Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Iran: Ahmadinejad perde punti con Khamenei. Intanto Roxana Saberi continua lo sciopero della fame cronache di Viviana Mazza e Francesca Caferri, analisi di Christian Rocca
Testata:Corriere della Sera - Il Foglio - La Repubblica - Il Riformista Autore: Viviana Mazza - Franco Frattini - Christian Rocca - Francesca Caferri- La redazione del Riformista Titolo: «Iran, gli ayatollah contro Ahmadinejad - I cattivi a rapporto - Salvate mia figlia Roxana giornalista prigioniera in Iran»
Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 06/05/2009, l'articolo di Viviana Mazza dal titolo " Iran, gli ayatollah contro Ahmadinejad ". Dal FOGLIO, a pag. II, l'articolo di Christian Rocca dal titolo " I cattivi a rapporto " . Dalla REPUBBLICA, a pag. 1-16, l'intervista di Francesca Caferri al padre di Roxana Saberi dal titolo " Salvate mia figlia Roxana giornalista prigioniera in Iran ". Dal RIFORMISTA la breve dal titolo " Dalla Siria Ahmadinejad ancora contro Israele"Eccogli articoli:
CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " Iran, gli ayatollah contro Ahmadinejad "
La Guida suprema dell’Iran non rivela mai per chi vota. «Nemmeno i suoi figli lo sanno », dicono i suoi portavoce. L’ayatollah Ali Khamenei, subentrato nel 1989 a Khomeini come Guida, dirige la politica interna ed estera, è il capo delle forze armate. E’ in cima alla piramide del potere politico e religioso in Iran. Capire su chi stia puntando per la corsa alla presidenza è decisivo per chi vuole prevederne l’esito. Così, quando l’altro ieri Khamenei ha criticato pubblicamente il presidente Mahmoud Ahmadinejad, esperti come il rispettato economista iraniano Saeed Leilaz hanno visto il segnale che alle elezioni del 12 giugno il cavallo dei conservatori potrebbe essere un altro. Dopo l’elezione nel 2005, Ahmadinejad baciò pubblicamente la mano di Khamenei, dimostrandogli fedeltà. «E’ opinione comune che senza il suo appoggio non avrebbe mai vinto», spiega la giornalista di Radio Farda Golnaz Esfandiari. La «disputa» con la Guida suprema è nata quando Ahmadinejad ha messo alle dipendenze del dipartimento del Turismo l’organo che si occupa del pellegrinaggio alla Mecca (sotto il controllo di Khamenei), sostituendone anche il capo. Khamenei gli ha ordinato di fare marcia indietro: «È stato notificato con forza al presidente che annettere l’organizzazione non è appropriato ». Ahmadinejad ha umilmente fatto dietrofront. Per Leilaz, «il messaggio è chiaro: Khamenei non ritiene che Ahmadinejad meriti necessariamente di restare presidente». E’ un cavallo azzoppato: la sua popolarità è crollata in piazza e in parlamento, tra «riformisti» e conservatori, per aver sperperato in 4 anni 300 miliardi di dollari di profitti del petrolio, portato l’inflazione al 25,4%, la disoccupazione al 12,5%. Il 12 giugno si avvicina. Ahmadinejad non ha ancora annunciato pubblicamente la candidatura. «Non è chiaro se abbia perso o meno l’appoggio di Khamenei», dice Esfandiari. Già nel gennaio 2008, la Guida suprema lo criticò perché non aveva fornito gas naturale alle province, lo costrinse a farlo. Ma mesi dopo lo definì un leader coraggioso nel difendere il nucleare e opporsi all’Occidente: «Comportati come se dovessi stare in carica per 5 anni», disse. L’emergere dal campo conservatore di un altro candidato, l’ex comandante dei Guardiani della Rivoluzione Mohsen Rezai, che ha accusato Ahmadinejad di «trascinare la patria nell’abisso», è letto da Leilaz come un’altra prova che Khamenei «stia considerando un presidente diverso da Ahmadinejad». «Rezai gli porterà via dei voti, ma non è una vera minaccia», dice invece Esfandiari. E Ali Fatemi, professore emerito all’Università americana di Parigi, crede che l’altro cavallo di Khamenei sia in realtà il cosiddetto «riformista» Mir Hossein Mousavi, premier negli Anni 80, poi dedicatosi ad architettura e pittura ma sostenuto ora dall’ex presidente Khatami. «Ha due cavalli — sostiene —, Ahmadinejad e Mousavi: entrambi sono obbedienti ». Ahmadinejad ha annullato ieri visite in Brasile, Venezuela, Ecuador (forse per evitare l’accoglienza fredda dovuta alle critiche di Israele e alla «preoccupazione » degli Usa per l’influenza iraniana in America Latina), recandosi in Siria, dove ha definito i sionisti «microbi distruttivi». Teheran ha fissato intanto per la prossima settimana l’appello di Roxana Saberi, la giornalista accusata di spionaggio per gli Usa. Il Paese continua a sfidare la comunità internazionale sui diritti umani: ieri è stato lapidato un uomo per adulterio; oggi due ragazzi di 18 e 19 anni condannati da minorenni rischiano l’impiccagione.
