Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Le reazioni al discorso di B-XVI a Yad Vashem Analisi di R.A.Segre, Michael Sfaradi, opinioni di Norman Podhoretz, Meir Israel Lau, Pierbattista Pizzaballa, Giuseppe Laras,
Testata:Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera - L'Opinione - La Stampa - L'Unità Autore: R. A. Segre - Amy Rosenthal - Michael Sfaradi - Aldo Baquis - Giacomo Galeazzi - Alberto Giannoni - Davide Frattini - Redazione del Corriere della Sera Titolo: «Le anime si Israele divise anche nel giorno di Ratzinger - Dice Podhoretz - E allo Yad Vashem, memoriale dell'Olocausto. 'Mai negare la Shoah ' - Occasione persa. Un passo indietro rispetto a Wojtyla - Senza i fedeli cristiani non c’è Gerusalemme - Il r»
Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 12/05/2009, a pag. 9, l'analisi di R. A. Segre dal titolo " Le anime di Israele divise anche nel giorno di Ratzinger ", dal FOGLIO, a pag. III, l'articolo di Amy Rosenthal dal titolo " Dice Podhoretz ", dall'OPINIONE, l'articolo di Michael Sfaradi dal titolo " E allo Yad Vashem, memoriale dell'Olocausto. 'Mai negare la Shoah ' ", dalla STAMPA, a pag. 2, l'articolo di Aldo Baquis dal titolo " Occasione persa. Un passo indietro rispetto a Wojtyla " e, a pag. 3, l'articolo di Giacomo Galeazzi dal titolo " Senza i fedeli cristiani non c’è Gerusalemme ", dal GIORNALE, a pag. 9, l'articolo di Alberto Giannoni dal titolo " Il rabbino: 'Parole che fanno chiarezza' ", dal CORRIERE della SERA, a pag. 2, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " La scelta di Marlene e la kippah di Fini I gesti della memoria " e l'articolo dal titolo " Summit religioso Ue, scontro sugli invitati " e una breve dall'UNITA'. Ecco gli articoli:
Il GIORNALE - R. A. Segre : " Le anime di Israele divise anche nel giorno di Ratzinger "
Hilula, in ebraico significa kermes, happening sacro (la radice è la stessa di Halleluia). In Israele tre hilula hanno coinciso trasformando la visita del Papa in uno specchio delle molte identità di una nazione legata ad una terra troppo povera di spazio e troppo piena di storia e religione. La hilula di Benedetto XVI incomincia all'aeroporto Ben Gurion in presenza del presidente Peres e del premier Netanyahu sullo sfondo simbolico di pace dell'aereo giordano che ha portato il Pontefice da Amman. Scambio previsto di messaggi di benvenuto, coesistenza, denuncia dell'antisemitismo e della violenza. Un messaggio non meno significativo viene dal confronto fra il protocollo israeliano e giordano. In Giordania, con l'aiuto di una bella regina, c'era l'elegante sicurezza di due monarchie. Una discendente da Maometto; l'altra da Pietro. Si è concesso ad un principe beduino di ricordare, senza offendere, l'affronto fatto all'islam dal Pontefice nel suo discorso a Ratisbona e onorarlo entrando calzato nella moschea per non obbligarlo a togliersi le sue. In Israele, invece il protocollo - dal cattivo latino di Peres, alla artificialità del ricevimento nella sua residenza - contrastava con la precisione cronometrica dei picchetti d'onore e l'orgoglio tecnologico di una bibbia incisa su un grano di silicio e lo sviluppo di un frumento nuovo che porterà il nome del Papa. Dall'elicottero il pontefice avrà visto le strade deserte per motivi di sicurezza, ma non la sua effigie stracciata sui pannelli di benvenuto lungo la strada da Tel Aviv o l'assenza, nel giardino