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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - La Stampa Rassegna Stampa
16.05.2009 La politica estera di Obama
L'analisi di Enzo Bettiza, l'intervista a Richard Hass di Olivier Guez

Testata:Il Foglio - La Stampa
Autore: Olivier Guez - Enzo Bettiza
Titolo: «Il mondo senza poli - La ritirata di Obama»

Politica estera di Obama: riportiamo dal FOGLIO di oggi, 16/05/2009, a pag. III, l'intervista di Olivier Guez al diplomatico Richard Haass, presidente del think tank newyorkese Council on Foreign Relations, dal titolo " Il mondo senza poli " e  dalla STAMPA, a pag. 1-31, l'analisi di Enzo Bettiza dal titolo " La ritirata di Obama ". Ecco gli articoli:

Il FOGLIO - Olivier Guez : " Il mondo senza poli "

Barack Obama ha da poco concluso i suoi primi cento giorni di presidenza. Come giudica il suo debutto in politica estera? Intravedo già qualche grande linea della diplomazia “obamiana”, anche se il nuovo presidente non ha ancora affrontato grandi crisi diplomatiche. Obama è un partigiano del multilateralismo, della diplomazia nel senso tradizionale del termine, ed è pragmatico. La sua politica estera riprende alcune delle grandi tradizioni della diplomazia americana: attenuare le controversie, trovare compromessi attraverso la diplomazia, tentare di adeguare la politica estera degli altri governi invece di voler trasformare la loro natura fondamentale. Ad oggi, direi che la sua politica estera riprende quella di George Bush padre. In che misura, lei che è stato special assistant di Bush senior lungo tutto il suo mandato, dal 1989 al 1993? La politica estera di suo figlio, George W. Bush, si collocava sulla linea di quella di Woodrow Wilson: aveva come obiettivo, come missione, direi, di sovvertire l’ordine politico degli altri paesi. La politica estera di Obama invece non si fonda sulla promozione della democrazia: è più realista, come lo era quella di Bush senior. E’ leggermente meno ambiziosa, più allineata con la situazione internazionale ereditata, in cui gli Stati Uniti sono militarmente sparpagliati, in Iraq e in Afganistan, ed economicamente indeboliti dalla crisi. La situazione geopolitica in America oggi sembra paradossale. Da un lato, da decenni non sembrava così debole; dall’altro, le attese nei confronti del suo presidente non sono mai state così alte. Innanzi tutto l’America non è mai stata così forte come alcuni credevano o temevano, né è tanto indebolita dalla crisi quanto si vuol credere. Il nostro pil è sempre di 14 miliardi di dollari circa e rappresenta ancora grosso modo un quarto della ricchezza mondiale. Il dollaro continua a essere la moneta di riserva internazionale, gli Stati Uniti rimangono il mercato di riferimento anche se l’economia è in discesa. Le nostre forze strutturali non sono scomparse d’un colpo, e tanto meno la nostra capacità e la nostra tradizione nell’innovazione. Questo paese si riprenderà, guarirà, ne sono certo. Il programma di rilancio di Obama finirà per portare i suoi frutti, da qui al termine dell’anno o all’inizio dell’anno prossimo. Ciononostante rimane una grande incognita: quando si manifesterà l’inflazione? Speriamo che non torni troppo presto, altrimenti ci attende un’altra catastrofe: il ritorno della stagflazione degli anni Settanta. In queste circostanze, come cambierà la collocazione degli Stati Uniti nell’ordine internazionale? Le posizioni di Iran, Russia e Venezuela sono state notevolmente indebolite dalla crisi, certamente più dell’America. Questi tre paesi hanno economie pressoché unidimensionali, molto vulnerabili. Venezuela e Iran soffrono terribilmente per la caduta del prezzo delle materie prime. Ma come per il vicino Iran, la caduta dei prezzi energetici avrà ripercussioni terribili in Iraq. All’inizio del 2010 avrà una recessione molto grave. La crisi ci riserva altre sorprese sgradevoli: tensioni sociali sempre più numerose, un rischio di protezionismo sempre più elevato che renderà i negoziati commerciali ancora più ardui, se non impossibili, per il Wto. Le conseguenze di questa crisi sono negative anche per gli Stati Uniti e, di