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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale-Il Foglio-Corriere della Sera-La Stampa Rassegna Stampa
09.05.2009 Prima tappa in Giordania
4 commenti a confronto

Testata:Il Giornale-Il Foglio-Corriere della Sera-La Stampa
Autore: Fiamma Nirenstein-Foglio redazione-Viviana Mazza; Michel Bole-Richard
Titolo: «Viaggio del Papa,tappa ad Amman»

Viaggio del Papa in Giordania, prima tappa. Riprendiamo dal GIORNALE l'analisi di Fiamma Nirenstei, a pag.17, le opinioni del rabbino Jacob Neusner sul FOGLIO a pag.1, l'intervista a Daniel Pipes di Viviana Mazza sul CORRIERE della SERA a pag. 3, e l'intervista al patriarca di Gerusalemme Fouad Twal sulla STAMPA a pag.9, tradotto da Le Monde.

IL GIORNALE-Fiamma Nirenstein: " Consigli: Il momento è pessimo ma è un'occasione da non perdere "

Il Papa in Israele e a casa dei palestinesi è una grande occasione, proprio perché il momento di questo viaggio è pessimo. Mai il nodo dei problemi è stato così gordiano, e dunque mai tanto opportuno cercare di dire davvero qualcosa che, come nei progetti della Santa Sede, promuova la pace nei cuori e fra le parti. Israele e i palestinesi hanno interessi contrapposti e ciascuno parlerà al Papa così da convincerlo alla sua causa. Ma, se ci possiamo permettere un consiglio, il Papa potrebbe utilmente attenersi ai temi della verità e della libertà religiosa.
La verità: il Papa andrà a Yad Vashem, il museo della Shoah, la cui eccezionale rappresentazione di certo gli solleverà emozioni e pensieri, specie a lui tedesco (un aspetto, questo, di cui Israele discute in tesa sospensione). Oggi, mentre è in atto un attacco senza precedenti alla memoria dell’Olocausto capeggiato dal presidente iraniano Ahmadinejad, la negazione della Shoah è diventata l’aggancio politico, ormai istituzionalizzato, per una narrativa antisemita diffusa che si conclude con la distruzione dello Stato d’Israele. Se il Papa chiarirà fino in fondo il senso malefico del negazionismo compirà giustizia anche rispetto all’episodio del vescovo Williamson, ma soprattutto se indicherà il negazionismo come un peccato dello spirito, più che come un errore storico, questo sarà un gesto da ricordare nella storia della pace. E allora un suo ritornare sulla storia di Pio XII non sarà visto come una prepotenza, ma come una proposta di discussione.
Il Papa, quando andrà a Betlemme, visiterà un campo profughi, Aida, da cui, mi si dice, si vede la barriera di divisione, che a Betlemme, città dei molti attacchi terroristi delle Brigate di Al Aqsa, è in parte un muro. Qui i palestinesi, che dopo la guerra di Gaza hanno già chiesto al Pontefice una visita schierata, cercheranno probabilmente di estrarre il massimo in termini di solidarietà. E il Papa certamente gliene accorderà, secondo gli stilemi classici dell’occupazione israeliana e della miseria palestinese. Su ciò ci sarebbe molto da dire, ma ci limitiamo a questo: se il Papa, che naturalmente suggerirà a Israele di accordarsi finalmente su “due Stati per due popoli”, saprà anche guardare ai danni inflitti ai palestinesi dalle loro leadership, aliene a tutti gli accordi e sempre propense a scelte di violenza e terrorismo, se saprà dire una parola sull’enorme miglioramento che la cessazione della violenza può portare nelle loro vite, questo sarà un gran passo avanti. I muri cadono quando non ce n’è necessità. Inoltre sarebbe bello che il Papa nella città in cui è nato Gesù dicesse una parola di affetto per quei cristiani palestinesi espulsi (checché ne dicano molti cittadini impauriti) dalla persecuzione islamista: questo li aiuterebbe ben di più della comune finzione che le colpe siano sempre di Israele. Per esempio la vita dei cristiani di Gaza è disseminata di omicidi e di esplosioni: la Chiesa deve difendere i cristiani dai loro veri nemici.
La libertà religiosa: i cristiani di Israele sono oggi 150mila, mentre nel ’48 erano 34mila. Una crescita di più del 250 per cento. Israele è l’unico Paese in cui i cristiani abbiano goduto di una crescita demografica, l’unico in cui i luoghi di culto siano liberi senza limiti, come non lo erano durante la dominazione giordana. Certamente i cristiani hanno, come tutte le minoranze, le loro rivendicazioni, anche se, a quel che so, il regime di tassazione e le opere di restauro godono di una legislazione collaborativa. Comunque, se il Papa pensa non sia diplomatico esprimere apprezzamento diretto per la libertà religiosa in Israele, sarebbe bello che invece visitasse il centro Bahai di Haifa (l’idea è dello studioso di Islam Denis Maceoin che l’ha scritto sul Catholic Herald ), alcune leggiadre costruzioni nel mezzo di un grande parco fiorito. I Bahai, perseguitati, uccisi, imprigionati ovunque ma specie in Iran, hanno trovato rifugio e aiuto in Israele. Sarebbe magnifico che il Papa visitandoli proclamasse il suo orrore per qualsiasi tipo di persecuzione o discriminazione religiosa. Sarebbe un messaggio oggi fondamentale per il mondo intero. Farebbe di questa visita una pietra miliare.