Il FOGLIO - Christian Rocca : " I cattivi a rapporto "
L’Iran resta il più attivo degli stati che sostengono il terrorismo”. La frase – chiara, diretta, palese – è contenuta in un rapporto dell’Amministrazione Obama, pubblicato la settimana scorsa dall’Ufficio antiterrorismo del dipartimento di stato. L’atto formale di accusa nei confronti del regime degli ayatollah di Teheran non lascia spazio a interpretazioni: “Il coinvolgimento dell’Iran nella programmazione e nel sostegno finanziario agli attacchi terroristici in medio oriente, in Europa e in Asia centrale ha avuto un impatto diretto sugli sforzi internazionali per promuovere la pace, ha minacciato la stabilità economica nel Golfo e ha messo a repentaglio la crescita della democrazia”. Il “Country Reports on Terrorism 2008”, preparato dal coordinatore antiterrorismo Ronald D. Schlicher, ribadisce che l’Iran è al centro della rete globale jihadista, che Hamas ed Hezbollah sono “organizzazioni terroriste” e che in Iraq il movimento di al Qaida è stato debellato. Il rapporto dell’Amministrazione Obama, se possibile, è ancora più diretto di quelli preparati dall’Amministrazione Bush: “Le Brigate Qods , l’ala elitaria del corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche, sono il meccanismo primario del regime per coltivare e sostenere i terroristi all’estero”, si legge nel corposo paragrafo dedicato all’Iran. Il rapporto smonta inoltre una delle tesi più diffuse in Europa in questi anni post 11 settembre 2001, quella secondo cui non è possibile che sciiti e sunniti possano collaborare, viste le loro differenze religiose. La cosa che sfugge alle analisi occidentali, ma evidentemente non a chi osserva che cosa succede sul campo, è che i principali nemici dell’Iran sono l’America e Israele, sicché gli ayatollah islamici aiutano qualsiasi tipo di gruppo terrorista, non importa se sciita o sunnita, che abbia gli stessi stati come obiettivo. Nel documento obamiano si legge che le Brigate Qods di Teheran “hanno fornito aiuti sotto forma di armi, addestramento e finanziamento ad Hamas e ad altri gruppi terroristici palestinesi, agli Hezbollah libanesi, ai militanti in Iraq e ai combattenti talebani in Afghanistan”. Con questo quadro, e senza considerare il dossier nucleare, sarà difficile per Barack Obama elaborare una strategia complessiva basata sul dialogo e, infatti, le ultimi indiscrezioni provenienti da Washington parlano di un’Amministrazione che ha capito che con Teheran si rischia di non ottenere nulla e che, per questo, sta provando a esplorare la strada siriana. La Siria, però, è un altro degli stati che secondo il rapporto dell’Amministrazione Obama sostiene, finanzia e aiuta il terrorismo islamico antiamericano e antioccidentale. Gli altri, con l’Iran e la Siria, sono l’islamista Sudan e Cuba. Come ai tempi di Bush, l’Arabia Saudita è vista più come un partner che come un paese che esporta l’ideologia dell’odio che alimenta i gruppi estremisti e terroristi. Il rapporto di Obama si sforza di sottolineare l’impegno del re saudita e della sua corte per debellare i gruppi terroristici, a cominciare da al Qaida, che operano nel loro territorio. Formalmente la revisione della “Iran policy” di Obama è ancora in corso e non sarà resa nota prima delle elezioni presidenziali di giugno a Teheran, ma nel frattempo il rapporto dell’antiterrorismo preparato dal dipartimento di stato fa notare che nello scorso anno “l’Iran è rimasto il principale sostenitore di gruppi che si oppongono implacabilmente al processo di pace in medio oriente. L’Iran fornisce armi, addestramento e finanziamento a Hamas e ad altri gruppi terroristici, compresi la Jihad islamica di Palestina e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina”. Il rapporto entra anche nello specifico, fornendo dettagli e cifre, e