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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
13.05.2009 I pronostici di Juan Cole sul dialogo Usa/Iran e un articolo troppo celebrativo su Khomeini
L'intervista di Maurizio Molinari, l'ottimismo fuori luogo di Bernardo Valli

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Maurizio Molinari - Bernardo Valli
Titolo: «Al Cairo Obama parlerà all'Iran - A Teheran trent'anni dopo»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 13/05/2009, a pag. 15, l'intervista di Maurizio Molinari a Juan Cole, arabista della Michigan University e autore del volume «Engaging the Muslim World», dal titolo " Al Cairo Obama parlerà all'Iran " e dalla REPUBBLICA, a pag. 35, l'articolo di Bernardo Valli dal titolo " A Teheran trent'anni dopo" preceduto dal nostro commento. Ecco gli articoli:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Al Cairo Obama parlerà all'Iran "

Barack Obama va in Egitto per mandare un messaggio all’Iran».
Juan Cole, arabista della Michigan University e autore del volume «Engaging the Muslim World», guarda oltre il rilascio della giornalista Roxana Saberi da parte degli iraniani e vede all’orizzonte una possibile accelerazione del dialogo fra Washington e Teheran.
Con il suo ultimo libro lei ha previsto la strategia di apertura all’Islam fatta propria dal presidente Barack Obama, cosa avverrà adesso dopo la liberazione di Saberi?
«Il prossimo appuntamento è il discorso che Obama farà in Egitto il 4 giugno. Si rivolgerà all’intero mondo musulmano e ci sarà un messaggio all’Iran».
Cosa gli suggerisce di dire?
«Il passo compiuto da Obama nei primi cento giorni è stato quello di trattare l’Iran con rispetto, di riconoscergli la sua legittimità di nazione e di interlocutore sulla scena internazionale, mostrando attenzione per i suoi interessi e per le sue posizioni. Archiviando la fase nella quale l’Iran era stato paragonato al Diavolo per il semplice motivo che con il Diavolo non si può negoziare. Ora si tratta di trovare un terreno di incontro a partire dal quale mettersi a discutere».
E quale potrebbe essere?
«La soluzione dei due Stati per il Medio Oriente. Obama è favorevole e anche il presidente iraniano Ahmadinejad si è detto a favore se i palestinesi dovessero accettarla. Dunque è un possibile terreno comune. Ma Obama dovrà andare oltre i vaghi impegni finora assunti dai presidenti americani a partire dagli accordi di Oslo del 1993. Non basta più dirsi a favore di uno Stato palestinese a fianco di Israele, in pace e sicurezza. Bisogna essere concreti: parlare di confini, di territori, di fattibilità reale, di come e quando nascerà. Se Obama sarà credibile sul progetto dei due Stati l’impatto nel mondo musulmano sarà significativo e l’Iran agirà di conseguenza...»
Ma lei crede che agli iraniani interessino davvero i due Stati?
«Al popolo iraniano non troppo ma alla leadership politica molto. E Obama sta tentando di parlare con i leader per disinnescare la crisi nucleare».
Ritiene possibili dei progressi in tempo necessario per evitare che l’Iran abbia l’atomica?
«Bisognerà aspettare l’esito delle elezioni in Iran, dalle informazioni che arrivano sembra di poter dire che Ahmadinejad sarà confermato come presidente. Comunque a prescindere da chi vincerà a decidere sul nucleare sarà sempre il leader supremo della rivoluzione, Ali Khamenei».
Perché Khamenei dovrebbe rinunciare al nucleare?
«Aspettiamo di ascoltare Obama in Egitto. Ciò che è importante è mostrare comprensione per il bisogno dal quale si genera la scelta nucleare dell’Iran. È un Paese che, per ragioni chiare a tutti, si sente insicuro. Mostrando di comprenderle Obama potrà porre le basi per offrire delle garanzie di sicurezza tali da spingere Teheran almeno a sospendere il suo programma. Si tratta di un cammino, di avviarsi verso le prime tappe i un percorso. Le accelerazioni non servono mentre gli ostacoli improvvisi possono nuocere molto. Proprio come rischiava di avvenire con Roxana Saberi».