conseguenza, per il resto del mondo, in particolare per India e Cina. Le loro esportazioni rallenteranno, l’accesso al capitale straniero si prosciugherà. Una delle caratteristiche del mondo globalizzato è che ormai prosperiamo e decliniamo tutti insieme. In un articolo fondante pubblicato l’anno scorso su Foreign Affairs, lei sviluppava la nozione di mondo “apolare”. Che cosa intende con quest’espressione? Viviamo in un’epoca in cui il potere, in tutte le sue forme, sta nelle mani di numerosi stati, ma anche di soggetti non statali. E’ la grande differenza con il mondo unipolare dell’immediato dopo Guerra fredda, bipolare della Guerra fredda e multipolare del XIX secolo. Oggi viviamo ormai nell’epoca del G20. Il numero di governi che contano è alto e a loro vanno aggiunti l’Fmi, il Wto, le più grandi fondazioni private, le istituzioni finanziare e le multinazionali, senza contare le organizzazioni terroristiche e le Ong… Nel nascente XXI secolo, un mondo composto da tanti poli che pesano sugli affari internazionali è diventato, ai miei occhi, un mondo “apolare”. Nell’articolo, lei cita Hedley Bull, il famoso teorico della scuola britannica delle relazioni internazionali, che spiegava che la politica internazionale era sempre un “miscuglio di anarchia e di società”. Di quali risorse dispongono gli Stati Uniti perché il mondo apolare giunga ad assomigliare più a una società civilizzata che all’anarchia? In tutti i periodi storici ci sono tensioni tra le forze dell’ordine e del forze del disordine, tra quelle che uniscono il mondo e quelle che seminano il caos. Oggi, nella misura in cui un gran numero di soggetti influisce sulle questioni internazionali, la capacità delle “forze dell’ordine” di organizzare il buon funzionamento del mondo è più debole. Il compito è più complicato che in passato: ai negoziati del Wto partecipano 190 nazioni! Anche l’assemblea generale dell’Onu è obsoleta. E’ necessario costruire gruppi più piccoli, o ad hoc, o affidarsi a organizzazioni permanenti, ma dalle dimensioni più ridotte, decise ad agire e in grado di farlo. Come “l’Europa à la carte”? Esattamente. Questa configurazione esiste ormai in seno all’Unione europea e alla Nato. Non è certo una panacea, ma nel nostro mondo apolare è ancora la migliore impostazione di cui disponiamo. Non possiamo permetterci il lusso di aspettare che tutto il pianeta si mobilizzi come un sol uomo. Oggi, gli Stati Uniti sono sempre la prima potenza e la nostra influenza è la più forte. Ma è soltanto influenza! Non possiamo agire da soli, non possiamo comandare! Abbiamo bisogno di altri paesi e Ong per raggiungere i nostri obiettivi. Credo che Obama e la sua Amministrazione seguano questa impostazione nelle questioni internazionali. Sono consapevoli dei limiti della potenza americana quando agisce sola. Deve trovare degli alleati se vuole arginare la crisi economica, risolvere i problemi climatici, costringere la Corea del nord e l’Iran ad abbandonare i programmi nucleari o rendere stabile il Pakistan. Gli Stati Uniti hanno pericolosamente esteso la loro linea difensiva in Iraq e in Afghanistan. Il Pakistan sembra in uno stato di decomposizione avanzata. L’Iran prosegue con il suo programma nucleare. La Corea del nord effettua test missilistici Se scoppiassero contemporaneamente nuove crisi, l’America non rischia di trovarsi incapace di reagire? Lei ha descritto il lato oscuro del mondo apolare: sfide e crisi multiformi, le une legate alle altre, che implicano l’intervento di un gran numero di soggetti, alcuni dei quali incontrollabili. E per tutti questi problemi, le soluzioni non saranno né militari né unilaterali da parte statunitense. Prendiamo il Pakistan, che rappresenta la principale sfida per la comunità internazionale: un paese di 173 milioni di abitanti, con una sessantina di testate nucleari, che ospita il quartier generale delle organizzazioni terroristiche più pericolose del mondo e il cui governo è diviso e incapace di imporre la propria autorità. Se crolla il Pakistan sarà un incubo per tutto il pianeta. Ma gli Stati Uniti non possono impedire il crollo con un intervento militare. In