presidenziale, fra gli israeliani «che contano», della maggioranza dei deputati in protesta al passato militare tedesco del pontefice, alle sue condanne per l'operazione di Gaza, o all'uso dei preservativi. Né ha fatto caso alla domanda presentata da un avvocato alla Corte Suprema per chiedere al pontefice di Roma la restituzione degli oggetti sacri strappati dall'imperatore Tito al Tempio di Gerusalemme e sospettati di essere nascosti nelle cantine della Santa Sede. Di gente immaginativa e ignorante come questo avvocato doveva essercene nella folla che ieri si ammassava a Meron in Galilea nell'anniversario della ordinazione a rabbino - o della sua uscita dalla grotta dove si era nascosto per 13 anni per sfuggire ai romani - di Simeon bar Yochai, mistico leggendario ispiratore della Cabala. Indifferenti al significato della visita del Papa e della rivoluzionaria anche se ancora incompleta trasformazione della Chiesa nei confronti degli ebrei, non si rendevano conto della enorme differenza che passava fra il gelido primo pellegrinaggio papale di Paolo VI nel 1964 e quello imbarazzato ma sincero di Benedetto XVI, passando per la domanda di perdono di Papa Vojtyla. La hilula di Meron esprimeva con passione mistica (anche se venata di feticismo con l'accensione di falò in tutto il paese) il ritrovato interesse per la scienza segreta e divina della Cabala che tanto aveva affascinato Pico della Mirandola e oggi persino in chiave New Age attira non ebrei come Madonna. C'era infine la terza hilula, quella della banda pop britannica Depth Mode, che ieri notte ha tenuto inchiodati per terra nel parco di Tel Aviv 70 mila giovani israeliani affascinati dai suoi ritmi "pagani". Cosa unisce questi tre eventi? Che cosa diranno i 1000 giornalisti venuti da tutte le parti del mondo in occasione del pellegrinaggio del Papa in merito alle anime cosi diverse del popolo israeliano nella sua terra? Certo, un bisogno di pace e normalità, di sicurezza. Ma anche di dare una risposta ad una unicità che al tempo stesso lo minaccia ma non gli permette di scomparire.
Il FOGLIO - Amy Rosenthal : " Dice Podhoretz "
New York. Norman Podhoretz è soddisfatto. Il padre del neoconservatorismo americano ha seguito l’arrivo di Benedetto XVI in Terra Santa e poi ha raccontato al Foglio le sue impressioni. “Le parole del Papa allo Yad Vashem sono state più soddisfacenti di quelle pronunciate assieme al presidente Peres”, dice Podhoretz. Perché nel discorso al memoriale non c’è stata quella tendenza “pericolosa” all’equivalenza morale “tra gli sforzi fatti dal mondo arabo-musulmano per cancellare Israele dalla mappa del mondo fin dalla sua nascita e quelli fatti dallo stato ebraico per difendere se stesso da questo sogno diabolico”. Non vuole fare l’esperto di diplomazia vaticana, Podhoretz, ma dice che allo Yad Vashem “il Papa ha ribadito la condanna all’antisemitismo con toni fortissimi, in particolare per quel che riguarda i negatori dell’Olocausto – ‘possa il nome di queste vittime non morire mai’”. Con il presidente, invece, il Papa è “scivolato” nella trappola dell’equivalenza morale. “Mi pare che abbia equiparato – dice Podhoretz – l’odio nei confronti degli ebrei predicato nelle madrasse palestinesi con la barriera di sicurezza che Israele ha costruito per difendersi dagli attacchi suicidi”. Certo – sottolinea Podhoretz – il linguaggio è sempre “allusivo”, non è facile da interpretare. La