Perché Teheran ha rivisto la condanna per spionaggio?
«La prima sentenza era stata emessa da un tribunale rivoluzionario la seconda è arrivata da una regolare corte d’appello. Così funziona la repubblica islamica, che ha al suo interno meccanismi di correzione. Ma certo, a pesare, ha contribuito la grande politica (l’avvocato della Saberi sostiene che sia stata decisiva una lettera di Ahmadinejad ai giudici, ndr). Ahmadinejad pensa alla rielezione e Barack Obama è sulla via del Cairo. Siamo alla vigilia di momenti importanti fra Stati Uniti e Iran».

La REPUBBLICA - Bernardo Valli : " A Teheran trent'anni dopo "

Un tono  troppo elogiativo per l'autore di un colpo di Stato che, trent'anni fa, ha portato l'Iran nel Medioevo e ad essere governato da una teocrazia fondamentalista islamica. Il fatto che Bernardo Valli creda che le premesse della "rivoluzione " fossero positive, non può cancellare la situazione attuale: l'Iran in mano agli ayatollah odiatori di Israele, sempre più vicino al nucleare e con un regime fondamentalista che viola i diritti dell'uomo e impedisce la libertà d'espressione. Tutte cose che si sapevano benissimo sin da quando Khomeini soggiornava in Francia. Ecco l'articolo:

Ho assistito all´esplosione della rivoluzione clericale, dalla quale è scaturita la teocrazia iraniana ancora imperante, nel lontano primo mattino di un venerdì di settembre, passato alla storia come il "venerdì nero".
Ed è per un riflesso condizionato che appena arrivo a Teheran vado subito in piazza Jaleh, ribattezzata piazza dei Martiri, dove l´8 settembre 1978, fui testimone del massacro che fece appunto esplodere la rivoluzione latente.
Cerco di ricostruire con la memoria quell´episodio di sangue. Mi è difficile evitare una rapida rievocazione. È come se sentissi il bisogno di cominciare da questa piazza, oggi ridotta a un incrocio di strade, la riscoperta di una rivoluzione che ho visto nascere e che da allora ho seguito da lontano.
Sapevo, quella mattina, che gli studenti si sarebbero riuniti per una delle tante manifestazioni e poiché nella notte il governo imperiale aveva proclamato la legge marziale, volevo sapere come l´esercito l´avrebbe fatta rispettare. I soldati dello shah si schierarono sulla parte alta della piazza leggermente inclinata, di fronte alle centinaia di studenti che a circa cinquanta metri, aperte le camicie, mostravano il petto nudo in segno di sfida. Un religioso fece la staffetta tra i militari e gli studenti.
Cercò di convincere invano i giovani in prima fila a disperdersi, essendo in vigore dalla notte il decreto imperiale che proibiva le riunioni pubbliche.
Quando se ne andò rassegnato, i militari spararono.
Mi trovavo in un angolo, nella parte leggermente elevata della piazza, ed era impossibile da quella posizione valutare quanti fossero i morti ammucchiati sull´altro lato. La sparatoria continuava impedendo ogni movimento. Poi la piazza fu sommersa da automezzi blindati e da ambulanze. Le emozioni, l´indignazione, la collera, il dolore e più tardi l´enfasi rivoluzionaria hanno spinto a denunciare un numero di vittime che la piazza era ben lontana, quella mattina, dal contenere. Ma nel quartiere, e via via nel resto della metropoli, le manifestazioni e le barricate si moltiplicarono.
