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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
13.05.2009 Chi non vuole lo Stato palestinese ?
Il ruolo dell'Italia come mediatrice fra Israele e Libia

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Maurizio Caprara - La redazione del Foglio
Titolo: «L’Italia lavora al disgelo fra la Libia e Israele - Il 'no' preventivo di Hamas sulla proposta di Bibi per Obama»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 13/05/2009, a pag. 15, l'articolo di Maurizio Caprara dal titolo " L’Italia lavora al disgelo fra la Libia e Israele " sul ruolo dell'Italia come mediatrice fra Libia e Israele e dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Il 'no' preventivo di Hamas sulla proposta di Bibi per Obama ". Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Maurizio Caprara : " L’Italia lavora al disgelo fra la Libia e Israele  "

ROMA — Aprire relazioni diplomatiche tra Libia e Israe­le. Senza fissare un termine per l’operazione, il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini si prefigge di far fare questo salto in avanti ai rap­porti tra Tripoli e lo Stato ebraico, ufficialmente inesi­stenti. In via riservata, il mi­nistro degli Esteri ne ha par­lato giovedì scorso a Washin­gton con l’inviato speciale della Casa Bianca in Medio Oriente, George Mitchell.
Al Corriere risulta che l’ex senatore Mitchell, scelto da Barack Obama come emissa­rio per una delle zone più complicate del mondo per­ché in precedenza contribuì alla pace in Irlanda del Nord, ha chiesto a Frattini informa­zioni dettagliate sulla situa­zione attuale in Libia. Il mini­stro ha suggerito a Mitchell di visitare il Paese di Muam­mar el Gheddafi, con il quale Silvio Berlusconi ha firmato nel 2008 un trattato di amici­zia, dai consistenti risvolti economici, per superare defi­nitivamente le rivendicazio­ni del Colonnello sul passato coloniale italiano.
L’interesse della Farnesina a parlare con Washington della Gran Giamahiria libica non può essere compreso
senza tener conto del fatto che il nuovo ministro degli Esteri israeliano di estrema destra Avigdor Lieberman, dietro le porte chiuse di una colazione il 4 maggio alla Far­nesina, ha chiesto a Frattini una mano per migliorare le relazioni con tre Stati arabi: Libia, Arabia Saudita, Emira­ti Arabi Uniti.
Se in futuro da Tripoli arri­vassero segnali volti a svilup­pare canali di dialogo con Israele, sia lo Stato ebraico sia gli Usa sia l’Italia ne rica­verebbero vantaggi. Il gover­no di Benjamin Netanyahu, malvisto dai palestinesi, ri­durrebbe l’isolamento dotan­dosi di agganci in ambiti più familiari alle sue controparti dei Territori. Obama risulte­rebbe ancora di più portato­re
di una stagione di dialogo. L’Italia, un utile facilitatore per imprese difficili.
Anche se non dovesse emergere in pubblico, se ne parlerà quando Gheddafi, co­ronando un’ambizione colti­vata da anni, verrà a Roma prima di tornare in luglio in Italia per il G8. Il
Corriere è in grado di riferire che, salvo imprevisti, dal 10 al 12 giu­gno il Colonnello verrà rice­vuto da Giorgio Napolitano, da Berlusconi, dai presidenti delle Camere. Incontrerà im­prenditori, desidera parlare a una platea di studenti, pre­feribilmente della Sapienza.
Benché non la si possa chiamare così, perché il Lea­der formalmente non ha cari­ca di capo di Stato, sarà, di fatto, una visita di Stato. Il
rompicapo, per la diploma­zia italiana, è la tenda che l’ufficiale arrivato al potere con il colpo di Stato del 1969 si porta dietro, all’estero, co­me ufficio o casa itinerante. I libici la vorrebbero piantare in una sede istituzionale. Si pensa a Villa Pamphili. Ma sulla tenda, finora, nulla è de­ciso.