prima parola che ha colpito, nei giorni scorsi, l’attenzione di Podhoretz è stata “homeland”, patria. L’ha pronunciata Benedetto XVI appena prima di arrivare in Israele, durante la tappa giordana. “Homeland”, una patria, è quella che il Papa vorrebbe per i palestinesi, “il risultato desiderato per una soluzione pacifica al ‘conflitto’ israelo-palestinese, quello che io chiamo guerra del mondo arabo-musulmano contro Israele”, spiega l’intellettuale americano. Ammette, Podhoretz, ancora una volta di essere un po’ ossessivo su certi termini, dice che forse sta “esagerando il significato di questo pezzo di delicatezza diplomatica”, ma si augura che il Papa “metta tutto il suo peso a favore della richiesta ai palestinesi di rinunciare al terrorismo e di riconoscere Israele come lo stato degli ebrei”. Podhoretz non transige su una questione: il Papa dovrebbe far cadere “l’equiparazione morale” tra l’odio per gli ebrei e la difesa degli ebrei da una minaccia permanente. La chiesa può – deve – essere un contrappeso rispetto all’antisemitismo montante in tutto il mondo: “Gran parte di questo antisemitismo – spiega Podhoretz – parte dai sermoni islamici, che attaccano gli ebrei con metodi che ricordano quelli cristiani nel passato”. Il paragone non è facile da digerire: è tanto tempo che la chiesa ha sollevato ufficialmente gli ebrei dall’accusa di deicidio. Era il Concilio Vaticano II e “da allora il suo atteggiamento è diventato di segno contrario rispetto a quello che era stato fino ad allora”. Benedetto XVI s’inserisce in questo percorso e ha più volte condannato l’antisemitismo, ma certe cattive abitudini sono dure a morire – ricorda Podhoretz – e pure se “il giudaismo è diventato ‘il fratello maggiore’ della cristianità”, l’ostilità contro gli ebrei e ancora più “la freddezza nei confronti di Israele persistono all’interno della curia”. Nel suo prossimo libro Ecco perché le parole del Papa – e ancor più le azioni concrete che metterà in campo dopo la visita – sono importanti “per combattere le sacche di resistenza” nei confronti della religione ebraica e dello stato ebraico. “L’accoglienza riservata a un vescovo come Williamson è stata un terribile errore”, dice Podhoretz, che sostiene che all’interno del mondo cattolico la posizione di Williamson non sia affatto isolata. La preoccupazione dell’intellettuale americano è più ampia, non si ferma soltanto a un dialogo più o meno fluido tra religioni. Se la chiesa non si pone come baluardo contro l’antisemitismo, le ripercussioni possono essere forti. Podhoretz teme in particolare la contaminazione con una certa sinistra, anche una certa sinistra ebraica. Il suo prossimo libro, che sarà pubblicato a settembre negli Stati Uniti, s’intitola non a caso “Why Are Jews Liberals”. “Dedico un’ampia parte della mia analisi ai rapporti chiesa-ebrei – dice Podhoretz – perché nella storia della chiesa l’inimicizia nei confronti degli ebrei occupa grande spazio”. Ma poi le cose sono cambiate, anzi, si sono ribaltate. Eppure “molti miei amici ebrei non hanno registrato il cambiamento e non hanno voluto riconoscere il fatto che sono cambiate tantissime cose negli ultimi cinquant’anni”. Così, nell’immenso miscuglio ideologico che va dall’anticlericalismo all’antisemitismo con parecchi tornanti, si salda l’odio verso Israele. In alcune, a volte rilevanti, frange della chiesa, del mondo musulmano e della sinistra.