E coloro che morirono in quelle ore, a Teheran o altrove, diventarono tutti martiri di piazza Jaleh. Raggiunsi l´ufficio di un´agenzia di stampa straniera in una strada vicina e informai Jean Gueyras, un amico a quell´ora intento a scrivere la corrispondenza per un quotidiano del pomeriggio parigino. Gli dissi: «E´ stata un´esecuzione». E la frase uscì così stampata, poche ore dopo, sul suo giornale. La strage ravvivò l´insurrezione popolare rimasta essenzialmente incruenta nonostante la repressione brutale di esercito e polizia. A metà gennaio lo Scià lasciò l´Iran, e il primo febbraio arrivò Khomeini.
Trent´anni dopo piazza Jaleh è coperta da un traffico assordante e i marciapiedi sono occupati da una folla in cui risaltano le sagome femminili avvolte nei mantelli neri (chador) e i fazzoletti o veli non sempre neri (hidjab) che coprono più o meno i capelli delle donne. Tra gli uomini prevalgono i giovani. Rare, rarissime le capigliature bianche di anziani e vecchi. Le coppie sono numerose. A volte si tengono per mano. Benché sia un atteggiamento pubblico proibito, i "guardiani", ossia i poliziotti del buoncostume, presenti sulla piazza, se ne infischiano. Dovrebbero intervenire e invece guardano da un´altra parte. Né prestano attenzione all´ondeggiare dei corpi femminili nascosti ma non cancellati dai chador, né ai capelli che traboccano con evidente civetteria dai hidjab multicolori.
Sono le prime, veloci immagini della trentenne rivoluzione clericale che ritrovo. E salta subito agli occhi che essa è rimasta fedele ai simboli e severa nel formulare le leggi conformi ai testi sacri dell´Islam, ma che è diventata apertamente pragmatica per quanto riguarda la vita quotidiana degli individui. E´ come se due realtà convivessero parallele, o meglio ancora sovrapposte: al piano superiore quella ufficiale, al piano inferiore quella privata. Chador e hidjab sono di rigore, ma quel che i due indumenti nascondono o il modo come sono usati riguarda chi li porta. La teocrazia governa ma le moschee mi dicono sono semideserte.
Un intellettuale che incontro nella sua elegante casa nel nord di Teheran, ai piedi del monte Alborz, ancora innevato, mi dice che tra i tanti paradossi, le innumerevoli contraddizioni del regime clericale, c´è anche quella di aver fatto trionfare la laicità. A suo avviso i sentimenti laici sarebbero più diffusi che nel passato nella società sovrastata dalla cappa del potere clericale.
Aggiunge che tra gli studenti la società più ammirata è quella degli Stati Uniti, il paese più ufficialmente detestato dalla Repubblica Islamica. Non stupisce, reagisco, che anche qui quel che è proibito eserciti un fascino tra i giovani. L´intellettuale mi guarda con ironia: «Lei sa che negli Stati Uniti vivono due milioni di esuli iraniani, molti dei quali hanno conquistato posizioni di rilievo e non hanno mai interrotto del tutto i rapporti con la madre patria?». No, non lo sapevo.
Se tante cose proibite ufficialmente sono consentite nella realtà, penso e dico, il regime clericale è eccezionalmente tollerante. Può sembrare ma non è proprio così, non devo illudermi, perché il potere clericale è presente ovunque, fuori dall´intimità delle case. Uscendo dalle feste («assai frequenti e degne di Parigi o di Hollywood»), racconta sempre l´intellettuale, le donne devono coprirsi il capo con il velo o addirittura avvolgersi nel chador se sono in minigonna o indossano un abito scollato. I guardiani del buoncostume non sono sempre indulgenti. Questo accade, ovviamente, nei quartieri alti, borghesi, nel nord di Teheran.