compenso, Washington, con il sostegno degli alleati, dispone ancora di alcune opzioni: impegnare i servizi di sicurezza, le forze militari e paramilitari pachistane; incoraggiare se non spingere la classe politica a intervenire nelle province ribelli e a migliorare i servizi pubblici; accordare agevolazioni commerciali e garantire al paese prestiti del Fmi; favorire la distensione dei rapporti con l’India; esortare i militari a rimanere nelle caserme per lasciare che si svolga il gioco democratico… Se queste politiche falliranno, se il Pakistan crollerà, gli Stati Uniti dovranno badare ai propri interessi fondamentali: la lotta contro i gruppi terroristici e la protezione dell’arsenale nucleare. Gli Stati Uniti non occuperanno il paese, è impossibile. La talebanizzazione del Pakistan è in corso, ma non è ancora irreversibile. Quale sarebbe il punto di non ritorno? Il crollo del governo civile. Se succedesse, e se le grandi città si incendiassero a causa dell’agitazione dei talebani, potrebbe intervenire l’esercito pachistano, guidato dal generale Kayani. E’ una possibilità plausibile, che gli Stati Uniti e il resto del mondo accetterebbero, in mancanza di un un’alternativa migliore e per un periodo limitato, ovvero per il tempo necessario a ricomporre la scena politica pachistana. In passato è successo in Turchia: non sarebbe particolarmente desiderabile, ma sarebbe meno peggio che l’ascesa al potere dei talebani. Lei è di ritorno dal medio oriente e lavora da anni sul conflitto israelo-palestinese. Recenti sondaggi indicano che la maggioranza dei palestinesi e degli israeliani è sempre favorevole a una soluzione negoziale del conflitto. Ha avuto la stessa sensazione sul posto? Non lo si sente nel quotidiano. Questi sondaggi rilevano soltanto una disposizione generale della popolazione, ma non indicano un impegno politico a favore della pace. Nella maggior parte delle società, l’attivismo si colloca soprattutto agli estremi dello spettro politico; le preferenze generali delle popolazioni sono fragili perché non possiedono l’intensità di quelle degli attivisti politici. La nozione d’intensità è fondamentale: i radicali fomentano, agiscono politicamente, e i sondaggi non registrano le loro azioni. Durante la guerra a Gaza, all’inizio dell’anno alcuni sondaggi mostravano che Israele era sempre meno popolare negli Stati Uniti. Che cosa ne pensa? Non penso che le cose stiano così. Piuttosto, ho l’impressione che gli americani parlino meno del conflitto rispetto a qualche anno fa. Da cinque anni a questa parte, sono più preoccupati dalla guerra in Iraq, data la presenza delle nostre truppe. E a mio parere nei prossimi cinque si interesseranno di più all’Afghanistan, al Pakistan e all’Iran che non a israeliani e palestinesi. Il conflitto ormai ha meno importanza nel dibattito pubblico rispetto a qualche anno fa: dura da talmente tanto… Sinceramente, non ha l’impressione che l’immagine di Israele sia stata rovinata dalla guerra o dall’elezione di Netanyahu e dalla reputazione scomoda di Avigor Liebermann, il nuovo ministro degli Esteri? Gli americani aspettano di vedere cosa succederà. Il sostegno a Israele è una costante in America, e dipende relativamente poco dai governi al potere nel paese. Questa simpatia è più forte dell’eventuale antipatia che può derivare da questo o quel ministro in un determinato momento. Hamas è diventato un protagonista imprescindibile nella scena politica palestinese. Gli Stati Uniti devono trattare con il movimento islamista? Non formulerei la domanda in questo modo. Per gli Stati Uniti, la cosa migliore da fare è non elaborare una strategia rivolta ad Hamas ma disporre di una strategia globale per il medio oriente. Dobbiamo trovare la formula che conforti i moderati palestinesi, che permetta loro di convincere qualche sostenitore di Hamas che possono garantire un governo migliore e un avvenire politico più promettente rispetto ai radicali. A noi spetta dimostrare ai palestinesi che la ponderazione, e non la violenza o il radicalismo, è l’opzione migliore, l’unica che può permettere loro di raggiungere quanto desiderano. Il presidente Obama dovrà