L'OPINIONE - Michael Sfaradi : " E allo Yad Vashem, memoriale dell'Olocausto. "Mai negare la Shoah " "
Per chi ama la pace chiunque voglia fare qualche cosa per arrivare alla sua realizzazione sarà sempre il benvenuto in Israele. Se poi questo chiunque è il Papa della Chiesa di Roma la cosa assume un´importanza particolare. Vedere Benedetto XVI parlare da un palco sul quale spiccava la "Menorah"(candelabro a sette braccia) simbolo dello Stato di Israele è stato per la maggioranza della popolazione israeliana, e perché no, dell´ebraismo mondiale, un momento di profonda emozione. Seguendo le orme del suo predecessore Giovanni Paolo II, primo Papa a visitare una sinagoga e ad allacciare le relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico, Pa pa Ratzinger è arrivato a Gerusalemme sapendo che ogni suo gesto e ogni sua parola, peseranno sulle coscienze di coloro che hanno a cuore la pace. Anche se durante il volo verso la Giordania, prima tappa del suo viaggio, il Papa aveva detto ai giornalisti che il suo era un pellegrinaggio è inutile nascondere che dietro le quinte ci sono stati e ci saranno diversi incontri di carattere politico e i temi che Benedetto XVI ha affrontato con il governo giordano ed affronterà con quello israeliano andranno a toccare i "nervi scoperti" della regione e del mondo intero. Oltre ad aver esortato a non abbassare la guardia perché l´antisemitismo non è mai morto, ha lanciato un accorato appello perché si arrivi ad una soluzione di pace nella regione. "Le speranze di innumerevoli uomini, donne e bambini per un futuro più sicuro e più stabile dipendono dall´esito dei negoziati di pace fra Israeliani e Palestinesi. In unione con tutti gli uomini di buona volontà supplico quanti sono investiti di responsabilità a esplorare ogni possibile via per la ricerca di una soluzione giusta alle enormi difficoltà, così che ambedue i popoli possano vivere in pace in una patria che sia la loro, all´interno di confini sicuri e internazionalmente riconosciuti". Queste sono state le parole del Papa e l´accorato appello dovrebbe far riflettere tutti coloro che hanno la possibilità per dare una svolta che porti al raggiungimento della pace nel rispetto reciproco. Non dobbiamo dimenticare però che la maggioranza delle responsabilità sui fallimenti collezionati fino ad oggi sono da addebitare ai leaders arabi del passato e del presente perché Israele, fin dalla sua nascita, ha quasi sempre dovuto subire la guerra. Ma ciò nonostante ha sempre cercato contatti con i paesi vicini e quelle poche volte che si sono presentate delle occasioni buone le ha sfruttate anche a costo di sacrifici territoriali come la "pace imperfetta con l"Egitto" e il completo "Fiasco" con i palestinesi. Se da parte israeliana l´appello del Papa è serenamente ascoltato e seriamente preso in considerazione dall´altra, però, si scontra con lo statuto di Hamas che non riconosce il diritto all´esistenza di Israele e con le frequenti esternazioni del presidente iraniano Ahmedinejad che continua a chiamare lo Stato ebraico "cancro del mondo". Noi che amiamo la pace preghiamo, ognuno nella sua lingua, che i desideri di Benedetto XVI si avverino ma le parole del Papa, la storia ce lo insegna, difficilmente avranno presa sul cuore e sulle menti di coloro che vedono Israele come un "corpo estraneo" in Medio oriente
La STAMPA - Aldo Baquis : " Occasione persa. Un passo indietro rispetto a Wojtyla "
Papa Benedetto XVI è appena uscito dalla Sala della Rimembranza, e Meir Israel Lau - rabbino capo di Tel Aviv e presidente onorario del Museo - è in preda a emozioni forti e contrastanti. Lui stesso è sopravvissuto al campo di sterminio di Buchenwald: quando i militari statunitensi lo liberarono aveva appena otto anni, e come unico sostegno gli era rimasto un fratello di poco maggiore. «Ho detto al Pontefice - racconta - che nessuno di noi due, nel 1945, lui dalla sua parte, e io dalla parte delle vittime, avremmo potuto nemmeno lontanamente immaginare che un giorno le nostre strade si sarebbero incrociate