Il regime non è monolitico ed è una fortuna. Un tempo c´era un partito unico, ma poi è stato abolito come una bestemmia. Le correnti sono invece numerose all´interno della società politico-religiosa. E i loro scontri, le loro polemiche, le loro lotte per il potere in cui la corruzione occupa uno spazio rilevante, creano una dinamica che a tratti può assomigliare a una democrazia. Le elezioni, più o meno libere, intervengono puntuali. In queste settimane che precedono il voto del 12 giugno (quando verrà confermato o sconfitto il conservatore Maahmud Ahmadinejad) si sente parlare spesso di politica a Teheran. Nel ristorante degli studi cinematografici dove sono stato invitato a colazione assisto e partecipo a conversazioni in cui si critica apertamente Ahmadinejad e si esaltano invece le virtù di Mir-Hossein Moussavi, ex primo ministro e suo principale avversario, considerato il campione riformista.
Vale a dire meno conservatore. La libertà di espressione ha confini precisi: il dibattito è permesso nel rispetto dei «principi». La Repubblica Islamica non può essere messa in discussione. Chi supera questo limite rischia guai che possono essere molto seri. Entro questo limite le lingue possono sciogliersi.
La dialettica tra gruppi, o scuole di pensiero, sempre in bilico tra teologia e politica, apre provvidenziali varchi nell´intransigenza teocratica.
Il potere clericale interviene tuttavia quando meno ce lo si aspetta, come una giustizia suprema pronta a ricordare quel che è lecito e quel che non lo è; essa si abbatte, imprevista e severa, su una realtà quotidiana sottostante che pensava, sperava, di essere stata dimenticata. O liberata. La struttura della Repubblica Islamica è del resto chiara. Al vertice c´è la Guida suprema, oggi l´ayatollah Ali Khamenei, successore di Khomeini, il quale delinea la politica generale, comanda le forze armate e le milizie pasdaran, e nomina e revoca i vertici della magistratura. Insomma è onnipotente, poiché attraverso il Consiglio dei guardiani (e il Consiglio per i pareri di conformità) ratifica le leggi verificando se sono conformi alla sharia, e tra le tante altre prerogative ha quella di decidere l´ammissibilità dei candidati alle elezioni presidenziali e legislative. Il presidente della Repubblica è a lui sottoposto nella sua funzione di capo dell´esecutivo.
Mi accorgo che, trascinato dalle immagini, vado troppo in fretta nell´esporre le prime impressioni. Trent´anni dopo la rivoluzione clericale, la teocrazia che ancora governa le società iraniana resta un rompicapo. E´ una realtà non facile da decifrare, in particolare per chi l´ha vista nascere come un movimento di liberazione da una monarchia autoritaria (quella dello Scià) incapace di gestire la modernità forzata che aveva tentato di promuovere, e al tempo stesso come un ritorno all´oscurantismo. Qualcosa di simile a una rivoluzione a ritroso, il cui obiettivo era di rinchiudere la società nella sharia, nelle leggi religiose dell´Islam. Vale a dire in un diritto canonico adattato ad una particolare pratica di governo. Pratica non certo conforme alla tradizione sciita prevalente, secondo la quale, nell´attesa della ricomparsa del dodicesimo imam "nascosto" dal IX secolo, i religiosi dovrebbero restare estranei al potere temporale per non esserne contaminati.
Spetterebbe al Mahdi, il "ben guidato", una volta riemerso, ristabilire la giustizia e il benessere sulla terra. Khomeini ha imposto la sua versione e assunto il potere, Ahmadinejad, il presidente in carica, aspetta con ansia il Mahdi. Una strada larga e asfaltata deve accoglierlo al suo arrivo, quando uscirà infine dal millenario nascondiglio.
Ho incontrato il fondatore della Repubblica Islamica quando era esule in Francia, a Neauphle-le-Chateau, alle porte di Parigi. Abitava una casa modesta, affacciata su una strada provinciale frequentata nei fine settimana dai parigini alla ricerca di un prato per il pic-nic; e lui, Khomeini, interrompeva spesso quel traffico festivo; riceveva gli ospiti in una baracca situata sull´altro lato della strada; e quindi i gendarmi dovevano aprire un varco tra le automobili incolonnate per farlo passare. La veste nera ampia e svolazzante sfiorava le carrozzerie variopinte di Renault e Peugeot, e i bambini francesi osservavano affascinati dai finestrini quel signore accigliato, tutto nero, che non li degnava di uno sguardo.
