Riportiamo da LIBERO di oggi, 17/05/2009, a pag. 32, l'articolo di Francesco Borgonovo dal titolo " Contorto, perverso e diabolico. Stand islamico contro Rushdie " e dalla REPUBBLICA, a pag. 15, l'intervista a Orhan Pamuk dal titolo " Pamuk: 'Non mi importa del processo continuerò a dire quello che voglio' ". Ecco gli articoli:
LIBERO - Francesco Borgonovo : " Contorto, perverso e diabolico. Stand islamico contro Rushdie "
Sono le giornate degli scrittori perseguitati: l’anglo indiano Salman Rushdie, il turco Orhan Pamuk, la cubana Yoani Sánchez. Ieri e oggi alla Fiera del Libro di Torino i riflettori sono puntati su di loro. Salman Rushdie presenta questo pomeriggio alle 14, nella Sala dei 500, il nuovo romanzo, L’incantatrice di Firenze (Mondadori). Una storia surreale e divertente, che ha tra i protagonisti un giovanissimo Niccolò Machiavelli (soprannominato “Il Machia” dagli amici). Esattamente vent’anni fa, lo scrittore nato a Bombay fu oggetto di una fatwa dell’ayatollah Khomeini che lo condannava a morte per aver scritto il romanzo I versi satanici. A febbraio, le autorità iraniane hanno fatto sapere che la sentenza dell’ayatollah è ancora valida.
Tra gli espositori presenti alla Fiera c’è l’associazione islamica Ahmadiyya Muslim Jama’at. Si tratta - si legge sul sito www.alislam.it - di «un’organizzazione religiosa, di portata internazionale, con sedi in 193 Paesi (sede centrale Londra) in tutto il mondo ed è uno dei 73 gruppi all’interno della religione musulmana, di estrazione sunnita». Allo stand (sul quale campeggia la scritta: amore per tutti, odio per nessuno) è possibile acquistare il libro intitolato Rushdie. Haunted by his unholy ghosts (Rushdie. Perseguitato dai suoi fantasmi empi) e firmato da Mohamed Arshad Ahmedi, membro della sezione britannica dell’associazione.
Questa la quarta di copertina: «La carriera letteraria di Salman Rushdie viene esaminata nel dettaglio e questo libro cerca di dimostrare che il suo ruolo nell’intero sordido affare non è così innocente come si vuol far credere. Infatti, egli ha mostrato di possedere caratteristiche veramente mefistofeliche». Nel resto del libro, Ahmedi analizza l’intera opera di Rushdie, dotato di una «mente contorta e perversa, che supera i confini della decenza». Più avanti nel testo si legge: «Il suo lavoro successivo, chiamato I versi satanici, è divenuto una “maledizione” per lui, e quindi lui è diventato una “vittima” (…). Tuttavia, bisogna rilevare che è diventato una maledizione a causa delle sue stesse azioni. Egli infatti è stato l’artefice del suo destino». Insomma, «la punizione di un’azione malvagia è la naturale conseguenza dell’azione stessa ed è proporzionata ad essa». L’azione malvagia di Rushdie è ovviamente quella di aver scritto un libro “blasfemo”. Si prosegue spiegando che la vicenda di Rushdie è stata “ridotta” a un «caso di libertà d’espressione», trascurando «la profonda offesa (…) causata ai musulmani»; e che lo scrittore è disposto a tutto per ottenere la fama, anche a «bruciare tra le fiamme», altra allusione alla natura mefistofelica di Salman. Il saggio sostiene anche, in poche righe, che Rushdie non merita la condanna a morte. Ma per pagine e pagine scarica accuse pesanti nei confronti della sua «penna avvelenata», dalla quale i musulmani devono difendersi. E se Rushdie, per fama e denaro, non si è fatto scrupolo di insultare il Profeta, altri seguono il suo esempio: «Non si può negare il fatto», si legge in uno dei paragrafi finali, «che l’episodio dei Versi satanici ha fatto nascere altri Rushdie che hanno cominciato a venire allo scoperto, come omosessuali e gay dal mondo della politica o dello show business». Questo libro si vende liberamente alla Fiera di Torino. Chissà se i Versi satanici possono essere liberamente distribuiti nei Paesi islamici. Qualche difficoltà la vive in questi giorni anche il premio Nobel turco Orhan Pamuk, che ieri ha parlato in una Sala dei 500 gremita di fan. Due giorni fa è stato reso noto che si è riaperto il processo in Turchia che lo vede accusato di «vilipendio dell’identità nazionale» per una frase pronunciata nel 2006 in un’intervista: «Noi turchi abbiamo ucciso trentamila curdi e un milione di armeni e nessuno, tranne me, in Turchia osa parlarne». Al Lingotto, l’autore di Il mio nome è rosso ha liquidato la questione con una battuta. «Volevo parlare di letteratura, perché sono uno scrittore», ha detto. «Una delle punizioni con cui il governo mi affligge è quella di mettermi sempre al centro delle cronache politiche. L’accusa nei miei confronti non è chiara, non credo si arriverà a nulla di grave. Non sono preoccupato. Però credo che in Turchia la giustizia si stia caricando di pressioni politiche. E senza libertà d’espressione e di parola non c’è giustizia». Commento del presidente della Fiera Ernesto Ferrero, che esprime solidarietà a Pamuk: «Questa vicenda è un duro colpo per la credibilità della Turchia, specie nella prospettiva di un suo ingresso nell’Unione Europea».