qua, a Gerusalemme, e che avremmo rivestito questi incarichi. Papa Ratzinger mi ha allora elargito un largo sorriso». Nei giorni scorsi il rabbino Lau aveva assunto sulla visita un atteggiamento molto cauto, quasi critico. A Benedetto XVI rimproverava «gli scivoloni» non piacevoli, fra cui la vicenda dei vescovi lefebvriani e il comportamento della delegazione vaticana alla conferenza Durban 2 dell’Onu a Ginevra. Secondo Lau, Israele avrebbe fatto meglio ad abbassare il profilo della visita. Il rabbino Lau ha trovato il discorso pronunciato da Benedetto XVI a Yad Vashem «molto bello, in parte commovente, eppure lacunoso... Ho il timore che in parte si sia persa una occasione». Il Papa, rileva, si è astenuto dal menzionare esplicitamente i tedeschi e i nazisti: «Non ho nemmeno avvertito una aperta partecipazione al nostro dolore, tanto meno una richiesta di perdono». Ben diverso, gli sembra di ricordare, era stato il discorso pronunciato nove anni fa, a Yad Vashem, da Papa Wojtyla. Ma Giovanni Paolo II, secondo Lau, conosceva meglio gli ebrei, li comprendeva in maniera più intima. «Dopo la guerra si impegnò per restituire all’ebraismo quei bambini che erano stati affidati a famiglie cristiane». Al Papa il Museo Yad Vashem ha donato la copia di un quadro dipinto da un ebreo internato in campo di concentramento. Una tela carica di angoscia, che mostra alcuni ebrei assorti in preghiera, visti di spalle. «Il bianco dei loro scialli - spiega Lau - è un messaggio di fede. E il Papa mi ha detto di essere rimasto toccato».
La STAMPA - Giacomo Galeazzi : " Senza i fedeli cristiani non c’è Gerusalemme "
I cristiani sono un ponte di pace, una risorsa inesplorata, una minoranza finora marginale in politica ma capace, se guidata nella sua azione dalla Santa Sede, di mediare nel conflitto israelo-palestinese». Il Papa ha appena terminato la sua prima, intensa giornata in Israele e il custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa tira un sospiro di sollievo. «È andato tutto bene», osserva mentre commenta favorevolmente la proposta (lanciata sulla «Stampa» dallo scrittore Abraham B. Yehoshua) di una mediazione di Benedetto XVI, la cui visita avrebbe anche il merito di rafforzare la posizione in Terra Santa dei cristiani, da tempo in fuga, schiacciati tra l’integralismo musulmano e quello ebraico. «L’esigua minoranza della nostra presenza - avverte - non deve diventare timore della scomparsa dei cristiani dalla Terra Santa. La nostra sfida maggiore è non limitarci a subire le difficili situazioni in cui viviamo, ma inserirci in esse con atteggiamento attivo e critico. Del resto come fondamento abbiamo la speranza evangelica e sperare è vivere oggi di questa realtà». Quindi, «ha ragione Yehoshua a sollecitare un ruolo, fino ad oggi per nulla esercitato, della comunità cristiana locale, che è minoranza ma potrebbe far valere tra i due contendenti la propria libertà e il suo essere parte terza, quindi indipendente e priva di pregiudizi e risentimenti», spiega Pizzaballa, uno dei principali «registi» e accompagnatore ufficiale nel viaggio apostolico di Benedetto XVI in Israele e nei Territori palestinesi. Al tempo stesso, sottolinea, l’esperienza vaticana potrebbe servire a indirizzare le due parti verso la pace. «La presenza dei cristiani non è un "incidente storico", così come non lo è quella dei musulmani e degli ebrei - precisa Pizzaballa -. Insieme siamo qui per volontà del Dio della storia. Ora tocca a noi accettarci l’un l’altro, riconoscerci e trovare una forma per convivere nel rispetto e nella pace». Perciò, l’esortazione di Benedetto XVI a restare in Medio Oriente non cade nel vuoto. «Come cristiani abbiamo un compito storico: non abbandonare la terra del Signore, stare qui, essere cristiani qui», concorda. La presenza cristiana, aggiunge, «vuole essere fonte di equilibrio, segno di tolleranza, invito concreto a collaborare, a costruire insieme una nuova convivenza». Tutto ciò, assicura il francescano, «è solidarietà non solo verso le comunità cristiane locali, ma