convincerli rapidamente che l’azione degli Stati Uniti è giusta e ragionevole, che protegge contemporaneamente gli interessi vitali d’Israele (la sicurezza, la democrazia, il carattere giudaico dello stato, la prosperità) e i diritti fondamentali dei palestinesi in uno stato vitale. Come priorità, bisogna migliorare le capacità produttive dei palestinesi, le loro infrastrutture, le capacità dei servizi di sicurezza e di polizia, compiti cui si dedicano Tony Blair, inviato speciale dell’Unione europea in medio oriente, e John Mitchell, suo omologo americano. Altrimenti, non vinceremo mai i palestinesi alla causa della pace. Mi fa venire in mente il processo di pace in Irlanda del nord: bisogna tenere una rotta politica promettente e contemporaneamente mostrare fermezza sufficiente affinché tutte le parti coinvolte sappiano che non sono possibili scorciatoie tramite la violenza. Perché gli Stati Uniti non sono mai riusciti a concludere la pace tra palestinesi e israeliani? Perché le mediazioni americane sono sempre naufragate? Qualche anno fa ho scritto un libro sul concetto di maturità in politica estera. Perché un negoziato diplomatico riesca, ci vuole qualcosa di più delle linee generali di un compromesso e più di un processo: è necessaria una leadership molto forte, capace di “vendere” il compromesso alla popolazione. In medio oriente non è mai successo, e qui sta il grande dramma di tutta la regione. Non abbiamo mai avuto leader politici che, nei vari campi simultaneamente, volessero la pace e avessero il coraggio di accollarsi davanti ai propri concittadini i sacrifici che essa avrebbe imposto. Gli israeliani non l’hanno sempre desiderata, ma all’epoca di Rabin sì. Tuttavia, da parte palestinese, Arafat per primo non era maturo. Oggi Abu Mazen, il presidente dell’Autorità palestinese, desidera fare la pace, ma non è abbastanza forte politicamente da convincere il suo popolo e non guida Gaza, e forse nemmeno tutta la Cisgiordania. Quanto agli israeliani, non sappiamo che cosa voglia davvero il loro nuovo governo. E’ impressionante il contrasto con le personalità fortissime di Sadat e Begin, che sigillarono la pace tra Israele e Egitto nel 1979, e di Rabin e del re Hussein di Giordania, i due artefici del trattato di pace del 1994. Lei ha ricordato la volontà di giungere a un accordo. Ma non può esserci accordo finale senza lo smantellamento degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, che invece negli ultimi anni non hanno fatto che aumentare. Ci sarà mai dirigente israeliano che abbia il coraggio di porvi termine? Il conflitto è risolvibile solo con la creazione di due stati. E in questo quadro futuro, i principali insediamenti israeliani probabilmente saranno inseriti nello stato ebraico, che a sua volta dovrà indennizzare i palestinesi attraverso la concessione di altri territori e di compensi finanziari. Gli insediamenti selvaggi non fanno altro che complicare la partita, non soltanto per i negoziati con i palestinesi, ma anche sul piano interno a Israele. Ci vorrà molto coraggio per far evacuare gli insediamenti a est della futura frontiera israelo-palestinese. Ma non esistono altre opzioni. Ad oggi, sono abbastanza pessimista rispetto a un serio avanzamento del processo di pace fra israeliani e palestinesi. D’altro canto, i siriani e gli israeliani potrebbero riservarci una bella sorpresa in un futuro prossimo. Il governo siriano mi sembra sufficientemente forte da concludere un accordo di pace con lo stato ebraico. Per Israele, si tratta di un’impresa più facile rispetto alla questione palestinese. Perché oggi i siriani dovrebbero firmare finalmente un accordo di pace con gli israeliani? Non è la prima volta, che se ne annuncia l’imminenza, tutt’altro… Oggi è molto interessante esplorare la possibilità di un accordo di pace tra siriani e israeliani. Permetterebbe a Israele di essere formalmente in pace con tutti i suoi vicini arabi, ad eccezione del Libano, cosa non da poco. Un accordo porterebbe con sé due vantaggi strategici fondamentali: significherebbe che la collaborazione fra Damasco e Teheran da una parte e tra Damasco e Hezbollah