svelando che gli aiuti iraniani ad Hamas hanno rafforzato la capacità del gruppo estremista palestinese di colpire Israele: “Nel 2008, l’Iran ha fornito più di 200 milioni di dollari per finanziare Hezbollah e ha addestrato tremila combattenti Hezbollah nei suoi campi in Iran. Dalla fine del conflitto tra Israele e Hezbollah del 2006, l’Iran ha aiutato Hezbollah a riarmarsi, in violazione della risoluzione 1.701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”. L’Iran, secondo gli uomini di Obama, non fa danni soltanto nei territori palestinesi e in Libano, ma anche in Afghanistan e in Iraq. In Afghanistan, i corpi d’élite del regime iraniano forniscono ai talebani ogni tipo di addestramento, e poi armi, munizioni, razzi, granate, mortai ed esplosivi plastici. In Iraq, dove proprio due giorni fa, hanno lanciato missili contro un gruppo curdo-iraniano (cosa che non si erano mai permessi di fare negli anni di Bush), gli iraniani continuano a fornire sostegno e aiuti di ogni tipo ai guerriglieri iracheni che assaltano e uccidono le forze governative di Baghdad, le truppe della coalizione internazionale e “gli innocenti civili iracheni”. L’elenco degli esplosivi di fabbricazione iraniana trovati in Iraq è lungo, così come le prove di una collaborazione con Hezbollah nel territorio iracheno. L’Iran, secondo il rapporto dell’antiterrorismo americano, non fa niente contro i capi di al Qaida detenuti nelle sue carceri, non fornisce i nomi e naturalmente rifiuta di consegnarli ai paesi di origine. Ma l’accusa più grave è quella secondo cui gli iraniani “continuano a non controllare le attività di alcuni membri di al Qaida che sono scappati in Iran in seguito alla caduta del regime talebano in Afghanistan”. L’Iran, quindi, è un paese rifugio per i terroristi: non soltanto per “militanti e gruppi legati ad al Qaida”, ma anche per “i gruppi terroristi di Hezbollah e quelli palestinesi”. L’Iraq, invece, secondo gli obamiani “non è attualmente un rifugio sicuro per i terroristi, ma i gruppi sunniti come al Qaida in Iraq, Ansar al Islam, Ansar al Sunna, così come gli estremisti sciiti e altri gruppi, vedono l’Iraq come un potenziale rifugio sicuro”. Ed è probabilmente questa una delle ragioni per cui Obama non s’è ritirato dall’Iraq, ci rimarrà in forza fino al 2011 e lascerà almeno cinquantamila soldati anche dopo. L’antiterrorismo di Obama riconosce che il governo iracheno, in coordinamento con le forze della coalizione internazionale, ha compiuto progressi significativi nel combattere al Qaida e gli altri gruppi, fino a far diminuire sensibilmente la minaccia: “Al Qaida, malgrado sia ancora pericolosa, ha subìto l’abbandono di suoi esponenti, ha perso zone chiave per la mobilitazione, ha visto sparire infrastrutture e finanziamenti ed è stata costretta a cambiare priorità e obiettivi”. L’analisi dell’Amministrazione Obama rende merito al “surge” politico e militare ordinato alla fine del 2006 da George W. Bush e osteggiato dall’allora senatore Obama: “Un numero di fattori ha contribuito al sostanziale deterioramento di al Qaida in Iraq: l’alleanza di convenienza e lo sfruttamento reciproco tra Al Qaeda e molte delle popolazioni sunnite si è deteriorata. Il piano di sicurezza di Baghdad, iniziato nel febbraio 2007, assieme all’assistenza in primo luogo di gruppi tribali sunniti e locali, è riuscito a ridurre la violenza ai livelli della fine del 2005, ha interrotto e ridotto l’infrastruttura di al Qaida e ha costretto alcuni combattenti di al Qaida sopravvissuti a lasciare Baghdad e Anbar per le province settentrionali di Ninive, Diyala e Salahuddin”. Il nuovo Iraq, secondo il rapporto del dipartimento di stato, “resta un partner impegnato negli sforzi antiterrorismo. Il governo, con il sostegno delle forze della coalizione, continua a fare