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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa Rassegna Stampa
07.05.2009 Afghanistan-Pakistan: vertice Obama, Karzai e Zardari
Analisi di Guido Olimpio, Maurizio Molinari, redazione del Foglio. Cronaca di Cecilia Zecchinelli

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa
Autore: Guido Olimpio - Maurizio Molinari - La redazione del Foglio - Cecilia Zecchinelli
Titolo: «Gli Usa studiano il piano B per sostituire i soci scomodi - Patto Obama-Zardari 'Estirperemo Al Qaeda' - Le stragi afghane dei civili -Strage in Afghanistan, le scuse dell’America»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/05/2009, a pag. 2, l'analisi di Guido Olimpio dal titolo " Gli Usa studiano il piano B per sostituire i soci scomodi ", dalla STAMPA, a pag. 8, l'analisi di Maurizio Molinari dal titolo " Patto Obama-Zardari 'Estirperemo Al Qaeda' ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " Le stragi afghane dei civili " , dal CORRIERE della SERA, a pag. 2, la cronaca di Cecilia Zecchinelli dal titolo " Strage in Afghanistan, le scuse dell’America ". Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio: " Gli Usa studiano il «piano B» per sostituire i «soci» scomodi "

WASHINGTON – Barack Obama, durante la campagna elettorale, aveva promesso che il focus della sua politica estera sarebbe stato il conflitto afghano-pachistano, l’Af-Pak. Una centralità motivata dalla duplice necessi­tà di garantire un minimo di stabilità in un’area diventata negli ultimi mesi esplosiva e di impedire la preparazione di un nuovo 11 Settembre.
Ma la Casa Bianca ha risorse limitate e due partner complicati. Il presidente afghano Ha­mid Karzai e quello pachistano Asif Zardari so­no amici difficili, costantemente sotto il tiro di critiche interne ed esterne, che resistono al po­tere attraverso i compromes­si. Una verità svelata all’opi­nione pubblica da una serie di articoli ispirati da fonti sta­tunitensi. Ricostruzioni mi­nuziose dove si elencano gli errori, la corruzione estesa, la debolezza, il doppio gioco, la scarsa affidabilità dei due alleati, fino a paventare un passaggio dell’arsenale nucleare pachistano nelle mani degli integralisti.
A questo punto la domanda per i vertici americani è: vale la pena continuare con que­sti soci? Un interrogativo seguito da scenari che disegnano un doppio ricambio regionale. Un premier forte al fianco di Karzai. Un ruolo maggiore dei militari a tutela di Zardari (o, per­sino, l’«affidamento» del potere ai generali).
La soluzione – non definitiva, sia ben chia­ro – passa dagli attori locali. I soldati alleati impegnati sul campo non sono sufficienti. Più bombe rischiano solo di portare altre re­clute al nemico. Le stragi di civili – anche se chiaramente non volute - sono il miglior alle­ato dei talebani. Pensare di trovare leader più graditi e gradevoli, oltre che difficile, sareb­be una sconfessione dei principi che ispirano la presidenza Obama. Vuole parlare con Ah­madinejad, Castro e Chavez, ma poi si sbaraz­za di chi non si adegua alle sue linee strategi­che. Ha investito tanto per lanciare una nuo­va immagine dell’America e poi torna a vec­chi sistemi.
La cura proposta dai «dottori» americani è di non sdradicare il male ma di ridurne gli ef­fetti. Ai pachistani verrà chiesto – per la cente­sima volta – di fare sul serio contro gli integra­listi, in cambio verranno con­cessi quegli aiuti militari fino ad oggi lesinati. Crescerà lo scambio di informazioni tra intelligence. Sarà studiato un nuovo piano d’azione an­ti- terrore. Aumenteranno le iniziative a favore delle popo­lazioni civili.
Di nuovo, la strada è tor­tuosa. Va percorsa a piccoli passi che, a volte, sono faticosi per il gigante americano. Karzai e Zardari devono agire con fermezza senza però apparire docili strumenti nelle mani de­gli Stati Uniti. Gli americani potranno torcere loro il braccio, ma non troppo forte per non urtare sensibilità e orgoglio. Per questo la scelta di offrire una stampella a due amici zoppicanti è visto, per ora, come il male mi­nore. Ma alla Casa Bianca studieranno anche un piano B in caso la coppia non funzioni. Un’ipotesi che costringerà gli Stati Uniti a cer­care nuovi interlocutori e a estendere un im­pegno diretto che si voleva invece contenere.