e Hamas dall’altra sarebbe notevolmente indebolita. Sarebbe un considerevole passo avanti per la sicurezza di Israele. Da parte siriana, i vantaggi non sarebbero trascurabili. La Siria recupererebbe l’altopiano del Golan e Bashar el Assad vedrebbe rafforzata la propria legittimità: farebbe meglio di suo padre, alla cui ombra vive da lungo tempo. Sarebbe addirittura un trionfo per lui. D’altronde, la pace con Israele porrebbe definitivamente fine all’isolamento diplomatico ed economico del suo paese e gli permetterebbe di riavvicinarsi a Washington. La pace potrebbe delinearsi a partire da queste basi. Ha veramente l’impressione che la Siria vorrebbe allontanarsi dall’orbita dell’Iran? Per avvicinarsi di nuovo all’Iraq? Sì, sinceramente. I siriani sono interessati a quello che succede in Iraq. Hanno sempre avuto delle affinità con gli iracheni, i due popoli sono molto vicini. E sono due stati multietnici e confinanti; per di più, le risorse energetiche irachene interessano al massimo grado i siriani. Questi ultimi vogliono allontanarsi dall’Iran, l’epoca di Saddam Hussein è finita, i due partiti baathisti non si affrontano più. Se i siriani rimarranno troppo vicini a Teheran, perderanno la capacità di muoversi e di inserirsi nel mondo arabo, che da sempre è il loro punto di forza. Se l’Iran prosegue con il suo programma nucleare, come tutto lascerebbe pensare in questo momento, pensa che gli israeliani potrebbero finire per bombardare gli impianti nucleari? Certo! Finora gli iraniani hanno arricchito il loro uranio a un livello molto basso, di pochi punti percentuale, circa tre. A questo livello, non può essere utilizzato per una bomba. E gli iraniani possono sempre sostenere che l’arricchimento avviene ai soli scopi di produzione elettrica. Ma se il paese aumentasse il livello di arricchimento verso il 19 per cento la maschera cadrebbe: a quelle percentuali, è fuor di dubbio che è in atto un tentativo di dotarsi dell’arma nucleare. Se l’Iran giungesse a quel punto, sarebbe certamente possibile un attacco preventivo da parte israeliana. E anche degli Stati Uniti! La comunità internazionale ha segnalato all’Iran di essere pronta a accettare un certo numero di centrifughe per la produzione di uranio lievemente arricchito. Ma penso che non ammetterà che l’Iran giunga ai livelli fatidici. Tutto dipenderà dagli iraniani. Se proseguiranno col loro braccio di ferro, pagheranno un prezzo esorbitante, in termini di sanzioni, potenzialmente sempre più severe. Ma possono anche avviare una nuova tornata negoziale. Le linee generali di un accordo riguarderebbero il livello di arricchimento massimo accettabile per la comunità internazionale, insieme all’impegno iraniano a permettere lo svolgimento di ispezioni pienamente trasparenti. L’Iran ha la fortuna di poter contare su un’Amministrazione americana che farà tutto il possibile per raggiungere un compromesso, nel quadro di un accordo più ampio, con il sostegno di europei, russi e cinesi. Tutte le possibilità, dunque, sono ancora aperte. Il pentagono ha dei piani d’attacco? Il pentagono ha piani di attacco per tutte le regioni del mondo! Se l’Iran proseguisse sulla rotta attuale, sarebbe stupido da parte nostra non avere piani e sarebbe assurdo che gli iraniani credessero che non ne abbiamo! La nuclearizzazione dell’Iran significa una trasformazione di tutto il medio oriente, un medio oriente seduto su un barile di polvere da sparo, straziato tra due potenze nucleari dichiarate e antagoniste, Israele e l’Iran. In tempi brevi, tutta la regione si darebbe alla corsa alle armi nucleari. I paesi del Golfo, che più d’ogni altra cosa temono le ambizioni egemoniche di Teheran, la Turchia, l’Egitto… senza contare i rischi di proliferazione terroristica… L’Iran non ha ancora raggiunto il punto di rottura. Se lo farà, ci sarà un dibattito intenso in Israele, negli Stati Uniti e in Europa sulla condotta da tenere nei confronti di Teheran. Il mondo è pronto a vivere con un Iran nuclearizzato? Sarebbe uno scenario terribile, latore di ogni sorta di pericolo… I prossimi due anni saranno decisivi: tutto può succedere, compreso il peggio.