IL FOGLIO- " Così B-XVI afferma il giudaismo d'Israele e di gesù. Dice Neusner"

Il Foglio, scegliendo nel campo ebraico le voci vicine al papa, riporta l'opinione del rabbino Jacob Neusner. Da leggere con interesse. Peccato che poi, a pag.2, pubblichi un articolo di Gian Maria Valli, che non riportiamo per la stima che abbiamo  del quotidiano che lo ospita. Ma il tono lo si evince dalle ultime righe, che riprendiamo per la gioia dei nostri lettori " In una famiglia cattolica di Gerusalemme abbiamo visto qualche lacrima scorrere quando lo schermo televisivo a mostrato l'aereo papale che toccava terra ad Amman". Un giornale che ci ha abituato ad accurate analisi della politica internazionale, beh, il pezzo di Valli poteva risparmiarcelo.  Segue il pezzo su Neusner:

Roma. Il Time lo ha definito “il rabbino preferito del Papa”, ma ancora prima era “l’amico ebreo del cardinal Ratzinger”. A lui, Jacob Neusner, e al suo “A Rabbi Talks with Jesus”, Benedetto XVI ha dedicato persino molte pagine del “Gesù di Nazareth”. Da lunedì Joseph Ratzinger, alla sua quarta visita in Terra Santa, ripercorrerà per la prima volta da Papa le stesse strade del Gesù Cristo che ha raccontato nel suo libro. “In questo viaggio il Papa afferma il giudaismo dello stato di Israele e di Gesù Cristo”, spiega Neusner al Foglio. Secondo lui il viaggio di Benedetto XVI è una netta dichiarazione contro chi sponsorizza l’antisemitismo di stato: “Con la sua stessa presenza fisica di pellegrino – dice – il Papa afferma la legittimità dello stato di Israele. Oltre a ricordare all’islam che nei paesi musulmani deve ampliare la stessa libertà d’espressione che chiede all’occidente”. Secondo Neusner, il pellegrinaggio del Papa incarna il “trialogo” indispensabile fra le tre religioni abramitiche, quello che “porta alla comprensione reciproca e che permette di dare un senso alla differenza, non di superarla”. E nessuno scenario potrebbe essere migliore per il “trialogo” della Terra Santa. Sul volo per Amman, Benedetto XVI ha detto di voler “contribuire alla pace” in nome della chiesa e della Santa Sede, non “un potere politico ma una forza spirituale”. “Il Papa parla, a nome di un miliardo di cattolici, al cuore dell’ebraismo e al centro della religiosità islamica. L’incontro fra le tre tradizioni si trasforma in un atto di ricerca religiosa”. Cristiani ed ebrei hanno anche una base comune di partenza, le Scritture: “Diamo valore alle stesse storie e chiediamo loro di spiegare ciò che siamo – spiega Neusner – Possiamo rivolgerci a Dio con una voce sola attraverso la liturgia. Per questo il Papa ha scritto un libro sui salmi”. Benedetto XVI arriva in Israele dopo il Pontefice che pregò sul Muro del pianto e chiese scusa per l’Olocausto. E prima ancora di atterrare in Giordania ha detto che il dialogo con gli ebrei “fa progressi”, “nonostante i malintesi”. Perché sebbene gli siano piovute addosso accuse di antigiudaismo e persino di antisemitismo, Benedetto XVI ha dimostrato in più di un’occasione la sua amicizia nei confronti degli ebrei. “Ha portato avanti la tradizione di Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II, e ha affermato l’eredità dei Papi della riconciliazione fra ebraismo e cristianesimo. Benedetto XVI ha mostrato che la verità religiosa non si deve compromettere nella ricerca di amicizia fra le fedi”. Ma questo Papa è nato e cresciuto nella Germania nazista e la suscettibilità nei confronti della sua origine sembra non essere stata del tutto superata. Al punto che la sala stampa Vaticana ha pensato di specificare, per la prima volta, che il Papa non parlerà tedesco. “I ricordi dell’Olocausto per molti sono legati ai suoni della lingua tedesca. E’ un gesto di sensibilità. Benedetto XVI ha preso posizione fra quelli che hanno rifiutato l’eredità della generazione che ha commesso l’Olocausto”.