anche verso tutti i figli dell’unico Dio, è tutela dell’identità dei luoghi santi, è profezia di nonviolenza». Una fiducia trasferita ogni giorno a centinaia di opere, che «sono la nostra testimonianza e devono dire chi siamo». Il modo, concreto, di lavorare per la pace è la via indicata dal Papa e cioè: «Il clima di solidarietà che esiste nelle nostre parrocchie, i luoghi di incontri per i giovani senza alcuna distinzione, l’accoglienza degli immigrati che arrivano qui per cercare lavoro, la costruzione di abitazioni per permettere alle famiglie cristiane di radicarsi nel loro territorio, le scuole aperte a tutti, l’attività culturale, l’animazione dei pellegrinaggi, l'attività ecumenica e di dialogo interreligioso». È su queste basi che poggia la credibilità della possibile «mediazione di Benedetto». E «quando in questa minuscola porzione di terra verrà la pace, allora sarà il tempo di una pace più grande per tutto il mondo». La Terra Santa, «crocevia di popoli, religioni, culture», è pronta a giocare la carta della comunità cristiana. «Non si può vivere di paura, perché allora prendono forma i muri che già ognuno si era costruito dentro il proprio cuore - si chiede Pizzaballa -. Quanta responsabilità di questo clima abbiamo tutti, anche se non siamo palestinesi o israeliani? Quale responsabilità ci assumiamo quando soffiamo sul fuoco della paura, sul fuoco di tutti i razzismi? Questa realtà è pagata duramente anche dalle comunità cristiane, costrette all’esodo dalle proprie terre e dalle città dove hanno vissuto per secoli e ora tentate fortemente dall’emigrazione. Adesso è il momento di un coinvolgimento più deciso e incisivo nella vita pubblica e nelle trattative tra israeliani e palestinesi».
Il GIORNALE - Alberto Giannoni : " Il rabbino: 'Parole che fanno chiarezza' "
Parole che non lasciano indifferenti, quelle che dalla Terra Santa risuonano in tutto il mondo. Parole e gesti che il mondo ebraico aspettava dal Papa per riprendere un cammino di dialogo troppe volte interrotto da incomprensioni e incidenti. «Con grande soddisfazione» le accoglie Giuseppe Laras, presidente dell’assemblea rabbinica italiana. Anche se invita a «vedere se ci saranno anche in futuro le condizioni di questo dialogo» fra chiesa ed ebrei. E uomo del dialogo Laras lo è sempre stato, capace però di parole anche severe. Per esempio sul caso Williamson, il vescovo lefebvriano riammesso nella chiesa e causa di polemiche e tensioni per le ripetute dichiarazioni negazioniste sulle camere a gas. La voce del rabbino Laras, una delle più autorevoli dell’ebraismo italiano, si era alzata per chiedere un «periodo di decantazione» prima del viaggio del Pontefice in Israele: «C’è troppa irritazione e troppo sospetto» aveva detto. Rabbino Laras, Benedetto XVI ha gridato il suo «mai più» Olocausto, e ha messo in guardia contro «l’antisemitismo che continua a sollevare la sua ripugnante testa». Parole nette. «Le dichiarazioni del Papa sono da recepire con grande soddisfazione, perché chiariscono tante cose, dopo le tensioni del recente passato». Il Pontefice ha ammonito affinché le sofferenze dell’«orrenda tragedia» non siano «mai negate, sminuite o dimenticate». «Mi sembrano parole da salutare con grande compiacimento. Ma è molto importante capire se il Papa è entrato nello Yad Vashem, il memoriale dell’Olocausto, di fronte a quella targa di cui tanto si è parlato, che ricorda Pio XII». È entrato nel Memoriale, ma gli organizzatori della visita hanno stabilito che non passasse di fronte alla controversa didascalia su Pio XII. «Non capisco. Poteva dire che non condivideva, che il predecessore ha fatto ciò che doveva. Non sarebbe stata una deminutio capitis per lui. È difficile da valutare questo omaggio». Il Papa ha ribadito di essere come i suoi predecessori «impegnato contro l’odio». Questa sua visita giudicata in Israele «molto positiva» potrebbe preludere a una riscrittura di quella didascalia? «Francamente è molto difficile da dire adesso. Ora forse non è possibile, ma in un futuro prossimo potrebbe