La STAMPA - Maurizio Molinari : "Patto Obama-Zardari 'Estirperemo Al Qaeda' "

L’impegno del Pakistan a «estirpare il cancro dei taleban» è il risultato con cui il presidente Barack Obama ha concluso la prima giornata del summit trilaterale con i leader di Kabul e Islamabad, giunti a Washington per promettere all’alleato americano di «lavorare assieme come mai avvenuto finora».
Formula e contenuti del vertice sono stati mirati a generare un patto per la sconfitta dei jihadisti e la ricostruzione civile dell’Afpak, la regione che include Pakistan e Afghanistan. Il primo appuntamento è avvenuto nella tarda serata di martedì nell’Hotel Willard, a due passi della Casa Bianca, dove il Segretario di Stato Hillary Clinton e l’inviato Richard Holbrooke hanno incontrato il presidente pakistano Asif Ali Zardari ponendo senza perifrasi la necessità di «azioni energiche» contro i taleban arrivati a 90 km da Islamabad e talmente aggressivi da far temere per la sorte delle armi nucleari.
Zardari ha incassato le critiche alla debolezza finora dimostrata, l’ha spiegata con il fatto che «la democrazia nel mio Paese ha solo sette mesi» - quanti ne sono passati dalle elezioni - e ha promesso «piena collaborazione» concordando un dettagliato piano d’azione anti-jihadisti destinato al momento a rimanere top secret. Ieri mattina Zardari ha reso pubblica la promessa fatta a Hillary e Holbrooke nel corso di una riunione trilaterale nella Benjamin Franklin Room del Dipartimento di Stato alla quale ha partecipato anche una delegazione afghana guidata da Hamid Karzai. «Non importa quanto tempo servirà e che cosa dovremo fare, la democrazia pakistana è al fianco dei popoli americano e afghano contro la comune minaccia, il cancro del terrorismo», ha detto Zardari, definendo la «lotta contro Al Qaeda e i taleban» un «pesante fardello che la mia nazione ha sulle spalle».
Sono le parole che la Casa Bianca voleva sentire e la cornice del summit trilaterale al Dipartimento di Stato è servita a sottolineare quella che Hillary ha definito «l’inizio di una nuova fase di collaborazione» che coincide con la sigla di un trattato per promuovere gli scambi fra Pakistan e Afghanistan. «Rispetto al 2006 quando Karzai e Musharraf vennero da Bush senza neanche stringersi la mano abbiamo compiuto un importante passo avanti», ha commentato un alto funzionario della Casa Bianca. In tale cornice il Segretario di Stato ha pubblicamente presentato a Karzai le «profonde scuse degli Stati Uniti d’America» per i bombardamenti aerei nella provincia di Farah, raccogliendo in cambio l’impegno a «lavorare più intensamente con il Pakistan per rafforzare la fiducia reciproca».
Forte dei risultati ottenuti, Hillary si è quindi recata alla Casa Bianca per consegnare la staffetta del summit al presidente Obama, che ha ricevuto i due colleghi nello Studio Ovale. «La sicurezza delle nostre tre nazioni è legata. Gli Stati Uniti sono impegnati a ottenere la sconfitta di Al Qaeda e dei taleban e il rafforzamento delle democrazie in Afghanistan e Pakistan», ha detto il presidente Usa. Oggi i protagonisti del vertice diventano gli sherpa dei tre Paesi a cui tocca di redigere una «Road Map» per la ricostruzione dell’Afpak che punta molto sugli investimenti nel settore dell’agricoltura per spingere le popolazioni rurali lontano dall’oppio e dai taleban. Hillary ha reso omaggio alla scelta di Zardari di impegnarsi a fondo contro gli estremisti islamici, facendo capire che Washington ha deciso di dargli tempo: «Bisogna tenere a mente che un presidente eletto democraticamente in Pakistan è qualcosa di importante».
Intanto a Kabul è arrivato Robert Gates, il ministro della Difesa, incaricato di esaminare i piani dei comandi militari per lanciare l’offensiva estiva contro i taleban lungo il confine pakistano. Avendo a disposizione un numero di soldati che in settembre toccherà 68 mila unità - oltre il doppio di quelle schierate quando Obama fu eletto - si tratterà di operazioni più ampie ed aggressive. Non a caso uno dei dettagli tattici dei quali Gates si sta occupando è la riduzione della «golden hour», del tempo che passa da quando un soldato viene ferito gravemente al momento nel quale viene operato in ospedale, a dimostrazione che sta per iniziare una campagna molto più cruenta, che per aver successo avrà bisogno della cooperazione di Zardari.

