo israeliano per un possibile attacco all’Iran. Tutti i dettagli dell’incontro alla Casa bianca non sono noti, ma si può già dire che nel caso gli accenni a un cambio serio della politicaUsa in Medio Oriente siano confermati, potrebbero rivelarsi la chiave per l’avvio di un processo in cui la destra israeliana si troverà di fronte a una scelta secca e dolorosa: o il confronto e lo scontro con l’alleato fondamentale o il suo smembramento interno. Il confronto-scontro vorrebbe dire anche continuare con la linea «patriottica» e fondamentalista che provocherebbe a Israele più danni di quelli che gli potrebbero essere inferti dai suoi peggiori nemici.
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