essere interpretato come un segno di distensione. Non ora però, non a caldo. Vediamo se anche in futuro ci saranno le condizioni per farlo». Le autorità israeliane hanno accolto Benedetto XVI con grande calore. Possiamo considerare rimarginate le ferite causate dal caso Williamson? «Speriamo, me lo auguro. Non saprei cosa è stato di questo personaggio, se è stato lasciato al suo posto oppure no». Benedetto XVI ha piantato un ulivo, simbolo di pace, con il presidente Shimon Peres. Due «umili lavoratori» nella vigna della pace... «Un’immagine molto bella e significativa, tenendo presente che l’ulivo è una pianta millenaria. Speriamo di sì. Speriamo dunque in una pace durevole». Qualcuno in Israele avrebbe preferito un più «basso profilo» nell’accoglienza al Papa. È stata notata qualche defezione, di autorità religiose o istituzionali. «Mi sembra la dimostrazione che le cicatrici del passato hanno ancora il loro peso. Dobbiamo andare avanti senza dimenticarle. Senza esaltazione eccessiva, ma anche senza alcun pessimismo».
CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " La scelta di Marlene e la kippah di Fini I gesti della memoria "
Marlene Dietrich, foulard e vestito bianchi, è in raccoglimento davanti alla Fiamma perenne. 1966, sono passati cinque anni dall’inaugurazione della sala più importante di Yad Vashem. Sulla pietra del pavimento, ventidue nomi di lager declinano la toponomastica dell’orrore. La sorella dell’attrice viveva vicino a Bergen-Belsen. Quando si rividero dopo la guerra, Marlene scoprì che gestiva un cinema per le guardie: non le ha più parlato. La diva è in Israele per la seconda volta a testimoniare l’impegno antinazista di una tedesca che ha scelto la cittadinanza americana. Anwar Sadat, presidente egiziano, entra nella stanza buia accompagnato da Menachem Begin. La «sacra missione » — e lo storico viaggio a Gerusalemme del 1977 — non possono non portarlo al museo dell’Olocausto. E’ il giorno di Id al-Adha, quando gli islamici ricordano il sacrificio di Isacco. «Che cessino tutte le sofferenze per l’umanità» scrive il leader arabo nel libro dei visitatori. Assieme alla parola «pace», che lui e il primo ministro israeliano sono riusciti a pronunciare dopo trent’anni di guerre. Nelson Mandela rende omaggio agli ebrei, i sei milioni morti nella Shoah e quelli che hanno sostenuto la sua lotta contro l’apartheid. L’emozione della cerimonia sul Monte Herzl, ottobre 1999, riscalda una visita disseminata di freddezze diplomatiche. «Ho un debito verso la comunità che mi ha aiutato, anche se ho spesso criticato Israele», ammette il presidente sudafricano. Gianfranco Fini estrae dalla tasca destra della giacca il regalo di Amos Luzzatto, una kippah viola. La indossa prima di ravvivare la fiamma nella Sala della Ricordo e piegare il ginocchio per deporre una corona in memoria delle vittime. Evoca il «Male assoluto»: anche «quanto ha condotto alla persecuzione ». E’ il 2003, otto anni dalla svolta Fiuggi e sessantacinque dalle leggi razziali fasciste. I gesti, le parole, l’angoscia. In «pellegrinaggio» a Yad Vashem — così l’ha chiamato Fini — i leader internazionali rivivono le atrocità del passato, ripetono e promettono quel «mai più». Lo dichiara Barack Obama, ancora senatore, e lo proclama George W. Bush, ancora per poco presidente. Nel gennaio 2008, il miglior amico di Israele alla Casa Bianca visita il memoriale, piange per due volte e chiede a Condoleezza Rice perché gli americani non abbiano bombardato Auschwitz per fermare lo sterminio. Le stanze della memoria diventano qualche volta il palcoscenico di imbarazzi nel presente. Gerhard Schröder è il protagonista di un incidente nel luogo meno indicato per un cancelliere tedesco. Dopo aver ascoltato loEl Malei Rahamim, la preghiera per i morti della Shoah, si avvicina alla piccola manopola che regola la Fiamma perenne: il cerimoniale vorrebbe che quel fuoco si rianimi, diventi ancora più grande. Schröder sbaglia rotazione e spegne il simbolo che dovrebbe restare sempre acceso. Per non dimenticare.