Il FOGLIO - " Il 'no' preventivo di Hamas sulla proposta di Bibi per Obama "

Washington. Barack Obama ha scelto il Cairo, “importante capitale araba”, per lanciare il 4 giugno – come preannunciato – un forte appello di collaborazione col mondo musulmano. Arriverà a questo appuntamento dopo cruciali incontri bilaterali a Washington, come quello previsto per il 17 e il 18 maggio con il premier israeliano Benjamin Nethanyahu. L’occasione, nel disegno di Obama, dovrebbe rivestire un ruolo di svolta, dovrebbe contribuire a determinare una rapida agenda negoziale per avviare a soluzione la crisi mediorientale. Ma al di là delle ormai ribadite enunciazioni di principio, non si vede a oggi quali elementi Obama potrà giocare per uscire dallo stallo negoziale che ha contrassegnato anche l’Amministrazione Bush. Il pericolo è avvertito dal re giordano Abdullah II che, in un’accorata intervista al Times, ha lanciato un netto avvertimento al presidente americano, proprio in vista dei colloqui con i leader israeliani e palestinesi: “Tutti gli occhi saranno puntati su Washington. Se non ci saranno direttive e segnali chiari per tutti noi, ci sarà la sensazione che questo è un altro governo americano che ci lascerà senza una soluzione e la grande credibilità che Obama ha guadagnato nella regione si spegnerà come un fuoco di paglia. Non solo, se i negoziati saranno nuovamente rinviati, il mondo sarà risucchiato nel giro di 12-18 mesi in una nuova guerra in medio oriente”. Da mesi è diventato un luogo comune attribuire le difficoltà negoziali alla svolta che rappresenterà nella politica israeliana il neo eletto premier Netanyhau. Ma il vero fronte di instabilità, la vera forza che agisce prepotentemente contro ogni ipotesi d’accordo continua a essere in campo palestinese ed è evidenziata dalla rottura definitiva dei colloqui tra il rais Abu Mazen e Hamas, annunciata domenica dal presidente della Anp. Nethanyahu ha incontrato a Sharm el Sheick il rais egiziano Hosni Mubarak ed è stato elusivo, non ha mai parlato di “due stati”, ma ha posto al mondo arabo – e agli Stati Uniti – una condizione cogente per colloqui di pace con i palestinesi che comunque riprenderà la prossima settimana con l’impegno di “arrivare alla pace innanzitutto tra noi e i palestinesi”. La precondizione posta dal premier di Gerusalemme è chiara: “Non separare, considerare un tutto unico e inscindibile pace, sicurezza e prosperità”. Netanyhau non è disposto a siglare trattati basati sui “piccoli passi” (Oslo), su scelte unilaterali (ritiro dal Libano e da Gaza) senza precise garanzie. Ma Abu Mazen si presenta a questo round negoziale, decisivo soprattutto per Obama, con un fronte palestinese frantumato, senza essere riuscito ad acquisire una capacità di condizionamento nei confronti di Hamas, addirittura costretto a rilanciare il governo di Salem Fayad, che si era dimesso mesi fa proprio per favorire l’ennesima “pacificazione palestinese” ormai fallita. Sabato scorso Khaled Meshaal, leader di Hamas, ha dichiarato al New York Times la sua assoluta indisponibilità a riconoscere la formula “due popoli, due stati”, avanzando contemporaneamente la pretesa di fare parte del governo dello stato palestinese. Non c’è alcuna contraddizione in questa formula, perché la strategia di Hamas è quella di usare una lunga fase intermedia – anche una tregua pluriennale – per rafforzare il proprio obiettivo irrinunciabile di un “unico stato”, quello palestinese, anche sul territorio occupato oggi da Israele. Per questa ragione, Hamas non ha voluto fornire ad Abu Mazen neanche le minime garanzie sull’abbandono netto della lotta armata. Questo elemento è cruciale per Abu Mazen, non tanto a garanzia della sicurezza di Israele, quanto dello stesso Fatah, più volte attaccato – e decimato a Gaza – dalle forze militari di Meshaal. La rottura del dialogo interpalestinese pone ora Obama in una situazione difficile. Innanzitutto conferma le motivazioni della indisponibilità di Netanyhau a correre il rischio di consegnare il controllo dello stato palestinese all’intransigenza jhadista di Hamas. In secondo luogo, conferma la debolezza negoziale non soltanto di Abu Mazen, ma anche di Mubarak che da quattro anni tenta di obbligare Hamas a un accordo con l’Anp, ma passa da un fallimento all’altro.

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