Non ha parlato molto di politica neppure Yoani Sánchez, la blogger cubana autrice del blog Generacion Y e del libro Cuba libre (appena pubblicato da Rizzoli). Era stata invitata a Torino, ma non è potuta intervenire perché le autorità cubane non le hanno permesso di lasciare il Paese. La Sánchez è potuta intervenire solo telefonicamente, intervistata dal giornalista di Repubblica Omero Ciai. «Mi sento come una bambina piccola che deve sempre chiedere il permesso al papà per fare le cose», ha detto, raccontando la sua situazione di intellettuale costretta a scrivere un blog senza poterlo vedere. A Cuba, infatti, il suo sito è censurato: lei invia gli articoli - dedicati alla vita quotidiana dei suoi coetanei trentenni, senza critiche al regime - ad alcuni amici in Spagna che poi li mettono online (all’indirizzo http://desdecuba.com/generaciony/).
La REPUBBLICA - Marco Ansaldo : " Pamuk: 'Non mi importa del processo continuerò a dire quello che voglio' "
TORINO - Orhan Pamuk guarda dritto negli occhi e non sfugge alla domanda. «Il nuovo processo che vogliono farmi in Turchia? È un vecchio problema che torna. Non sono preoccupato, mi sembra che se ne stia esagerando la portata. L´importante è che una persona possa essere libera di dire quello che pensa. Perché non c´è giustizia senza libertà di parola».
Libertà d´espressione. E´ il tasto che sta a cuore al Premio Nobel per la letteratura, colto in Italia dalla notizia di un nuovo dibattimento per una frase sui massacri dell´Impero ottomano contro gli armeni pronunciata nel 2005. Per lo scrittore turco ieri una giornata di riconoscimenti e onori mentre parte da Firenze, passa per Milano e conclude la giornata a Venezia. A Torino, al Salone del libro centinaia di persone lo applaudono quando parla di letteratura e di libri. Un caldo segnale di affetto da parte di tanti lettori che lo inseguono nel backstage, lungo i padiglioni della Fiera, nel tentativo di strappargli almeno un autografo, o di incoraggiarlo.
Orhan Pamuk, oggi tutti i giornali parlano della nuova sentenza che la chiama a processo. Che cosa ne pensa?
«Non c´è ancora nulla di ufficiale: potrei di nuovo dovermi presentare in tribunale, ma non è per ora certo».
Parliamo solo di letteratura, allora?
«Qui a Torino mi aspettavo un incontro puramente letterario, ma poi ci sono altri aspetti che si intromettono. La verità è che la vera punizione avuta dallo Stato è quella di ritrovarmi costretto nelle pagine della cronaca politica invece che in cultura. Nella sua globalità la stampa turca, sia quella islamica sia quella laica, scrive che oggi la giustizia si sta caricando di questioni politiche. Sono d´accordo. In Turchia abbiamo un detto».
Quale?
«Che la giustizia è il fondamento del Paese. Non può dunque esserci giustizia senza libertà. Ma la giustizia deve rispettare la libertà di parola. E per questo ritengo molto importante la libertà di espressione».
Le parole, i testi scritti sono dunque importanti?
«Certo. Le parole sono potenti. Io voglio esprimermi e costruire il mio mondo. I miei lettori lo sanno, e naturalmente fanno attenzione a ciò che scrivo. Ma non è che mi sieda a tavolino pensando di lanciare dei messaggi. Quando mi metto a scrivere, con molta pazienza voglio inventare un mondo. Allora, sicuro: noi scrittori dobbiamo credere nelle parole. Perché gli altri hanno le pistole, i cannoni. E noi non dobbiamo forse credere all´importanza delle parole?».
Parliamo allora di libri, e di Turchia. Lei ha già scritto pochi anni fa un romanzo politico, molto amato in Italia, "Neve"?
«E´ vero, ma molto prima, negli anni ?70 mi ero già impegnato nella stesura di un romanzo politico. Avevo una storia in mente e tra i miei amici c´erano molti giovani di sinistra, spesso radicale, alcuni anche maoisti, e quando i genitori partivano facevamo riunioni impegnatissime. Arrivato a 300 pagine ci fu il colpo di Stato e così lasciai perdere quella storia. Ancora oggi è chiusa in un cassetto. Ma non credo che la pubblicherò mai, non mi ci riconosco più».
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