Il FOGLIO - " Le stragi afghane dei civili"

La guerra è la guerra, anche sotto l’illuminata gestione di Barack Obama. Cento, forse centotrenta, civili afghani, tra cui donne e bambini e volontari della mezzaluna rossa, sono stati uccisi durante un bombardamento americano nella provincia di Farah, in Afghanistan. “Una strage inaccettabile”, ha detto il presidente afghano Hamid Karzai prima di essere ricevuto da Barack Obama alla Casa Bianca. Il segretario di stato Hillary Clinton ha detto di essere “profondamente rammaricata”. Dispiacere e cordoglio anche da Obama, ovviamente. Sono stragi, cifre e parole non nuove in questi anni di risposta militare all’ideologia islamista che ha infuocato il mondo dopo gli attacchi dell’undici settembre. La guerra è questa cosa qui, sporca e brutale, sempre e comunque, sia quando le élite politiche ed editoriali la considerano “giusta” come questa in Afghanistan, sia quando è giudicata “sbagliata” come quella in Iraq, sia quando è ignorata come quella in corso in Pakistan (dieci morti la settimana scorsa, nel quinto bombardamento americano del mese di aprile, il sedicesimo da quando Obama si è insediato alla Casa Bianca e, ieri, il presidente pachistano ha chiesto agli Stati Uniti “più droni”). Non importa chi ci sia alla Casa Bianca, non è necessario immaginare complotti orditi da oscuri consiglieri super falchi per spiegare la strage dell’altra notte in Afghanistan, non c’è nemmeno bisogno di relegare la notizia a fondo pagina, come ha fatto ieri il sito di Repubblica, lasciandoci il dubbio che se a Washington ci fosse stato ancora George W. Bush la notizia avrebbe avuto un peso leggermente maggiore alla voglia di David Trezeguet di lasciare la Juventus. Sono sette anni, ormai, che con la primavera si intensificano gli scontri. L’America, sia quella di Obama sia quella di Bush, si e ci difende e per difendersi e difenderci attacca i suoi e i nostri nemici lì dove stanno, nei loro rifugi, in base al principio che è meglio affrontarli a Bassora anziché a Baltimora, a Kabul anziché a Kansas City, nella Swat Valley anziché nella Silicon Valley. La guerra occidentale del XXI secolo non è più quella dei bombardamenti a tappeto dei tempi del Vietnam, meno che mai quella devastante e atomica della Seconda guerra mondiale. Il comandamento occidentale, per quanto possibile, oggi è proteggere la popolazione, evitare danni collaterali, conquistare il cuore e la mente di chi sta sotto le bombe. Non è un’ipocrisia, non è un omaggio al politicamente corretto, è un sentimento vero e giusto, la cosa che ci distingue dai jihadisti che si vantano di amare la morte più di quanto noi amiamo la vita. Ma la guerra resta la guerra. Anche quando il comandante in capo è Barack Obama.

CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli: " Strage in Afghanistan, le scuse dell’America  "

Cento, forse 120 o 150 morti in due villaggi del distretto di Bala Boluk, provincia di Farah, Afghanistan occidentale. Quasi tutti civili, moltissimi donne e bambini, uccisi nella notte di lu­nedì dalle bombe americane. È la più grave strage di «non com­battenti » mai avvenuta nel Pae­se dall’inizio della campagna anti-talebani lanciata da Geor­ge W. Bush nel 2001. Più a Est, oltre un confine che i pasthun non hanno mai riconosciuto, nella valle pachistana dello Swat decine di migliaia di per­sone terrorizzate sono in fuga dalle loro case. A nove giorni dall’inizio della battaglia aperta da Islamabad contro l’enclave talebana mancano (ancora) da­ti ufficiali sulle vittime civili, ma il governo ammette un eso­do immenso: mezzo milione di rifugiati. Per l’Onu arriveranno a un milione.
Divisi da profonda ostilità politica a livello di governi (an­che se proprio ieri i presidenti Asif Ali Zardari e Hamid Karzai si dichiaravano «fratelli» davan­ti a Barack Obama), Pakistan e Afghanistan, o meglio le loro popolazioni pashtun, stanno vi­vendo un incubo comune. Ma è la strage afghana compiuta dai soldati Usa a causare più sde­gno nel mondo, più imbarazzo a Washington, più problemi po­litici proprio adesso che Oba­ma vuole raddoppiare entro set­tembre i suoi uomini nel Paese (fino a 68 mila).
«Abbiamo mandato una no­stra squadra martedì pomerig­gio: hanno visto decine di cada­veri di donne e bimbi, fosse co­muni, case distrutte», ha dichia­rato Jessica Barry, della Croce Rossa Internazionale. «Anche uno dei nostri operatori è stato ucciso, con 13 membri della sua famiglia». Altri testimoni confermano. E poi sono arriva­te le foto dei villaggi e delle fa­miglie distrutti. Le accuse del capo provinciale della polizia Ghafar Watandar alle forze tale­bane di aver usato i civili come «scudi umani» non cambiano molto la situazione. «I talebani avevano conquistato i due vil­laggi e ucciso tre poliziotti e tre civili 'collaborazionisti'», ha detto, aggiungendo che le forze afghane avevano chiesto l’aiuto degli americani. Lunedì si era combattuto tutto il giorno. Arri­vata la notte la gente era rientra­ta nella case pensando che tut­to fosse finito. Invece sono ini­ziati i bombardamenti Usa. Con un dubbio, avanzato da fonti militari Usa nella notte: che in realtà la strage sia stata causata da granate usate per la prima volta dai talebani per simulare bombe americane.
Non sono una novità le mor­ti di civili in Afghanistan: nel 2008 l’Onu ne ha contate 828 causate da forze governative, Usa e Nato. Per le Ong locali so­no state più del doppio. E dal 2001 le stime parlano di 4.900/7.750 vittime civili delle forze pro-governo, contro le 2.400/3.950 uccise dai talebani. Episodi gravi ce ne sono stati al­tri in passato: banchetti di noz­ze scambiati per assembramen­ti talebani, scuole colpite. Nel­l’agosto
2008 l’ennesima strage aveva creato forte tensione tra Kabul e Washington: un raid Usa aveva ucciso 90 civili, mai ammessi dagli americani anche se confermati dall’Onu. Questa volta, invece, Washington non nega e anzi si scusa: «Siamo profondamente, profondamen­te dispiaciuti», ha dichiarato ie­ri il segretario di Stato, Hillary Clinton, promettendo un’in­chiesta congiunta a quella che aprirà Kabul. E all’alleato Paki­stan, invece, un incoraggiamen­to a continuare sulla strada del­la guerra aperta ai talebani. «Un buon segnale», ha definito Clin­ton l’ultima offensiva nello Swat. Anche se per il momento sembra solo l’ennesima emer­genza umanitaria.

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