progressi significativi nel combattere al Qaida e le organizzazioni terroriste affiliate, così come gli elementi di milizia sciita impegnati nelle attività terroriste”. Il governo iracheno ha provato le vie diplomatiche per convincere gli iraniani a smettere di sostenere le attività terroristiche nel territorio su cui un tempo regnava il dittatore Saddam Hussein. In più occasioni l’esercito iracheno oggi guidato dagli sciiti è stato costretto a usare la forza ed è riuscito a prevalere contro i gruppi estremisti sciiti aiutati da Teheran. “Affinché il governo iracheno continui a costruire le sue capacità di combattere le organizzazioni terroristiche – si legge nel documento dell’Amministrazione Obama – sarà decisivo un continuo sostegno internazionale. I servizi segreti iracheni continuano a migliorare in competenza e fiducia, ma necessitano di continuo sostegno perché possano diventare capaci di identificare e rispondere a minacce terroristiche interne ed esterne”. Non è soltanto l’Iran a porre problemi all’Iraq. I terroristi stranieri provenienti dall’Africa del nord e da altri paesi mediorientali continuano a entrare in Iraq “prevalentemente attraverso la Siria”, anche se il numero dei jihadisti in trasferta è decisamente inferiore rispetto al 2007. Il rapporto del dipartimento di stato dedica un capitolo alle armi di distruzione di massa e alla possibilità che uno stato possa fornire tecnologia e armi di sterminio alle organizzazioni terroristiche. I gruppi jihadisti, si legge nel rapporto, cercano di ottenere in modo indipendente le armi di sterminio, ma la via più diretta è quella della collaborazione con gli stati dotati di know how tecnologico. L’attenzione principale, secondo l’ufficio antiterrorismo del dipartimento, va rivolta sugli stati che sponsorizzano il terrore e che sono in possesso di tecnologie e programmi militari nucleari, biologici e batteriologici. Il maggiore indiziato è di nuovo l’Iran. L’Amministrazione Obama riconosce al predecessore George W. Bush il merito e il successo di un’iniziativa internazionale che ai tempi fu giudicata unilaterale e fuori dai confini del multilateralismo tradizionale: “Nel 2003 – si legge nel rapporto dell’Amministrazione Obama – gli Stati Uniti hanno annunciato la prima Strategia nazionale per combattere le armi di distruzione di massa. Attraverso una serie di iniziative multinazionali come la Global Threat Reduction Initiative, la Proliferation Security Initiative e la Global Initiative to Combat Nuclear Terrorism, gli Stati Uniti hanno assunto il ruolo di leader mondiale nella riduzione della minaccia del passaggio di armi di distruzione di massa nelle mani di gruppi non statali e di terroristi”. In particolare, si legge nel documento dell’antiterrorismo, ha avuto grande successo e merita una “menzione speciale” la “Proliferation Security Initiative” elaborata e seguita nel 2003 da John Bolton, l’ex ambasciatore americano all’Onu che allora era uno dei vice di Colin Powell al dipartimento di stato. Bolton è stato il funzionario bushiano più criticato dai democratici e dalle cancellerie occidentali per i suoi modi bruschi, ma ora è l’Amministrazione Obama a riconoscere che la sua iniziativa internazionale, costruita fuori dalle Nazioni Unite, ha avuto un grande successo nel fermare, controllare e regolamentare i traffici di tecnologia legata alle armi di distruzione di massa. Sono novantaquattro i paesi che hanno aderito al nuovo patto proposto da Bush. Ma è ancora l’attivismo dell’Iran a non rendere tranquilla l’Amministrazione Obama. Il capo dell’antiterrorismo Ronald Schlicher, alla conferenza stampa di presentazione del rapporto, ha detto: “Siamo ancora preoccupati dalle indicazioni secondo le quali gli iraniani potrebbero cercare di espandere la loro influenza in altre parti del mondo”.