CORRIERE della SERA-Viviana Mazza: " Ma serve un'enciclica sul mondo musulmano ", intervista a Daniel Pipes.

Dice bene Daniel Pipes, a questo punto il papa deve trovare il mezzo più adatto per far conoscere il suo pensiero sull'islam. Il tempo delle dichiarazioni estemporanee è trascorso, occorre un documento ufficiale. Il "volemose bene" fra le tre fedi non tiene in conto che una delle tre si propone la fine delle altre due. E non certo attraverso il solito proselitismo, gli strumenti sono ben altri. Staremo a vedere quale decisione prenderà B-XVI.

«Il Papa è in viaggio in Giorda­nia come pellegrino e non come politico. Sta cercando di calmare le acque, non è là per fare dichia­razioni forti». Daniel Pipes, esper­to di Islam, direttore del Middle East Forum ed ex consulente del­la Casa Bianca di George W. Bu­sh, legge così il discorso del Papa ieri ad Amman. Non ne è entusia­sta. Al telefono dagli Stati Uniti, l’intellettuale neocon spiega che da Benedetto XVI assai più che da Giovanni Paolo II si era aspet­tato una dichiarazione chiara sul rapporto con l’Islam frutto di ri­cerca dottrinale, morale e socia­le. «Un’enciclica». Continua ad aspettare. «Non so se a questo punto lo farà o meno».
Dopo il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, considerato in molti Paesi musulmani come of­fensivo nei confronti dell’Islam, Pi­pes scrisse che il Papa aveva offer­to «commenti elusivi, brevi affer­mazioni, ora una citazione delfica, ma non una importante dichiara­zione sulla vitale questione Islam». Dopo le scuse del Papa av­vertì che «parlare liberamente del­l’Islam » è fondamentale per non cedere a chi vuole imporre «le nor­me della sharia sull’Occidente». Osserva che Benedetto XVI si è fat­to da allora più «conciliante».
Cosa manca nelle dichiarazio­ni del Papa ieri ad Amman?
«È stato un discorso che non verrà ricordato come una dichiara­zione significativa. È come Istan­bul nel 2006, molto educato».
Non crede che sia un cambia­mento significativo, che ci sia una assai maggiore disponibilità al dialogo rispetto a Ratisbona?
«Senza dubbio. E’ diventato più conciliante. Sta parlando a un grande pubblico in prevalenza mu­sulmano. Il suo messaggio è: 'Gra­zie per avermi invitato, rispetto l’Islam'. Ma non è appunto un’en­ciclica. Una delle cose più impor­tanti che il Papa possa fare è una dichiarazione sull’Islam. Ha fatto alcune affermazioni a Ratisbona, adesso ha detto solo poche parole, ma non una dichiarazione comple­ta sul rapporto tra la Chiesa cattoli­ca e l’Islam. Non è la dichiarazione del suo Papato, della quale vi sa­rebbe estremo bisogno».
Perché ritiene che sia così im­portante?
«Vi sono stati molti sviluppi, molte dichiarazioni diverse e con­traddittorie fatte da vescovi e arci­vescovi sullo status dei cattolici nei paesi musulmani e dei musul­mani nei paesi cattolici, vi sono questioni teologiche... Avrebbe un impatto sulla chiesa ma anche sul più ampio rapporto tra Cristia­nesimo e Islam».
Ma la dichiarazione sull’allean­za
tra civiltà non è in sé significa­tiva in questo senso?
«L’alleanza di civiltà è un pro­getto di Zapatero e di Erdogan, sono loro che l’hanno creata. E’ un progetto politico, non un’en­ciclica o una dichiarazione im­portante
».
Ma altri Papi prima di lui non l’hanno fatto.

«No, non l’hanno fatto. Ma Gio­vanni Paolo non era un teorico, come invece è Benedetto XVI. E date le sue posizioni teoriche pre­cedenti, la sua preoccupazione per il futuro del cattolicesimo in Europa e la reciprocità tra Islam e Cristianesimo e le sue prime affer­mazioni sull’Islam, c’era una certa aspettativa che facesse una dichia­razione e non so se a questo pun­to la farà mai».
Che messaggio si aspettereb­be dal Papa in un’enciclica sul­l’Islam, date anche le sue prece­denti dichiarazioni?
«Non so che cosa dovrebbe di­re. Prima di diventare Papa parlò spesso dell’Islam e fu piuttosto critico».