La STAMPA - Enzo Bettiza : " La ritirata di Obama "

I primi passi di Barack Obama sui campi minati della politica estera stanno suscitando una miscela di consensi, di perplessità e di delusioni. Il lato negativo, nell’ottica di tanti sostenitori e oggi censori del Presidente, sembra guadagnare terreno soprattutto nel delicato settore dei diritti civili, dove la politica estera americana stinge e si confonde con quella interna. Ora, al divieto di Obama di pubblicare le foto dei prigionieri iracheni torturati da militari statunitensi, si aggiunge la clamorosa notizia della sua intenzione di mantenere in piedi i tribunali speciali istituiti per giudicare i detenuti di Guantanamo. Obama dichiara che gli imputati potranno godere di alcuni diritti di difesa; però i suoi critici liberal già ritengono che si tratti di una foglia di fico garantista, destinata a coprire la vecchia linea punitiva dell’amministrazione Bush contro i militanti o supposti terroristi islamici.
Le contraddizioni di Obama meritano comunque una disanima più ampia e più attenta. Ai governi e alle opposizioni europei erano piaciute le aperture del Presidente: la decisione di chiudere Guantanamo, la mano tesa all’Islam e all’Iran prima e dopo la liberazione di Roxana Saberi, le promesse ai palestinesi, l’indulgente attendismo verso il gabinetto di destra israeliano, la diplomazia di riguardo accennata nei confronti dell’America Latina e in particolare di Cuba.

Tutto questo, ammucchiato d’impeto sul fuoco dal nuovo inquilino della Casa Bianca, aveva rassicurato gran parte d’Europa, soprattutto occidentale, che ha voluto vedervi i sintomi di un profondo cambiamento rispetto all’unilateralismo imperiale di Bush. Al tempo stesso, in maniera apparentemente contraddittoria, non è dispiaciuto ai governi europei neppure il risvolto interventista della diplomazia obamiana che, per esempio in Afghanistan, si presenta oggi simile a una doccia scozzese in due versioni. Una morbida e politica, ispirata al «surge» iracheno del generale David Petraeus, volta a evitare troppe vittime civili e conquistare il sostegno psicologico e armato delle tribù offese dagli eccessi dei mullah; l’altra invece più dura, più gendarmeresca, consegnata al pugno di ferro del generale Stanley McChrystal, nuovo comandante Usa sullo scacchiere afghano, esperto di controguerriglia che a suo tempo aveva eseguito la cattura di Saddam Hussein e organizzato l’uccisione del capo qaedista Musab al Zarkawi. Queste mosse più inflessibili, derivate dal vecchio Pentagono del repubblicano Robert Gates, tuttora in carica, a cui s’aggiunge ora il clamore destato dall’affare di Guantanamo, sembrano però tornare anch’esse utili agli europei. Fa comodo a tutti l’Obama che con una mano mette su un fuoco tante castagne promettenti, mentre, con l’altra, su un secondo fuoco, mette quelle più compromettenti.
Le cose si collocano in una prospettiva diversa se guardiamo alla pubblica opinione americana, al Congresso, alle incrinature trasversali nella maggioranza democratica e nel partito repubblicano. Qui, alle notevoli speranze suscitate dagli interventi del presidente in politica estera, si mescolando dubbi, domande, apprensioni, incertezze. L’Europa, che deve vedersela essenzialmente con la sola crisi economica, non conosce l’esponenzialità di una crisi doppia e simultanea come quella che sta vivendo e affrontando l’America di Obama. Roosevelt, all’epoca del New Deal, doveva combattere con pacifiche armi keynesiane disoccupazione e povertà all’interno dei confini americani; non doveva combattere contemporaneamente, mille miglia fuori dei confini nazionali, una guerra erratica con milizie islamiste e terroriste. Oggi invece, al peggiore dei crolli finanziari mai attraversati dagli Stati Uniti dal 1929, si uniscono l’impatto di due guerre interminabili in Afghanistan e in Iraq, il pericolo di una guerra latente ancorché evitabile con l’Iran, e la gravissima minaccia di un coinvolgimento diretto nella guerra civile che sta dilaniando il più inafferrabile dei Paesi musulmani: il Pakistan.