La REPUBBLICA - Francesca Caferri : " Salvate mia figlia Roxana giornalista prigioniera in Iran "
LA sorte di Roxana Saberi, la giornalista iraniano-americana condannata a otto anni di carcere in Iran con l´accusa di spionaggio, sarà decisa fra una settimana. L´annuncio dell´inizio del processo di appello porta nella casa di Teheran che la famiglia Saberi usa come base in queste settimane un alito di speranza. «È innocente, speriamo che venga riconosciuto e possa uscire subito», dice al telefono il padre della giornalista, Reza Saberi. Iraniano di nascita, americano di adozione, è tornato nel suo paese di origine per assistere la figlia. Ne è stato lontano a lungo, ma non abbastanza per farsi illusioni. Il signor Saberi sa quanto possa essere dura la giustizia iraniana: l´impiccagione di Delara Darabi nei giorni scorsi e quella di altri due giovani condannati a morte per reati commessi quando erano minorenni – prevista per oggi – hanno gettato su di lui un senso di angoscia. Come la notizia, arrivata ieri, della lapidazione di un uomo riconosciuto colpevole di adulterio. Signor Saberi, come sta Roxana? Ha potuto vederla in questi giorni? «L´abbiamo vista ieri. È molto debole: non mangia da quattordici giorni. Per due giorni ha smesso anche di bere. L´hanno dovuta portare in infermeria e farle un´endovena. Ora ha ricominciato a bere. Le ho chiesto di smetterla con questo sciopero, le ho detto che ci sono persone fuori pronte a proseguire al suo posto: ha promesso che ci penserà. Sono davvero preoccupato per la sua salute». E il morale? «Il morale è buono. È innocente, sa di esserlo e pensa che uscirà da questa storia presto e da innocente». Ha subito abusi o torture secondo quello che lei ha potuto vedere o sua figlia ha potuto dirle? «No, nessun abuso fisico. Ma in quell´ambiente si è sottoposti a pressioni psicologiche che non possono lasciare indifferenti». Quante speranze riponete nell´appello? «Molte, perché sappiamo che è una giornalista e non una spia. Ma siamo anche realisti. E se non ci sarà una sentenza a nostro favore, siamo pronti a chiedere la grazia. Vogliamo solo che Roxana esca al più presto». La grazia implica un´ammissione di colpevolezza: cosa ne pensa Roxana? «Non è d´accordo. Vuole uscire da innocente. Ma noi siamo troppo preoccupati per lei per non pensare alla grazia». Gli iraniani dicono che ha confessato di essere una spia… «Non sapeva neanche cosa firmava. Ha firmato un documento solo perché le hanno detto che l´avrebbero rilasciata. Ma poi, quando ha capito, ha ritrattato subito». Due giorni fa un portavoce del ministero degli Esteri iraniano ha chiesto di cessare ogni interferenza nel caso di sua figlia: lei cosa ne pensa? «Gli iraniani non vogliono tutto il rumore che si è creato intorno a questo caso. È naturale. Ma il mondo non può assistere indifferente. Non abbiamo chiesto noi di iniziare questa campagna, ma oggi è bello sapere di non essere soli. Anche mia figlia non si aspettava tutto questo supporto, ma ne è felice. La fa sentire meno sola». Non teme però che tanta pressione internazionale possa trasformarla in una pedina nel braccio di ferro fra gli Stati Uniti e l´Iran? «Non voglio che Roxana diventi merce di scambio in una partita politica internazionale. È la cosa che vorrei evitare di più. Ma purtroppo temo che sia già avvenuto, che il gioco sia già molto più grande di lei e della sua storia». Lei è iraniano, conosce il suo paese e sa quanto alle volte possa essere pericoloso: ha tentato di dissuadere Roxana dal passare tanto tempo in Iran e dal lavorarci? «Ha calcolato i rischi. Sapevamo che era pericoloso, io glielo avevo anche ripetuto. Ma è molto difficile tentare di interferire con le decisioni di mia figlia, mi creda. Di certo posso dirle che mai si sarebbe aspettata una cosa del genere. Né lei né noi. È stata qui per sei anni e solo negli ultimi tre mesi ha avuto problemi: perché?». Nei giorni scorsi nelle carceri iraniane è stata impiccata Delara Darabi, una ragazza poco più giovane di sua figlia. Che effetto le ha fatto sapere della sua morte? «Non mi sento di fare un paragone. Sono storie troppo diverse: quella ragazza era accusata di omicidio. Io spero solo che il nostro incubo finisca presto. Spero che troveremo un modo per portare via Roxana. Il suo stato di salute è davvero preoccupante. Vorrei convincerla a resistere lì dentro senza mettere a ulteriore rischio il suo corpo: ma lei pensa solo che dovrebbe essere liberata perché è innocente».
Il RIFORMISTA - " Dalla Siria Ahmadinejad ancora contro Israele "
Dalla Siria Ahmadinejad ancora contro Israele «Un microbo distruttore», sinonimo di «occupazione» e di «aggressione»: il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha così definito lo Stato di Israele nella conferenza stampa tenuta ieri a Damasco, dove ha incontrato il presidente siriano Bashar al Assad. «li sionismo è stato creato per minacciarci, sostenere la resistenza palestinese è un dovere umanitario e popolare: la Siria e l'Iran sono uniti ed a fianco della resistenza palestinese», ha continuatoA hmadinejad, che ha anche denunciato «l'occupazione» da parte degli Stati Uniti di alcuni Paesi della regione: «Sono visitatori non graditi che devono lasciare l'Afghanistan e le frontiere del Pakistan».
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