LA STAMPA-Michel Bole-Richard: " Senza di noi sparisce la vera Terra Santa"

La Stampa traduce da Le Monde il commento alla visita del papa, intervistando il patriarca di Gerusalemme  Fouad Twal. Il giornalista lo definisce "moderato", certo, se si considera il predecessore, l'estremista anti-israeliano Mons.Sabbah, una differenza c'è. Quel che rimane invariata è l'impossibilità di chiamare il fondamentalismo islamico con il suo vero nome, l'ipocrisia continua di addebitare a Israele la fuga dei cristiani dai territori controllati dall'Autorità palestinese, da Hamas, e in genere dagli stati arabi o arabizzati, come il Libano, per esempio. Il papa può invocare la pace, il dialogo e tutto l'armamentario del pacifismo internazionale, ma saranno solo parole, a meno che non si decida a distinguere fra civiltà e barbarie. E scegliere con chi stare. Se ritiene che la faccenda non sia di compito suo, la deleghi a chi ne ha titolo. Poi abbassi i toni e parli d'altro. Ecco l'intervista:

Monsignor Fouad Twal incassa. Il nuovo patriarca di Gerusalemme ammette che il viaggio di Benedetto XVI in Terra Sanata solleva molte controversie, che questa visita non cade nel momento opportuno. «Ne abbiamo discusso a lungo. Doveva venire ora, o più in là? Alla fine la decisione è stata presa. È il benvenuto. Sarà una benedizione per tutti, ebrei, cristiani, musulmani. Ma non si può dimenticare che questo pellegrinaggio ha anche una dimensione politica».
A 69 anni, questo giordano a capo della comunità cattolica di Israele, dei Territori occupati e della Giordania, succeduto a Michel Sabbah nel 2008, si è guadagnato una reputazione di moderato, soprattutto al suo più mutevole predecessore. Nato a Mataba, a sud di Amman, ordinato sacerdote nel 1996, Twal è soprattutto un diplomatico. Per vent’anni è stato l’emissario della Santa Sede, prima di essere nominato vescovo di Tunisi nel 1992. Arcivescovo nel 1995, nel 2005 è stato nominato da Benedetto XVI coadiutore del patriarca latino di Gerusalemme, trampolino per il posto da patriarca, porto d’approdo dopo una carriera che l’ha portato in molte capitali del mondo.
Sa come smussare gli angoli. Teme un incidente, un deragliamento? «Quello che aspetto sono i discorsi che il Papa pronuncerà, anche la nostra linea politica è chiara. Lancerà un appello per la giustizia, la pace, la riconciliazione. Noi ci siamo sempre pronunciati contro la violenza, che venga da uno Stato o da un gruppo politico». Non ci vorrebbe qualcosa di più concreto? «Sì, da 60 anni non si arriva a una soluzione. O i mezzi utilizzati non sono stati buoni, o non c’era la volontà politica. Il problema è di avere il coraggio di compiere gli atti necessari. Noi preghiamo, non facciamo che pregare. Non abbiamo altri mezzi. È la comunità internazionali che deve assumersi le sue responsabilità».
Twal si aspetta soprattutto risultati simbolici da questo viaggio. «Il Papa è venuto per portare un messaggio. Non ha la bacchetta magica. Ma non bisogna dimenticare che questa è una terra di sorprese. Cercherà di ridare speranza, gioia di vivere, perché la gente è stanca di discorsi, visite, promesse, tante belle iniziative che non hanno portato da nessuna parte. La gente non ha più fiducia nei suoi dirigenti». Twal non nasconde la dimensione politica del viaggio papale, mentre il governo israeliano si irrigidisce, e la disperazione dilaga tra i palestinesi. «Vogliamo ridare alla Terra Santa la sua vocazione di Terra Santa».
Non è facile in momento in cui la popolazione cristiani si riduce di fronte alla pressione demografica di musulmani ed ebrei. «Dobbiamo fermare l’emigrazione, bisogna limitare l’esodo. Non troveremo mai un’altra Terra Santa. Le nostre radici sono qui. Bisogno accettare la sofferenza come Cristo l’ha accettata, qui». Twal spera che si possano risolvere le divergenze tra Israele e la Chiesa sulle proprietà ecclesiastiche, un problema che era senza dubbio meglio risolvere prima della visita papale.
Poi c’è il luogo scelto per la messa a Gerusalemme, al Getsemani, troppo piccolo, che non potrà accogliere più di 5-6 mila persone: «Sarà comunque la prima volta che vedremo una simile folla di cristiani raccolti a Gerusalemme». Poi c’è la preoccupazione per la data del 14 maggio, che coincide con quella che i palestinesi chiamano la «Nabka», la «Catastrofe», in ricordo della spartizione della Palestina e la nascita dello Stato di Israele. Ma per Twal, al di là di storiche contrapposizioni, tutte le diverse comunità possono trarre profitto da questo attesissimo viaggio papale. «Questa visita è come un bel dolce ed è a disposizione di tutti quelli che vorranno prendersene una bella fetta».

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