Etnicamente frastagliato in etnie e clan simili e dissimili, unito misticamente dall'Islam, privo di frontiere reali con l'Afghanistan, perdipiù in possesso di un moderno arsenale atomico, questo Stato artificiale e instabile era da tempo una venefica spina nel fianco della strategia antiterroristica degli Stati Uniti. Dall'inizio di maggio esso è diventato l'incubo centrale dell'amministrazione Obama. Da quando è divampata l'ultima e, almeno in apparenza, la più vigorosa offensiva dell'esercito governativo contro i paramilitari talebanizzati nella «valle incantata» di Swat, tutti gli altri pur complessi problemi sul tavolo di Obama sono diventati meno urgenti e meno ossessionanti.
Basti pensare che il circondario di Swat, dopo una tregua effimera stipulata in febbraio dal governo con i ribelli ultrafondamentalisti, s'era configurato come uno Stato nello Stato: una prolunga della miccia talebana dal vicino Afghanistan verso la santabarbara nucleare del Pakistan. Vi regnava la legge coranica, la sharia, concessa dal governo ai tribunali islamici locali, che decretavano decapitazioni pubbliche, mentre le scuole integraliste istruivano, reclutavano e addestravano kamikaze minorenni. Le donne cacciate dagli istituti scolastici e dagli uffici e private d'ogni movimento autonomo per le strade. Si scopriva, nel frattempo, che importanti territori limitrofi erano di fatto controllati da militanti talebani, pronti a riaprire azioni di rappresaglia e di guerriglia contro le demoralizzate e spesso equivoche forze dell'ordine. Le paralizzavano atavici istinti di comunanza tribale e religiosa con i guerriglieri, nonché la tolleranza arrendevole di tanti comandanti. Quello strano e labile armistizio tra le autorità legali e l’autogoverno fondamentalista cessò il mese scorso, quando nutriti reparti ribelli, tornati sul sentiero di guerra, scesero dalla vallata e raggiunsero la città di Buner che dista 100 chilometri dalla capitale Islamabad. L’esercito ufficiale li attaccò solo dopo che gli americani, allarmati, avevano accusato il ministero della Difesa e la presidenza di Islamabad di «abdicare» davanti all’avanzata dei talebani.
Il Pakistan è ora nel caos. Mentre la guerra civile imperversa nella provincia di Swat, e oltre un milione di profughi, due terzi della popolazione regionale, scendono dalla vallata in fiamme in cerca di riparo e di cibo, la stampa americana denuncia la corruzione e l’inettitudine ambigua del governo del presidente Asif Zardari. Questi era giunto non a caso a Washington il 6 maggio, chiedendo ancora armi e ancora dollari, proprio nelle ore in cui le sue forze armate iniziavano la violenta battaglia di Swat. Appena ripartito, i giornali hanno cominciato a chiedersi dove sono finiti i tanti miliardi che l'America getta da anni nel vuoto pakistano ottenendo, in cambio, il dilagare dei talebani e del talebanismo. Time e Newsweek hanno scritto che Islamabad, più di Kabul, più di Teheran, più di Gerusalemme, è ormai «la sfida maggiore alla politica estera di Obama».
Il 4 giugno Obama sbarcherà al Cairo con l’annuncio, che si dà per certo, di un suo originale piano di pace per il Medio Oriente. Lancerà parole nuove e stimolanti agli israeliani, ai palestinesi, ai sauditi, ai giordani, ai siriani, probabilmente anche agli iraniani. Ma il suo pensiero più intimo resterà senz’altro concentrato sul Pakistan. Questo spiega oggi tante cose, anche la retromarcia su Guantanamo.

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