L´incontro durò a lungo, perché interrotto innumerevoli volte dal telefono nero, polveroso, posato per terra, accanto al tappeto sul quale eravamo accosciati.
Suonava in continuazione e l´assistente di Khomeini (Gotzabé), che fu poi fucilato a Teheran nelle prime epurazioni sanguinose, mi spiegava che l´ayatollah parlava con l´Iran. Da quel telefono muoveva le folle imponenti che stavano scalzando l´imperatore di Persia dal trono. A me dedicò pochi monosillabi. L´incontro fu lungo ma il dialogo corto. Mi fissava pensando senz´altro alla sua rivoluzione.
Benché fosse accovacciato sul tappeto, come un grosso batuffolo color pece, era maestoso. Solenne. Intransigente.
Serio ma non triste. Si dice che nell´intimità familiare fosse dolce con moglie e nipoti. Non ne avvertii il carisma, ma ne sentii la forza, potevi palparla.
Egli immaginava allora come sarebbe stata la sua rivoluzione trent´anni dopo? Pensava che si sarebbe trasformata in quel groviglio di contraddizioni che è oggi nel bene e nel male? Le donne alle quali ha imposto hidjab e chador oggi sono le più numerose nelle scuole superiori, e occupano posti di responsabilità in quasi tutti i settori della società. Le loro testimonianze in tribunale valgono la metà di quelle degli uomini; e i loro diritti ereditari sono nettamente inferiori a quelli dei maschi; ma sono loro che conquistano sempre più cattedre nei concorsi universitari. Dall´età di nove anni devono portare il velo e possono sposarsi. Ma nella realtà nell´Iran di oggi le donne prendono marito, in media, a 24 anni. E soltanto un uomo su cento approfitta della poligamia, i matrimoni temporali autorizzati dai mullah consentono di legalizzare rapporti con amanti, che altrimenti sarebbero considerati adulteri puniti severamente dalla legge. Ma sono pochi coloro che ne approfittano. La società nel suo insieme tiene in scarso conto le leggi ispirate alla sharia, che pur regolano ufficialmente la vita di uomini e donne nella Repubblica Islamica e la Repubblica non si preoccupa troppo di farle rispettare nei dettagli.
Fatmeh Motada Aria è un esempio di donna, cresciuta nel regime teocratico, che attraverso una serrata lotta per i diritti civili ha conquistato una posizione di grande rilievo nella società, pur subendo le discriminazioni. Lei più di ogni altra persona che ho incontrato, mi ha illustrato con chiarezza come la società civile supera, meglio aggira, senza infrangerli gli ostacoli della rivoluzione clericale sopravvissuta. I giovani di piazza Jaleh appartenevano a movimenti laici spesso di sinistra.
Quelli favorevoli a una rivoluzione teocratica affiorarono più tardi, quando i religiosi presero, anche con la forza, la guida della protesta popolare. Studiando con attenzione i fermenti che agitano le università, si rilevano, trent´anni dopo, evidenti tracce delle idee soffocate brutalmente subito dopo l´avvento della Repubblica Islamica. Il 70 per cento della popolazione (che conta 70 milioni di abitanti, il doppio del 1979) non ha più di 25 anni. Nonostante le vite falcidiate durante la guerra con l´Iraq (‘80-´88), i discendenti dei ragazzi di piazza Jaleh si sono moltiplicanti. E dagli incontri avuti ho ricavato l´impressione che essi guardino spesso quelli del piano superiore, il potere clericale, come esponenti di un altro mondo.

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