CORRIERE della SERA - " Summit religioso Ue, scontro sugli invitati "
BRUXELLES — I rabbini europei hanno disertato la riunione delle comunità religiose convocata dalla Commissione Ue ieri a Bruxelles in segno di protesta contro la presenza di organizzazioni vicine ai Fratelli musulmani e del controverso intellettuale Tariq Ramadan. «Rammaricato» il presidente dell’esecutivo comunitario, José Barroso, che aveva convocato tutti i leader religiosi dell’Ue per parlare della crisi. I rabbini, si legge in un loro comunicato, non hanno partecipato perché Barroso e il presidente del Parlamento europeo Hans Gert Pöttering «hanno invitato rappresentanti ben noti per le loro nefaste opinioni sugli ebrei e Israele». In particolare, i rabbini hanno protestato contro la presenza di Chakib Benmakhlouf, presidente della Federazione delle associazioni islamiche d’Europa, e per quella di Tariq Ramadan, nipote del fondatore dell’organizzazione dei Fratelli musulmani, studioso di filosofia e scrittore spesso criticato per posizioni considerate estremiste. «Dispiace che alcuni leader religiosi non abbiano accettato il nostro invito che vuole promuovere il dialogo» ha detto Barroso al termine della riunione.
L'UNITA' - Ecco la conclusione dell'articolo di Umberto De Giovannangeli (che non riportiamo) " Un presente denso di incognite investe anche Gerusalemme, città santa per le tre grandi religioni monoteiste, città contesa. Città dai nervi scoperti: in forte espansione, ma sempre prigioniera dei nodi del conflitto israelo-palestinese. A Gerusalemme Benedetto XVI trova una popolazione palestinese inquieta, nel timore che il futuro assetto politico della città non sarà determinato dalla diplomazia, ma dai rapporti demografici realizzati sul terreno. Nel 2008 Israele ha sviluppato alcuni rioni periferici - Ramot, Ghivat Zeev, Nevè Yaakov (a nord); Har Homa (sud-est); Givat ha-Matos (a sud) - rafforzando così la presenza ebraica nelle zone annesse dopo la Guerra dei sei giorni: vi vivono oggi 270 mila palestinesi e 190 mila ebrei. Una colonizzazione che sembra inarrestabile. Non è questa la Gerusalemme del dialogo, la città condivisa, agognata da Benedetto XVI. ". Una colonizzazione inarrestabile? Gerusalemme è la capitale dello Stato di Israele, anche se spesso i quotidiani come l'UNITA' lo "dimenticano". E' naturale che ci vivano anche gli ebrei e che, con l'aumentare della popolazione, vengano costruite nuove abitazioni.
Per inviare il proprio parere a Giornale, Foglio, Opinione, Corriere della Sera, Stampa e Unità, cliccare sulle e-mail sottostanti